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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

Platone e le Upanişad

di Giorgio Peri - Novembre 2017

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- Introduzione
- Riflessione Metodologica
- Platone e le Upanişad
- Upanişad: Storia e terminologia

- Elenco delle Upanişad e breve dizionario terminologico
- Platone
- Le analogie tra Platone e le Upanişad rilevate nel testo di Scroccaro

- Altre analogie tra Platone e le Upanişad

- Considerazioni finali
- Bibliografia

 

ALTRE ANALOGIE TRA PLATONE E LE UPANIŞAD

 

Le classi sociali

Nella Repubblica, Platone, tramite le parole di Socrate, traccia le linee di base dello Stato ideale, dove vige una giustizia teoricamente perfetta. La città deve essere pensata in rapporto alla tripartizione dell'anima umana e quindi essere ripartita in tre “classi” sociali: quella aurea (governanti-filosofi), quella argentea (custodi-guerrieri) e quella bronzea (produttori). La classe dei produttori (artigiani, popolo) ha come caratteristica la temperanza (virtù relativa all'anima concupiscibile, il cavallo nero della biga alata); la classe dei guardiani o guerrieri ha come caratteristica il coraggio (virtù propria dell'anima irascibile, il cavallo bianco della biga alata); la classe dei reggitori dello Stato, infine, cioè quella dei re-filosofi, ha come caratteristica la saggezza (virtù dell'anima razionale, l'auriga della biga alata). “A quanto pare, dunque, in questa gara per la virtù dello Stato, si trova nella Città, insieme con la sua sapienza, temperanza e coraggio, anche l'attitudine a fare ciascuno quel che gli tocca”(1). Questa divisione di compiti e di eccellenze, secondo Platone, non sarebbe però operata dagli uomini, bensì dalla natura, una forza superiore all'uomo, che rende lo stesso cittadino tale fin dalla nascita(2). Lo Stato ha un'origine naturale: si tratta di una teoria che si differenzia da quelle moderne, propense a pensare lo Stato come oggetto di un contratto sociale. Da rimarcare anche che, secondo Platone, esiste la possibilità che un uomo aureo possa nascere da due uomini di bronzo: tramite l'educazione però potrà elevarsi fino al governo della città. Ne consegue che le “classi sociali” platoniche non sono caste chiuse come quelle indiane. 
La classe dei governanti-filosofi deve detenere il potere, in quanto costoro sono gli unici che dispongono della natura adatta e hanno acquisito i mezzi intellettuali appropriati per non far sprofondare la città nel caos e nel conflitto interno ed esterno: “Non ci sarebbe tregua dai mali nelle Città, e forse neppure nel genere umano, e direi di più, quella stessa costituzione che andiamo delineando non metterebbe radici fra le cose possibili né vedrebbe la luce del sole se prima i filosofi non raggiungessero il potere negli Stati, oppure se quelli che oggi si arrogano il titolo di re e di sovrani non si mettessero a filosofare seriamente e nel giusto modo, sì da far coincidere nella medesima persona l'una funzione e l'altra – ossia il potere politico e la filosofia – e da mettere fuori gioco quei molti che ora perseguono l'una cosa senza l'altra”(3).

Passiamo ora al versante orientale per considerare le caste indiane. Mircea Eliade scrive al proposito: “Nell'India antica c'è una precisa corrispondenza tra le classi sociali dei brahmana (sacerdoti, sacrificatori), kşatriya (militari, difensori della comunità) e vaisya (produttori) con gli Dei Varuna e Mitra, Indra e i gemelli Nasatya”(4).

Angelo Brelich, sempre a proposito delle caste indiane, ricorda che “sin dal periodo vedico, la società arya dell'India era divisa in tre classi (base delle future e molto numerose caste), quella dei Brahmani da cui provenivano i sacerdoti, quella dei guerrieri (e virtuali re, perché il re proveniva esclusivamente da questa classe) e quella dei lavoratori (soprattutto agricoltori, ma anche artigiani, commercianti, ecc.); al di fuori di queste tre classi rimanevano gli autoctoni considerati in blocco come inferiori”(5). 
Le Upanişad danno naturalmente una spiegazione metafisico-cosmologica, e non storica, economica o sociale, dell'origine delle caste, che potrebbero provenire, ad esempio dal soffio vitale o prana: “Come i raggi sul mozzo della ruota, tutto ciò che esiste è fondato sul prana: le rc (inni vedici), gli yajus (formule sacrificali), i saman (melodie liturgiche), il sacrificio, lo kşatra (il potere regale, la casta dei guerrieri), il brahman (lo Spirito, la casta dei brahmana)”(6).

“In tal modo esistono brahman, ksatra, vis e sudra...”(7): “Questi sono i nomi delle quattro caste indiane, le prime tre degli arii e l'ultima dei non arii, collettivamente concepite...”(8).

