Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Eutanasia della critica
Conversazione con Mario Lavagetto
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- gennaio 2006
Quali sono alcuni testi letterari che, a suo avviso, contengono già al loro interno la psicoanalisi?
Le farò un solo esempio su cui aveva già richiamato l’attenzione, a suo tempo, Jacques Rivière: l’opera di Marcel Proust. Il quale di psicoanalisi aveva certamente sentito parlare, ma che aveva evitato di conoscerla direttamente con lo stesso scrupolo con cui Freud aveva evitato Nietzsche e, forse, per le stesse ragioni: per eccesso di vicinanza. In realtà i punti di contatto sono numerosi; basterebbe, per averne conferma, prendere in mano un articolo che Proust scrive all’inizio di febbraio del 1907 e che si intitola Sentiments filiaux d’un parricide per trovarsi di fronte a uno sguardo, a un approccio, a una posizione dei problemi che non possono non richiamare con prepotenza Freud. Soprattutto tanto Freud quanto Proust ci mettono di fronte a qualcosa che non ha più nulla a che fare con il palcoscenico della psicologia classica su cui si muovevano delle astrazioni incaricate di annodare una serie di casi più o meno probabili; sia l’uno che l’altro fanno della parola, del racconto, il corpo su cui esercitare una sorta di arte semeiotica e sfuggono in tal modo al mondo di fantasmi dentro cui sembravano condannati ad aggirarsi i loro predecessori. In un frammento, all’altezza delle prime pagine di Sodome et Gomhorre, Proust dichiara che il suo compito, quello che ha caratterizzato il suo lavoro, è consistito nel portare alla luce alcune “di quelle leggi inconsce” che sentiva agire dentro di sé, ”altrettanto numerose, altrettanto incessanti e sconosciute a se stesse di quelle che esistono nei nostri organi, negli animali, nelle piante”. A tal punto che il suo libro dovrebbe rendere conscio e formulabile per noi “ciò che in origine è inconscio”. Come non ricordarsi della famosa formula: “Wo Es ist, soll Ich werden”?
L’arte che promette di durare nel tempo, diceva Kohut, ha una sua coesione interiore. Essa esprime in una forma unificante un elemento che proviene dalla mente umana… Qual è per lei l’elemento discriminante nella differenziazione tra un prodotto scadente, o destinato a produrre soltanto un effetto sorprendente, e un serio tentativo di esprimere nell’arte una nuova visione del mondo?
È quasi impossibile indicare un singolo elemento. Se, tuttavia, si accetta la scommessa direi che una delle discriminanti può essere indicata in quella che in un quadro si definisce la qualità della “materia”. Non necessariamente una “buona materia” garantisce di trovarsi di fronte a un capolavoro, ma il responso fornito da una “materia scadente” mi appare incontrovertibile. È ovvio che, una volta abbandonato l’ambito specifico, ci si trova tra le mani una metafora che andrà adeguata caso per caso. Nella narrativa, ad esempio, non sarà soltanto la lingua, ma saranno anche l’invenzione, l’esecuzione dei dettagli, la presenza di un disegno perseguito con fermezza e coerenza, la capacità di sottrarsi alle convenzioni e alla stereotipia degli intrecci.
Lei ha insegnato Teoria della letteratura a Bologna: perché ha deciso a un certo punto di lasciar… ’perdere’, l’Università? Si sente agli antipodi del professore? Detesta spiegare, e soprattutto spiegarsi?
No. Non mi sento agli antipodi del professore: ho cercato di farlo per più di trent’anni con il massimo di impegno e di scrupolo possibili, preparando le lezioni con molta cura, non ripetendo mai lo stesso corso, correggendo e tornando a correggere le tesi che seguivo fino a quando non riuscivo a insegnare la sola cosa che si può insegnare: vale a dire il mestiere, il corretto artigianato molto meno diffuso di quanto abitualmente si creda. Ancora meno detesto spiegare e spiegarmi: mi è accaduto spesso di arrivare a capire cose che mi erano sfuggite, o di cui non ero riuscito a venire a capo nel mio lavoro, a forza di impegnarmi a chiarirle per i miei studenti. In questo credo di essere un illuminista accanito e ho sempre cercato di assumermi la piena responsabilità di quello che pensavo e di quello che volevo dire senza accontentarmi di approssimazioni che pure, ne ero consapevole, in alcune circostanze mi avrebbero permesso di trovare una via di fuga o di ridurre la mia responsabilità. Non solo: buona parte dei miei lavori (forse quelli che amo di più) sono nati dalla paziente elaborazione e rielaborazione dei miei corsi universitari tanto che spesso ho avuto la sensazione che, chi mi ascoltava, e talvolta interloquiva, abbia avuto una parte non piccola, magari soltanto fantasmatica, nel determinare la mia scrittura, la mia strategia di approccio ai testi. Ho deciso di lasciar perdere quando sono intervenute, nell’ordinamento universitario, modificazioni radicali su cui non mi sento di esprimere una valutazione, ma che mi avrebbero impedito di impostare il mio lavoro così come avevo fatto in passato (corsi non più annuali ma semestrali, crediti, limiti dei programmi e delle letture). Era arrivato il momento, mi sembrava, di lasciare il campo ad altri più giovani e più flessibili.
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