Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Eutanasia della critica
Conversazione con Mario Lavagetto
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- gennaio 2006
Nella vita intellettuale assumere un atteggiamento elitario le sembra necessario? E altrettanto, socialmente parlando?
Se mi guardo intorno, la tentazione è quella di dire che un simile atteggiamento è dolorosamente inevitabile. Ci sono troppe cose – come ho ricordato all’inizio - a cui si è indotti a dire di no per un elementare rispetto di se stessi e delle proprie convinzioni culturali e politiche. Tuttavia è una conclusione fallimentare, un po’ da sopravvissuti.
Pensa che la posizione di “outsider” possa essere un vantaggio dal punto di vista intellettuale?
Sì… credo di sì. Un bagaglio relativamente leggero aiuta a muoversi con maggiore disinvoltura, diminuisce il peso delle inibizioni che inevitabilmente gravano su chi scrive, se è costretto a misurarsi con una tradizione opprimente. Questo non toglie che, in ogni caso, fino a quando non diventano paralizzanti, le contraintes consapevolmente assunte mi sembrano salutari.
Si è mai sentito un “outcast”, un escluso, come molti intellettuali francesi amano definirsi?
Mi è accaduto, e mi accade, molto spesso. Vivo in modo appartato e seguendo itinerari poco frequentati. Questo, tuttavia, non mi suggerisce nessuna forma di compiacimento, se mai mi rende consapevole di una serie di mancanze, di limiti che non sono riuscito a superare o, almeno, ad aggirare.
Bataille, Barthes, Blanchot, Klossowski, Foucault, Deleuze e Derrida… Seguì via via con attenzione le proposte teoriche di questi ‘maîtres à penser’? E a chi tra di essi rivolse in particolare le sue simpatie?
Li ho letti con molta curiosità e, in alcuni casi, con grande coinvolgimento. Li ho anche utilizzati in diverse occasioni, cercando sempre di conservare – nei loro confronti – una distanza di sicurezza. Ne ho ricavato stimoli significativi, ma ho sempre pensato che si trattasse di esperienze intellettuali affascinanti e tuttavia fornite di una specificità forte che le rendeva poco esportabili, o esportabili solo con molta cautela. Per questo ho adottato nei loro confronti una sorta di tattica dell’intempestività; non mi sono affrettato a sfruttarli subito dopo averli letto e, forse per questo, non ho mai sentito il bisogno di sbarazzarmene.
Parlando di Bellezza, l’amico Prof. Emilio Garroni mi disse una volta di non aver nessunissima idea al proposito. “Anzi confesso di detestare le maiuscole e in particolare la ‘Bellezza’ con la maiuscola. Oppure no, un’idea ce l’ho. Dato che ‘bellezza’ non è che un nome che designa certe nostre esperienze, allora penso che esso equivalga a ‘senso’, che designa ciò che condiziona la nostra esperienza in genere. Ecco: ogni volta che troviamo un senso nelle cose, un ‘senso’ ho detto, non la ‘verità’, allora ci incontriamo con la bellezza”. Per lei, con che cosa coincide o vorrebbe coincidesse la Bellezza?
Leopardi ha scritto nello Zibaldone: "Teofrasto definiva la bellezza siwposan apathn. Pur troppo bene: perché tutto quello che la bellezza promette, e par che dimostri, virtù, candore di costumi, sensibilità, grandezza d'animo, è tutto falso. E così la bellezza è una tacita menzogna. Avvertì però che il detto di Teofrasto è più ordinario, perché apath non è propriamente menzogna, ma inganno, frode, seduzione, ed è relativo all'effetto che la bellezza fa sopra altrui, non al mentire assolutamente." Eliminato ogni accento etico, mi verrebbe da dire che la bellezza è il punto preciso in cui il confine tra la bugia e la verità scompare, proprio perché prerogativa di una bugia perfetta è di essere irriconoscibile: non ci sono residui, né scorie, né tracce; non c’è doppio fondo; c’è solo una superficie compatta e per sempre enigmatica.
E qual è la sua idea di volgarità?
In generale potrei dirle che la mia idea di volgarità è perfettamente condensata ed espressa in ogni gesto, parola, atteggiamento del nostro presidente del consiglio. È una sintesi a suo modo sublime e, penso, ineguagliabile perfino dai suoi più stretti collaboratori e sodali. Su un piano più specifico credo che si tratti di un fenomeno invasivo e difficilmente localizzabile: forse per definirla e metterla in luce bisognerebbe costituire un agile, ma dettagliato dizionario, una specie di codice negativo col rischio di essere costretti, momento per momento, a riconoscere le proprie violazioni, magari del tutto preterintenzionali e tuttavia non meno sintomatiche. In ogni caso credo che non sia possibile sentirsi immuni; basta un abbassamento anche momentaneo della vigilanza per accorgersi di parlare per interposta persona, travolti da quella diffusa ecolalia, da quel mimetismo ottuso che sono – mi sembra – una delle manifestazioni più clamorose, meno arginabili della volgarità.
Occupatevi di politica o la politica si occuperà di voi, si diceva in un film di Truffaut… Bene… Didier Anzieu scriveva che “l’azione politica si basa su una condotta strategica (manipolazioni, astuzie, provocazioni, seduzioni, minacce, coalizioni, pressioni, compromessi, etc.); l’azione psicoanalitica smonta le strategie, le astuzie, i compromessi dell’Io e dell’inconscio e porta il soggetto a essere capace, almeno con coloro che ama o con i quali collabora, di una condotta autentica e non più strategica. È difficile portare avanti con perseveranza e con successo due atteggiamenti così diversi. Del resto l’etnologia ci insegna che, nelle società cosiddette primitive, la funzione di iniziazione è generalmente dissociata dall’esercizio del potere politico. Solo le società totalitarie mirano oggigiorno a subordinare interamente al potere politico o economico la formazione degli uomini”. La realtà politica e sociale e la realtà psichica personale appaiono anche a lei così irriducibili l’una all’altra?
Saba ha detto una volta che la premessa necessaria di ogni autentica rivoluzione politica avrebbe dovuto essere una rivoluzione individuale di natura psichica. Non so se avesse ragione; penso tuttavia che una vera azione politica non possa non indurre anche una serie di profonde, di radicali modificazioni private: nei comportamenti, ma anche nei modi di pensare e persino negli affetti. Quanto poi a quello che dice Anzieu, io non sono – né avrei voluto essere – uno psicoanalista e quindi potrei dire che la cosa non mi riguarda. In realtà mi infastidisce ogni volta che qualcuno rivendica, nei confronti della politica, una posizione di differenza e di privilegio: io, sembra dire Anzieu, non posso “cascarci”; cosa poi voglia dire quando contrappone “autenticità” e “strategia” resta per me un mistero assoluto.
Esistono delle sostanziali intese tra lei e Francesco Orlando, che da anni ha polarizzato i suoi interessi sull’incidenza della letteratura nella psicoanalisi?
Ho molta simpatia umana per Francesco Orlando e ho grande stima del suo lavoro. Detto questo, credo che abbiamo seguito strade diverse e che i nostri nomi (un tempo si sarebbe detto i nostri “destini”) siano stati arbitrariamente associati all’insegna di Freud a cui ci siamo accostati, sia lui che io, in modi personali e del tutto idiosincratici.
Si disse di Mircea Eliade che era un uomo e uno studioso per cui i libri avevano più peso degli dèi. E per lei?
Non credo negli dei… neppure quando assumono, clandestinamente, la forma di libri.
Doriano Fasoli
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