In conclusione, su questa prima analogia, le due strutture sociali risultano molto simili, con alla base gli schiavi sia in Grecia che in India. La prima vera classe sociale è, per entrambe le civiltà, quella dei produttori di ricchezza, degli artigiani. A salire poi troviamo i guerrieri e i re-saggi-sacerdoti. Secondo il concetto platonico il guerriero dovrebbe essere alle dipendenze del re-filosofo, mentre nelle Upanisad, seppur il sacerdote-saggio sia teoricamente più in alto nella gerarchia sociale rispetto al re-guerriero, accade spesso che sia il re a impartire lezioni di saggezza religiosa al sacerdote: lo si evince ad esempio nella Bŗhad-araņyaka-upanişad  ove si narra che il principe  Pravahana Iaivali istruisce il brahmana Gautama (VI 2, 7) e il re Ajatasatru  di Benares insegna il supremo vero al brahmana Drptabalaki (II 1,15).

Interessante notare anche come la donna potesse, in questo primo periodo storico descritto dalle più antiche fra le Upanisad, accedere alla sacra sapienza: ricordiamo il dialogo fra Yajnavalkya e la moglie Maitreyi (Bŗhad-araņyaka-upanişad, II 4). Anche Platone ammette che la donna possa divenire regina-filosofa e inoltre viene spontaneo accostare quest'ultima figura indiana di femminile saggezza a quella di Diotima che nel Simposio dispensa il sapere più profondo a Socrate (201 d, 212 c).

 

La trasmigrazione delle anime

“Molto spesso i miti platonici trattano dell'anima (della sua natura, del destino che l'attende dopo la separazione dal corpo. In verità, …, l'anima rappresenta un elemento cruciale dell'attività mito-poietica platonica, non solo perché costituisce l'oggetto intorno al quale vertono molti miti, ma anche perché l'anima (e le sue parti) è il destinatario privilegiato del discorso mitico”(9) .
Platone si occupa della trasmigrazione delle anime in Repubblica, Fedro, Timeo e Leggi.
Nel Gorgia invece si parla del destino dell'anima che sembrerebbe non reincarnarsi (anche se non tutti gli interpreti sono concordi): essa viene sottoposta al giudizio finale e definitivo basandosi sul comportamento pregresso nel corso della vita terrena. “...nel Gorgia non vi sono strade che riconducano dal Tartaro e dalle isole dei beati; mancano daimon e trasmigrazione”(10) .
“Il Fedone è un'opera interamente dedicata all'immortalità dell'anima e dunque non deve sorprendere che a chiuderla sia un racconto sul destino che attende l'anima dopo la separazione dal corpo”(11). Anche in questo testo sembra però preclusa la reincarnazione delle anime. Si legge infatti: “I premi e le punizioni sono di tipo tradizionale e non vengono attuati per mezzo di appropriate incarnazioni”(12) .
Il testo più significativo, per quanto attiene la reincarnazione, pare comunque essere quello della Repubblica, relativo al “Mito di Er”(13).
Mario Vegetti scrive circa questo mito: “Sono stati tracciati, poi, parallelismi con i Veda e le Upanisad per la descrizione del regno dei morti e per cosmologia e astronomia/ordine delle stelle”(14); e, più avanti: “nel mito di Er, rispetto agli altri, vi è un forte rinvio all'Oriente che compare nei nomi, forse nella descrizione del fuso e dei colori dei cerchi, nel tema stesso della storia”(15).
Vi è, nel commento di Vegetti, addirittura un paragrafo intitolato Platone e l'Oriente nel quale si legge: “Il tema di eventuali influssi orientali sul mito di Er è un capitolo complesso e – io credo – destinato a restare aperto”(16).

Nel mito in questione si narra del viaggio nell’aldilà del guerriero Er, che caduto in battaglia di morte apparente, poi ritornato in questa vita, racconta ciò che ha visto: “Uscita dal suo corpo, l’anima aveva camminato insieme con molte altre ed erano arrivate in un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e di fronte a queste, alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i giusti a prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro apposto dinanzi i segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in discesa [...] E lì vedeva le anime che, dopo aver sostenuto il giudizio, se ne andavano per una delle due voragini sia del cielo sia della terra; attraverso le altre due passavano altre anime: dall’una, sozze e polverose, quelle che risalivano dalla terra; dall’altra, monde, altre che scendevano dal cielo” (17). Queste anime che avevano già scontato la loro pena o goduto del loro premio giungevano davanti all'Araldo delle Moire che così si esprimeva: “Anime dall’effimera esistenza corporea, incomincia per voi un altro periodo di generazione mortale, preludio a nuova morte. Non sarà un demone a scegliere voi ma sarete voi scegliervi il demone [...] Meritava poi vedere, diceva come le singole anime sceglievano le loro vite. Spettacolo insieme miserevole, ridicolo e meraviglioso! [...] E nello stesso modo, passavano dalle altre bestie in uomini e dalle une nelle altre: le ingiuste si trasformavano in quelle selvagge, le giuste in quelle mansuete. Si facevano mescolanze di ogni genere”(18).

