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Riflessioni in forma di conversazioni

Riflessioni in forma di conversazioni

di Doriano Fasoli

Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice


Eutanasia della critica

Conversazione con Mario Lavagetto
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it

- gennaio 2006
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Professor Lavagetto, se dovesse definirsi come si definirebbe?
Premesso che preferirei non definirmi in nessun modo, se proprio fossi costretto a farlo direi che sono un “lettore”. Se poi non ci si accontentasse di questo e si volesse da me una definizione più pertinente al mio lavoro, direi che – partendo dalle mie letture – ho compiuto una serie di tentativi che miravano alla costituzione di una sorta di microingegneria dei testi letterari.

Le sembra che a tutt'oggi la cultura continui ad adottare un atteggiamento difensivo nei confronti della psicoanalisi?
No. Non credo. Credo, viceversa, che della psicoanalisi si faccia un uso approssimativo e disinvolto, basato su alcuni stereotipi e – spesso – incline a una interpretazione generale e indifferenziata. In questo modo la psicoanalisi viene trasformata in un grossolano e comodo passepartout, in un sapere surrettizio che permette la costruzione di piccoli romanzi, di trame segrete di cui l’occasionale interlocutore sarebbe all’oscuro. Nonostante le sue imprudenze congiunturali
Freud (dal quale, diceva Wittgenstein, ci si può aspettare sempre intelligenza, raramente saggezza) sarebbe inorridito.

Molti studiosi, digiuni di cognizioni psicoanalitiche, non mancano di esaltare alla prima occasione le straordinarie doti letterarie di Freud, salvo riconoscerne la fondamentale attività teorico-clinica. Lei cosa ne pensa?
In questo caso mi sembra difficile non riconoscere in un simile atteggiamento un gesto di difesa compiuto con mezzi economici e con apparente, salomonica disponibilità. Freud, dal canto suo, ne era perfettamente consapevole e, in questo senso, io credo vanno lette le sue ripetute dichiarazioni: “Io non sono uno scrittore”. Aveva, infatti, la netta sensazione che in tal modo venisse riproposto, in forma aggiornata, un giudizio pronunciato – a commento di una sua conferenza – da Krafft-Ebing, giudizio impietoso e che lo aveva, al tempo, profondamente ferito: “Niente altro che una favola scientifica”. Non voleva in ogni caso apparire come il creatore di una seducente fiction che si fosse imposta a un pubblico corrivo grazie al proprio splendore stilistico.

Come spiega il successo di critica e di pubblico ottenuto dal suo “Freud la letteratura e altro”, uscito più di vent’anni fa per Einaudi e ormai considerato un classico?
Non sono in grado di rispondere a una simile domanda e non sono nemmeno così sicuro del successo del libro. Posso solo dire come è nato e in che cosa consisteva la sua relativa novità. Alla sua origine c’era una scommessa con me stesso. Mi ero laureato con Giacomo Debenedetti con una tesi su
Campana e avevo fatto molte letture di Freud, di Jung, dei loro epigoni. Mi ero occupato di Saba e di Svevo due autori che, sia pure in modo diverso, avevano utilizzato esplicitamente la psicoanalisi come materiale da costruzione. Volevo prendere Freud di petto dopo averlo utilizzato obliquamente e così ho letto e riletto le sue opere complete, gli epistolari che uscivano man mano, i sottovalutati verbali della Società psicoanalitica, le testimonianze degli allievi, i saggi più importanti che a Freud e alla psicoanalisi erano stati dedicati, le grandi riletture della teoria come quella proposta da Lacan o, prima ancora e a latitudini diversissime, da Melanie Klein o da Winnicott. Dopodiché mi sono sentito in grado di affrontare e di definire la mia scommessa: volevo non elaborare una teoria freudiana della letteratura, ma leggere Freud alla luce delle mie competenze, della mia formazione, utilizzando i mezzi che mi erano offerti dalla mia educazione letteraria per leggere il testo freudiano e non viceversa. Per questo il titolo originale del libro (a cui purtroppo ho rinunciato su sollecitazione dell’editore che voleva il nome di Freud bene in vista) era Un passo indietro. Freud e la letteratura: un modo, mi sembrava, per sottolineare una strategia, per indicare subito il mio intento non di tornare, ma di fermarmi alla lettera con una specie di partito preso filologico che mi ha portato a elaborare migliaia di schede e poi a ricomporle pazientemente (e in modo certamente “freudiano”) fino a ricavare dal mio rompicapo delle figure plausibili. Nell’edizione francese il titolo suggerito dalla redazione del Seuil ha elaborato una sorta di abile compromesso: Freud à l’épreuve de la littérature.

Come suggerirebbe di leggere “La cicatrice di Montaigne”?
Due dei lettori più intelligenti, Giancarlo Roscioni e Guido Almansi, avevano colto subito una freccia direzionale che io avevo messo sotto gli occhi di tutti riprendendo il titolo del primo saggio di Mimesis che è La cicatrice di Ulisse. A parte la mia ammirazione per quel libro, c’era anche la volontà di allineare una serie di ricognizioni non sistematiche servendomi di un filo conduttore. Se dovessi rivolgere un invito a chi legge, comincerei probabilmente con il ricordare quanto scrivevo nell’introduzione, vale a dire inviterei a partire dalla bugia come da un minuscolo congegno narrativo che, se ben costruito, risulta impenetrabile e lascia alla verità una sola via per manifestarsi: l’errore, il lapsus di chi ha messo in piedi quel dispositivo di occultamento. Per questo – se proprio potessi dare forma al mio lettore ideale – direi che dovrebbe essere molto paziente e leggere in parallelo anche Stanza 43. Un lapsus di
Marcel Proust e La macchina dell’errore. Per me si tratta di un unico lavoro che ha condizionato il mio cammino ulteriore. Sarei felice se l’unità del disegno fosse visibile e, soprattutto, se fossi riuscito a trasmettere un po’ del piacere che ho provato nel compiere le mie ricognizioni scegliendo di volta in volta delle vie d’ingresso poco frequentate.

 


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