“Il criterio 'soggettivo' in base al quale le anime, nel mito, scelgono la propria vita futura è in effetti quello 'delle abitudini contratte nella vita precedente' (620 A 2), e più in particolare, il ricordo del piacere e dolore già sperimentati, in quella che è stata perciò giustamente definita una sorta di reminiscenza alla rovescia: il cantore Orfeo, sbranato dalle donne, sceglie di reincarnarsi in un cigno, 'per l'odio che nutriva verso il genere femminile' (620 A 4-5), come Aiace Telamonio, memore del giudizio a lui sfavorevole nell'assegnazione delle armi  di Achille e poiché rifugge dal ritornare a essere uomo, sceglie di reincarnarsi in un leone. L'anima della giovane amante della corsa, Atalanta, in essa sconfitta, non sa resistere ai piaceri che le promette una vita futura da atleta, come il costruttore del cavallo di Troia, Epeo, si sente gratificato dalla possibilità di reincarnarsi in una donna operaia. L'incidenza, nella scelta, del piacere e del dolore noti pare evidentissima nel caso di Odisseo, il quale, seppure sorteggiato ultimo nell'ordine di scelta, proprio per 'ricordo dei precedenti travagli' (620 C 5), sceglie soddisfatto la vita di un individuo privato schivo di ogni seccatura, una vita che nessuna delle altre anime ha voluto e che invece egli volentieri fa sua, affermando che avrebbe fatto lo stesso anche se fosse stato sorteggiato a scegliere per primo”(19).

“Che poi tale visione che si auspica veritiera e non illusoria riguardi in primis e ancora il piacere e dolore e la loro corretta misurazione e mescolanza è evidente dalle modalità con le quali, nel mito Er, le anime scelgono la vita terrena futura. 'Tutto il pericolo per l'uomo' (618 B 7), Platone puntualizza, riguarda infatti 'il saper scegliere sempre e dovunque la migliore' (618 C 5-6) [delle vite] possibili, cioè 'quella mediana e fuggire gli eccessi nell'uno e nell'altro senso sia...in questa nostra vita, sia in tutta la vita futura' (619 A 5), poiché 'solo così l'uomo può raggiungere il colmo della felicità' (619 B 1). Occorre dunque che l'anima sappia, fra le alternative che ora le sono proposte e nel turno di scelta che le è toccato, 'scegliere con senno' e poi, nella vita che avrà scelto, 'vivere con regola'”(20).

Anche nel Fedro(21) si parla della trasmigrazione delle anime: “Ora fra tutti costoro, chi abbia vissuto con giustizia riceve in cambio una sorte migliore e chi senza giustizia, una sorte peggiore […] è qui che un’anima può passare in una vita ferina e l’anima di una bestia che una volta sia stata in un uomo può ritornare in un uomo”(22).

Nel Timeo analogamente leggiamo: “Fra quelli che sono stati generati maschi, tutti coloro che sono stati vili e hanno condotto una vita ingiusta, in base al nostro ragionamento verosimile, si sono trasformati in donna alla seconda generazione”; e più oltre: “Quelli poi che sono ancor più privi di intelligenza, che distendono completamente l'intero corpo per terra, poiché non hanno più bisogno di piedi, gli dèi li generano senza piedi e striscianti a terra”; e infine: “E appunto con questi modi allora e ora gli animali si trasformano fra loro, passando da una specie all’altra, subendo metamorfosi a seconda che perdano o acquistino intelligenza o stoltezza”(23).

Infine, anche nelle Leggi si trova: “Infatti non sarai mai trascurato da essa (dalla sentenza divina); per quanto piccolo tu sia non ti immergerai nella profondità della terra, né, per quanto grande diventerai, ti alzerai in volo in cielo, ma pagherai loro la pena che ti spetta”. Ciò significa che “Ogni singola anima viene trattata con giustizia. Le anime, nel corso del tempo, si uniscono a corpi differenti, secondo che siano diventate, da un punto di vista etico, migliori o peggiori”(24).

Se dunque in Platone la teoria in questione, di derivazione orfica, è sufficientemente costante, seppur con delle variazioni da un dialogo all'altro, vediamo ora cosa affermano le Upanişad a proposito della Trasmigrazione delle anime.

Bŗhad-araņyaka-upanişad:
(III 2,13) “...si diventa buono per l'azione buona, si diventa reietto per l'azione cattiva”(25).
(IV 4, 5) “...(si) diventa ciò che si è in seguito agli atti da se stessi compiuti”(26). In entrambi questi passi è segnalata la fondamentalità dell'azione compiuta per l'acquisizione di una fisionomia morale, che è, a sua volta, determinante.
(VI, 2, 2) “Ho udito esservi due vie per i mortali, una che porta agli dèi, l'altra ai mani”(27).  La prima via (quella che porta agli dèi) libera dal ciclo delle rinascite l'anima che con la sua azione morale buona, si sia purificata, mentre la seconda (quella che porta ai mani) non libera dal ciclo e perciò l'anima rinasce in un nuovo corpo.
La cosa è confermata nel passo seguente:
Chāndogya-upanişad:
(V 10, 7) “Coloro i quali hanno avuto una buona condotta possono attendersi una buona rinascita come brāhmana [...]. Coloro che, al contrario, hanno avuto una cattiva condotta possono attendersi una cattiva rinascita come cane o porco oppure candala (fuori casta)”(28).
E anche in questo:
Kauşītachi-upanişad:
(I 2, 2) “Chi sei tu? (domanda la luna). 'Io sono' (Colui che così ha risposto, la luna) lo lascia passare oltre”(29).   Il Sé cosciente del defunto si presenta alla luna che, in qualità di giudice della saggezza raggiunta in vita, può o meno permettere il passaggio verso i mondi superiori, quelli degli dèi, interrompendo così la ruota delle rinascite.  Da rimarcare che la formula “Io sono” indica che il trapassato, durante la vita terrena, non solo ha seguito la via morale buona, ma soprattutto si è svincolato dalla dualità propria del conoscere ordinario e, infatti, dice semplicemente: “io sono” senza aggiungere alcuna altra determinazione.
Anche i passi di seguito citati confermano quanto sopra.
Śvetāsvatara-upanişad:
(I 11) “Allorché si è riconosciuto il Dio cadono tutti i legami, vengono annientate le sofferenze, cessa nascita e morte”(30).
(V 12) “Colui il quale conosce Dio senza principio e senza fine, creatore di tutte le cose, che procede in mezzo al caos, che assume innumerevoli forme, il quale abbraccia, egli solo, il Tutto, costui si libera da tutti i legami”(31).
Maitry-upanişad:
(IV 3) “Mediante l’ascesi si consegue l’essenzialità, conseguita l’essenzialità si ottiene l’intelligenza; dall’intelligenza invero è conseguito l’ātman, ottenuto il quale non si torna (a incarnarsi)”(32). Viene qui esposto il cammino di crescita che porta alla liberazione dell'esistenza condizionata dalle reincarnazioni. L' ātman relativo, particolare, individuale deve essere superato, mediante la meditazione, per giungere al supremo, assoluto ātman, Spirito puro. Ivi giunti, si percepirà chiaramente anche l'unione fondamentale Atman-Brahman.

Proviamo a trarre alcune conclusioni su questo tema, partendo proprio dal nodo della liberazione delle anime dalla ruota delle nascite.
“Il mito di Er, a differenza di quello raccontato da Socrate nel Gorgia, non induce all'ottimismo. Le anime vengono effettivamente giudicate secondo giustizia alla fine della loro vita, e tuttavia si tratta di un giudizio in qualche modo irrilevante, e comunque poco significativo, rispetto all'incessante ciclo di incarnazioni nel quale dovranno immergersi nuovamente”(33).
Questa pessimistica interpretazione che Franco Ferrari dà della ruota platonica delle nascite non ci deve però fare dimenticare che Platone comunque valorizza, in questa stessa sede, l'importanza morale ed esistenziale della “buona scelta”. L'anima che, in base alla memoria pregressa, sceglie bene e con saggezza, vive bene ed è felice. Questa è la speranza e il mito che la narra è detto capace di salvarci perfino qui in terra, oltre che nel cammino millenario che ci attende: “Ci toccherà, insomma, felicità quaggiù sulla terra e nel viaggio millenario che abbiamo illustrato”(34).
Anche nel Fedro, la visione platonica è ottimistica fino al punto di essere assimilabile a quella orientale, che prospetta la possibilità di uscire definitivamente dal ciclo delle rinascite: “Ogni anima infatti giunge al punto dal quale era partita non prima di diecimila anni, perché non mette le ali prima di tale torno di tempo, tranne quella di chi ha aspirato sinceramente alla sapienza o ha amato i fanciulli in nome della filosofia. Se queste anime, allo scadere del terzo millennio, hanno scelto questo genere di vita per tre volte di seguito, munite in questo modo di ali, vanno via dopo tremila anni”(35).
Dalle Upanişad si trae una importante e basilare speranza: si può uscire definitivamente dalla ruota delle nascite e ci si può ricongiungere addirittura al Tutto grazie a una vita terrena di saggia meditazione che, come detto, faccia percepire chiaramente l'identità fondamentale fra Atman e Brahman.
Entrambe le culture propongono il tema della trasmigrazione delle anime da un corpo all'altro e in entrambe esiste dunque, seppure in forme diverse, questa Speranza salvifica: per l'Oriente si concretizza nell'uscita dalla ruota delle nascite con conseguente ritorno al Tutto, mentre per Platone in una speranza di salvezza sia in vita che nell'aldilà. Nel Fedro poi Platone si avvicina alla concezione orientale in maniera significativa, parlando anche lui delle anime dei saggi che mettono le ali e volano via dal ciclo delle nascite.

 

La vera conoscenza

Platone tratta della vera conoscenza nel “Mito della Caverna”. Comunque, già in conclusione del libro VI della Repubblica, egli si era occupato delle varie forme di conoscenza(36): eikasia e pistis nel campo sensibile e dianoia e noesis nel campo intelligibile. La noesis (intellezione diretta, sapere non ipotetico) è posta al vertice delle conoscenze e riguarda il filosofo che è “ancorato alle idee senza ricorrere alle immagini”(37).
Nel mito in questione viene descritta la difficoltà dell'uomo a innalzarsi dal mondo sensibile a quello intelligibile, dalle opinioni e dalle passioni alla scienza e al bene. Viene quindi evidenziata la riluttanza, anzi l'aperta ostilità degli uomini, schiavi delle opinioni e delle passioni, ad ascoltare gli insegnamenti dei filosofi. Ma il filosofo, che nel racconto è l'unico ad essere uscito dalla caverna ed è quindi l'unico ad essere pervenuto a conoscere il Sole - Bene, ha però l'obbligo (pur essendo incompreso e osteggiato) di ritornare nella caverna per cercare di aiutare gli altri a liberarsi a loro volta.
Rileggiamo dunque la celebre immagine: “Immagina dunque degli uomini in una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter guardare solo in avanti [...] credi, innanzi tutto che vedano di sé e degli altri qualcos’altro, oltre alle ombre proiettate dal fuoco sulla porta della caverna che sta di fronte a loro?”, chiede Socrate a Glaucone prospettando la conoscenza dei sensi come opinione illusoria. “Osserva ora […] che cosa rappresenterebbero per costoro lo scioglimento dai legami e la guarigione dalla loro follia […] <il prigioniero ora liberato> prima vedeva semplici illusioni, e […]  ora, più vicino all’essere e rivolto verso gli oggetti di maggiore esistenza, vede in modo più corretto [...] e finalmente, penso, potrebbe fissare non già le parvenze del sole riflesse nell’acqua o in luoghi estranei, bensì il sole stesso nella sua propria sede, e contemplarlo qual è”(38).
La liberazione conoscitiva coincide dunque, in questa immagine, con la visione diretta delle cose sensibili e del Sole, che metaforizza il principio del Bene: “[…] nel mondo delle realtà conoscibili l'Idea del Bene viene contemplata per ultima e con grande difficoltà. Tuttavia, una volta che sia stata conosciuta non si può fare a meno di dedurre, in primo luogo, che è la causa universale di tutto ciò che è buono e bello – e precisamente, nel mondo sensibile, essa genera la luce e il signore della luce, e in quella intellegibile procura, in virtù della sua posizione dominante, verità e intelligenza – e, in secondo luogo, che a essa deve guardare chi voglia avere una condotta ragionevole nella sfera pubblica e privata”(39).

Il Mito della Caverna si chiude con un’asserzione che celebra la fondamentalità della conoscenza intellettiva: “Ebbene, le altre che si dicono virtù dell’anima forse si avvicinano in certo modo a quelle del corpo. Ché realmente anche se non vi sono dentro prima, forse vi vengono infuse più tardi dalle abitudini e dagli esercizi. Ma la virtù dell’intelligenza è propria più d’ogni altra, come pare, di un elemento più divino, che non perde mai il suo potere e che, secondo come lo si rivolge, è utile e vantaggioso o inutile e dannoso”(40).

La differenza principale fra questa concezione platonica del Bene-Sole e quella vedica del Brahman è ben segnalata nel passo che segue, ove si parla appunto di uno Spirito individuale (atman) che si congiunge con lo Spirito Universale (Brahman). Il Bene platonico  non è invece catalogabile come Spirito ma come Idea, anzi come l'Idea fondamentale. 
“La visione classica delle Upanişad : mediante la conoscenza si ottiene la liberazione, la quale null'altro è che l'intuizione immediata e continua di ciò che si è....lo Spirito individuale o anima vivente si ricongiunge alla sua realtà, che è il supremo vero, ossia il Brahman”(41).
Importante anche il riscontro che troviamo in Bŗhad-araņyaka-upanişad:
(IV 4,10-11) “Sprofondano nelle tenebre cieche coloro che l’ignoranza allevano; in più profonde tenebre procedono quelli che di sapere compiaccionsi.  Senza gioia chiamansi questi mondi, di cieca tenebra avviluppati; è là che vanno, una volta morti, gli ignoranti di intelligenza privi”(42) . Questo passo ci vuole insegnare che coloro che non conoscono il Brahman, spirito vitale, pura energia, non hanno speranza e sono attesi da un mondo di tenebre sia prima che dopo la morte.
E ancora: (IV 4, 19-20) “Con la mente invero devesi (vederlo) non, invero, pluralità alcuna qui esiste; da una morte passa a un’altra morte colui che qui (solo) il molteplice contempli. Come unità devesi vedere questo incommensurabile, stabile Infinito; […]”(43). Ci vengono qui date istruzioni filosofiche su come interpretare il Brahman e pervenire alla conoscenza autentica: esso va inteso non come pluralità, non come molteplice ma come unità stabile pur se incommensurabile.
Interessante, in questa stessa prospettiva, anche la Aitareya-upanişad:
(V 3) “… Il mondo è guidato dalla sapienza, la sapienza è la sua base, la conoscenza (di per sé) è il bráhman (medesimo)”(44). Si ritorna qui a sottolineare l'importanza della conoscenza: “nel pensiero indiano essere e conoscere si corrispondono così come la non conoscenza equivale al non essere o all'illusione di essere limitato”(45).    
La cosa è ribadita anche in Maitry-upanişad:
(III 2) “...privo della conoscenza, soggetto a desiderio, agitato e condotto a credersi   <un Io individuale, separato>, egli quindi dice: 'io', 'esso', 'questo mi appartiene'. Si lega da se stesso, come un uccello con il laccio. Subendo il frutto derivante dalle azioni, ottiene una matrice favorevole o sfavorevole...”(46). L'uomo privo di conoscenza si imprigiona da solo legandosi al proprio apparente io individuale. In questi due verbi (legare, imprigionare) sta una similitudine forte con il mito della caverna. In questo passo orientale comunque si pone l'accento soprattutto sull'inconsistenza dell'Io empirico (atman individuale) per richiamare, indirettamente, l'importanza dell'Io assoluto (atman universale che sappiamo essere un unica entità con il Brahman).  
Suggestivo anche il seguente riscontro: (VI 25) “… Colui che ha i sensi assorti come in un sonno profondo, vede mediante il pensiero più puro, come in un sogno, nella caverna dei sensi, ma non soggetto al loro potere, (l’intimo movente) chiamato om, che ha la luce come forma, che è libero da sonno, da vecchiaia, da morte, da dolore...”(47).
La caverna dei sensi! Qui il parallelo con Platone si impone automaticamente. Infatti, nel passo di cui sopra, si dice che chi usa l'intelletto più puro (noesis platonica e om orientale) si libera dall'inganno dei sensi e dalle sue innumerevoli illusorie conseguenze. 
Un ultimo riscontro teoreticamente importante si trova in Kena-upanişad:
(II 2, 3) “...egli non sa che non sa.... L’ignoto, per coloro che conoscono, è il noto per coloro che non conoscono”(48).  Il prigioniero della caverna dei sensi non sa di non sapere e continua a scambiare le ombre (l'inganno dei sensi) per la realtà.

Da quanto documentato si può concludere che in entrambe le tradizioni di pensiero si rifiuta come fallace la conoscenza fondata sulle impressioni sensibili (frutto della caverna dei sensi), mentre si attribuisce la massima importanza alla conoscenza superiore (quasi una scintilla divina!). Infatti Platone esalta la noesis (frutto della ricerca dialettica) come porta d’accesso alle idee e dunque all’Essere, all’Iperuranio. I Veda esaltano il sapere per eccellenza, sapere intuitivo, istintivo che permette al saggio orientale di conseguire l’esperienza dell'identità fra Ātman-Bráhman penetrando nei mondi celesti.
La principale dissonanza fra Platonismo e Oriente è data invece dal fatto che il Bene platonico è una Idea e non uno Spirito come invece è il Brahman. Altra importante differenza che emerge dal confronto si basa sulla rilevanza data all'<Io>. Per i Veda l'Io individuale è solo un inganno che il saggio deve superare arrivando all'Io universale e poi al Brahman. Secondo Platone invece l'Io del filosofo deve restare ben saldo e anzi “assumersi le responsabilità della difesa dello Stato”(49).

 

L'Uno e i Molti

Ci occupiamo ora delle cosidette “dottrine non scritte” di Platone intorno alle “cose supreme e prime”, dottrine delle quali abbiamo notizia soprattutto grazie ad Aristotele e alla sua Metafisica. Qui si ascrive a Platone un Uno come principio di tutte le cose e una Diade indefinita (il grande e il piccolo). L’Uno sarebbe, sempre secondo quanto riporta Aristotele, identificato con il Bene, il positivo e la determinatezza. La Diade, che è il molteplice, è identificata invece con il Male, con il negativo e con l’indeterminatezza. Stiamo quindi affrontando un problema metafisico di fondo: il rapporto bipolare, di origine pitagorica, fra gli opposti: l'Uno e il molteplice. Il mondo è uno ma appare molteplice.
“Non si può negare che siamo effettivamente in presenza di una concezione grandiosa, secondo la quale la realtà è come una gerarchia di piani discendenti dagli stessi principi ed in base alla quale è possibile trovare la soluzione di tutti i problemi sia scientifici che etici”(50), conclude, al proposito, Enrico Berti nella sua Storia della Filosofia. Antichità e Medioevo. Questo passo ci vuole significare che l'Uno, il Bene, non rimane unitario ma prima si cala nelle idee (che sono ordinate ma sono tante) e poi anche nel mondo sensibile, a sua volta molteplice e diveniente. L'Uno dunque non rimane uno (come invece era per Parmenide) ma scende di livello presentandosi volta a volta sotto molteplici aspetti. Lo stesso concetto viene espresso anche nella citazione aristotelica che segue.
“Poiché, quindi, le Forme (Idee) sono causa delle altre cose, Platone ritenne che gli elementi costitutivi delle Forme fossero gli elementi di tutti gli esseri. Come elemento materiale delle Forme egli poneva il Grande-e-piccolo, e come causa formale l’Uno”(51).
E ancora:“Da quanto si è detto risulta che egli (Platone) ha fatto uso solo di queste due cause: quella formale e quella materiale. Infatti, le idee sono cause formali delle altre cose, e l’Uno è causa formale delle altre Idee. E alla domanda quale sia la materia avente funzione di sostrato, di cui si predicano le idee nell’ambito dei sensibili, e di cui si predica l’Uno nell’ambito delle Idee, egli rispose che è la dualità, cioè il Grande-e-piccolo. Platone, inoltre, attribuì la causa del bene al primo dei suoi elementi e attribuì quella del male all’altro”(52). E' come se la potenzialità negativa della materia si manifestasse gradualmente: al livello ontologico dell'Uno non la si percepisce. Nel mondo delle idee non si manifesta come male ma come ordinata molteplicità. Nel disordinato mondo sensibile la componente di imperfezione è invece dominante e la potenzialità negativa della materia si realizza in pieno.
L'Uno pare dunque essere Bene assoluto: riferisce ancora Aristotele: “Fra coloro che affermano l’esistenza di sostanze immobili alcuni dicono che lo stesso Uno è il Bene in sé; certamente essi ritenevano che l’essenza di esso fosse l’Uno”(53).

Passiamo ora ad esaminare quanto afferma il pensiero indiano in merito al raffronto fra l’Uno e la molteplicità. Va comunque preliminarmente fatta una precisazione. Nel Platone delle “dottrine non scritte”,  l'Uno e la Diade sono i principi trascendenti l'intera realtà sensibile. Nelle Upanişhad il fondamentale Atman-Brahman è, invece, esso stesso l'unico tutto: esso è tutte le cose e tutte le cose sono in esso.Si tratta quindi di una realtà che è, al tempo stesso, immanente e trascendente.
La Bŗhad-āraņyaka-upanişhad sottolinea così il suo esser principio fondante:
(II 1, 20) “Come un ragno sale per il suo filo, come le piccole faville montano dal fuoco, egualmente da questo ātman escono tutti i sensi, tutti i mondi, tutti gli dei e tutti gli esseri. La conoscenza dell’ātman è pertanto il reale del reale”(54).
E ancora: (III 7, 15) “Colui che, risiedendo in tutti gli esseri, da tutti gli esseri è diverso, lui che tutti gli esseri non conoscono, per il quale tutti gli esseri sono corpo, lui che governa dall’interno tutti gli esseri, questi è il tuo ātman, l’intimo reggitore, l’immortale”(55).
Il passo seguente segnala l'unità del fondamento e il suo esprimersi in forme molteplici: (IV 5, 15) “La dove sussiste dualità, ivi l’uno adora l’altro, l’uno vede l’altro, l’uno parla all’altro, l’uno pensa qualcosa di altro (da sé), l’uno conosce l’altro; ma, allorché tutto è diventato il Sé (ātman) di ognuno, l’odore di chi e mediante che cosa si potrà percepire? chi si potrà vedere e mediante che cosa? chi e mediante che cosa si potrà udire? a chi e mediante che cosa si potrà parlare? a chi e mediante che cosa si potrà pensare? chi e mediante che cosa si potrà conoscere?”(56).
Simili le affermazioni in Chandogya-Upanişad:
(VI 2,1) “All’inizio, mio caro, null’altro vi era che l’essere unico e senza secondo. Altri in verità dicono: All’inizio vi era il non essere, uno e senza secondo; da questo non essere nacque l’essere”(57).
Qui viene posta la domanda cruciale per la filosofia in generale: l'Uno è sempre esistito come “essere” oppure questo Uno era il “non essere” dal quale nacque l'essere? L'essere unico è nato dal nulla, oppure non è mai nato essendo eterno?
La risposta è contenuta nelle citazioni che seguono:
(VI 2, 2) “Come, però, potrebbe essere così, mio caro? Come può l’essere nascere dal non essere? In verità è l’essere, il quale esisteva al principio delle cose, l’essere solo e senza secondo”(58).
(VI 2, 3) “Allora (l’essere) pensò: Possa io diventare molto! Possa io generare!”(59).
(VI 10,2) “Egualmente, in verità, mio caro, tutte queste creature, pur nascendo dall’essere, non sono coscienti del fatto che provengono dall'essere”(60).

Al proposito Alan W. Watts commenta: “Fondamentale per la vita e per il pensiero dell'India dei tempi più remoti è il grande tema mitologico dell'atma-yajna, l'atto dell''auto-sacrificio' con il quale Dio fa nascere il mondo.... l'Uno morendo nel Molteplice”(61).  
E, a conferma di quanto sopra, Ananda K. Coomaraswamy scrive: “Avviene così un'incessante moltiplicazione dell'Uno inesauribile e un'incessante unificazione della molteplicità indefinita. Questo è l'inizio e il termine dei mondi e degli individui: dispiegatisi da un punto privo di posizione o di dimensioni e da un presente senza data e durata, compiono il loro destino, e quando il loro tempo è giunto tornano 'a casa', al Mare da cui la loro vita ha avuto origine”(62) .
Dai testi che abbiamo provato ad accostare possiamo concludere quanto segue: emerge chiaramente, da quanto sopra, che entrambe le scuole di pensiero, pur mantenendo alcune essenziali differenze (rapporto trascendenza/immanenza, molteplicità declinata da Platone specificamente come diadicità), si basano sulla bipolarità fra gli opposti (l’Uno e i Molti), all’interno della quale però l’Uno è valutato come il positivo e il vero, mentre il molteplice è considerato come il negativo e l’illusione. In questo giudizio filosofico-religioso la convergenza fra i due mondi (indiano e greco) è molto forte. Al proposito si ricordi anche ciò che afferma Fa zang, citato nell'articolo sopra richiamato di Giangiorgio Pasqualotto : “...non ci sono onde senza mare e non c'è mare senza onde”(63), a significare che il molteplice (le onde) ha bisogno dell'Uno (il mare) e, viceversa, il mare (l'Uno) ha bisogno delle onde (il molteplice).

 

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NOTE

1) Ivi, 433 d

2) Ivi, 414 b – 415 d, è ricordata la “nobile menzogna”, che narra della nascita di tutti gli uomini dalla terra (e non da altri uomini) avendone in dote un'anima d'oro, d'argento o di bronzo, che determina l'inclinazione naturale, ancor prima che la posizione sociale.

3) Ivi, 473 d -e.

4) Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, cit., p. 213.

5) Angelo Brelich Introduzione alla storia delle religioni, cit,. p.192.

6) Prasna-upanişad, II, 6, cit., p 443.

7) Brhad-Aranyaka-upanişad, I, 4, 15, cit., p. 39.

8) Ibidem, nota 22.

9) Franco Ferrari (a cura di), I miti di Platone, cit., p. 23.

10) Mario Vegetti (traduzione e commento a cura di), Platone La Repubblica, Bibliopolis, Napoli, 2007, Volume VII, p. 283.

11) Franco Ferrari (a cura di), I miti di Platone, cit., p. 49.

12) Ivi, p. 256

13) Platone, Repubblica, cit., 614b-621d. 

14) Mario Vegetti (traduzione e commento a cura di), Platone La Repubblica, cit., Volume VII, pp. 306/307.

15) Ivi, p. 283. Va precisato, ad onor del vero, che l'Oriente di cui tradizionalmente si parla per il mito di Er è il 'vicino Oriente', quello dell'astronomia assira e babilonese.

16) Ivi, p. 297

17) Platone, Repubblica, Libro X, 614b-621d, in Opere complete, 6,  cit,. pp. 337-338.

18) Ivi,  pp. 341-344.

19) Linda M. Napolitano Valditara, Prospettive del gioire e del soffrire nell'etica di Platone, Edizione Università, Trieste 2001, p. 152.

20) Ivi, p. 150.

21) Platone, Fedro, cit., 248 e.

22) Platone, Fedro, in Opere complete, 3, cit.,, 249 b.

23) Platone, Timeo, in Opere complete, 6, cit., 90 e -91 a, 92 a -b, 92 c.

24) Platone, Leggi, libro X, 905 a, Opere complete, 7, cit.

25 Bŗhad-araņyaka-upanişad, III 2,13, cit., p. 66.

26) Bŗhad-araņyaka-upanişad, IV 4, 5, cit., p.94.

27) Bŗhad-araņyaka-upanişad, IV 4, 5, cit., p. 116.

28) Chandogya-upanişad, V 10, 7, cit., p. 196.

29) Kauşītachi-upanişad, I 2, 2, cit., p. 292.

30) Śvetāsvatara-upanişad, I 11, cit., p. 321.

31) Śvetāsvatara-upanişad,  V 12, cit., p. 331.

32) Maitry-upanişad, IV 3, cit., p. 394.

33) Franco Ferrari  (a cura di), I miti di Platone, cit., p.50.

34) Platone, Repubblica, cit., 621 d.

35) Platone, Fedro, cit., 249 a.

36) Platone, Repubblica, cit., 509D-511E.

37) Franco Ferrari (a cura di), I miti di Platone, cit,. p. 202.

38) Platone, Repubblica, cit., 514A-519A.

39) Ivi, VII, 517 C. 

40) Ivi, VII,  518E - 519A.

41) Pio Filippani-Ronconi (a cura di), Upanişad antiche e medie, cit., p. 242.

42) Bŗhad-araņyaka-upanişad, IV4,10-11,cit., p. 95.

43) Bŗhad-araņyaka-upanişad, IV4,19-20,cit., p. 96.

44) Aitareya-upanişad, V 3, cit., p. 283.

45) Pio Filippani-Ronconi (a cura di), Upanişad antiche e medie, cit., p. 282, nota 14.

46) Maitry-upanişad, III 2, cit., p. 391.

47) Maitry-upanişad, VI 25, cit., p. 409.

48) Kena-upanişad, II 2,3, cit., pp. 430-431.

49) Platone, Repubblica, cit., 521 B.

50) Enrico Berti, Storia della Filosofia. Antichità e Medioevo, cit., p. 82.

51) Aristotele, Metafisica,  A 6, 987, b 18-21,  p. 37, a cura di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1993.

52) Ivi, A 6, 988 a, 8-15, p. 39.

53) Ivi, N 4, 1091 b, 13-15, p. 273.

54) Bŗhad-āraņyaka-upanişhad, II 1, 20, cit., pp. 50-51.

55) Ivi, III 7, 15,  p. 71.

56) Ivi,IV 5, 15, p. 101.

57) Chandogya-Upanişad, VI 2,1, cit, p. 204.

58) Ibidem, II, 2.

59) Ibidem, II, 3.

60) Ivi, X, 2, p. 210.

61) Alan W. Watts, La via dello zen, Feltrinelli, Milano, 1991, p. 48.

62) Ananda K. Coomaraswamy, Induismo e Buddismo, Studio Editoriale, Milano, 2005, p. 28.

63) Cfr www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=1517


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