Umana-mente
di Eliana Macrì - indice articoli
Arendt e la banalità del male
Aprile 2021
Il 10 aprile del 1961 ebbe inizio il processo ad Adolf Eichmann, tenente colonnello del Terzo Reich e responsabile diretto del trasporto degli ebrei nei campi di sterminio. Catturato in Argentina da agenti dei servizi segreti israeliani, venne subito portato a Gerusalemme dove si tenne il processo, diverso da quello di Norimberga, perché adesso a raccontare la Shoà erano direttamente le vittime sopravvissute. Ad assistere c’erano inviati da tutto il mondo, tra questi la filosofa Hannah Arendt come corrispondente della rivista The New Yorker.
Rifugiata politica prima a Parigi e poi negli Stati Uniti dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche, Arendt è un’ebrea nata ad Hannover, in Germania, nel 1906 e morta a New York nel 1975. La vita che fu costretta a vivere, in esilio, ora nelle vesti di cittadina francese ora in quelle di americana, le ricordava di essere ebrea molto più di quanto fece la sua stessa famiglia. Come la filosofa stessa rivelò in un’intervista, scoprì di essere ebrea dai commenti antisemiti dei bambini per strada, non dai suoi genitori che non le diedero la tradizionale educazione ebraica, ma le fecero studiare il latino e greco. All’interno della biblioteca paterna nacque il suo amore per la filosofia che non la lasciò mai, nemmeno quando Eichmann si dichiarò kantiano, perché faceva il suo dovere ovvero eseguire gli ordini di Hitler. Animata dal bisogno di comprendere il mondo in cui viviamo in tutta la sua barbarie e la sua grandezza, un mondo dove esistono sia Eichmann che Socrate, Arendt sapeva che la filosofia, l’esercizio del pensiero, avrebbe potuto curare le ferite del XX secolo, avrebbe ricordato ad ogni uomo cosa significa essere uomini. Platone credeva fermamente che la crisi politica dell’Atene del suo tempo derivasse da una crisi intellettuale, solo l’esercizio del pensiero può costruire le basi per una rinascita esistenziale ed etica dell’uomo. Ecco perché diventa fondamentale riflettere sul proprio tempo, quello che viviamo al fine di comprenderlo e di evitare la comparsa e la tolleranza del male, in ogni sua forma. Quella della Arendt è un’esigenza vitale: “Per me la cosa essenziale è comprendere, io ho bisogno di comprendere”. E comprendere per Arendt non significa negare l’atroce bensì portare il fardello che il XX secolo ci ha posto sulle spalle, ammettendo la responsabilità collettiva morale e politica nel silenzio complice degli individui che non fecero nulla per tentare di fermare il processo di sterminio, compreso lo zelo con cui i Consigli ebraici obbedirono agli ordini dei nazisti nell’elaborare le liste delle persone del ghetto idonee al lavoro e alla deportazione.
Il problema, il problema personale, non era che cosa i nostri nemici forse stavano facendo, ma che cosa stavano facendo i nostri amici.
L’idea di una possibile collaborazione fra carnefici e vittime insieme ad altri aspetti, come le reticenze verso un tribunale israelita e non internazionale per giudicare quello che secondo Hannah Arendt è un crimine verso l’intera umanità, susciteranno una rabbia tale che dovette passare molto tempo prima che il suo libro La banalità del male - una raccolta di reportage che la scrittrice pubblicò sul New Yorker durante il processo ad Eichmann - venisse tradotto in ebraico, solo nel 2000.
Eichmann si era reso responsabile, commettendo crimini contro gli ebrei, di attentare all’umanità stessa, cioè alla sua base, il diritto di chiunque a esistere ed essere diverso dall’altro. (La banalità del male)
Tutti speravano di trovare in Eichmann la rappresentazione del male assoluto, un uomo mostruoso dagli occhi insanguinati e dalla bocca che lancia parole come fossero frecce. In realtà quello che la Arendt si trovò davanti e descrisse, fu un uomo di bassa statura, magro, quasi ridicolo, privo di idee. Un uomo terribilmente normale, un burocrate come ce n’erano e ce ne sono tanti. Incapace di pensare.
Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme. (La banalità del male)
Eichmann non era uno stupido, ma la sua normalità lo rendeva ingiudicabile a se stesso. La sua incapacità di pensare - il “pensare” socratico, quello che ti fa dialogare con la tua interiorità - lo rendeva privo di ogni giudizio. Il suo lavoro consisteva nell’applicare ed eseguire gli ordini che gli venivano impartiti, senza riflettere e domandarsi nulla sulla loro correttezza. Non ci fu alcun conflitto fra la sua coscienza e l’autorità, fra le convinzioni morali che poteva avere prima di aderire al nazismo e gli ordini che eseguiva.
Non era stupido, era semplicemente senza idee. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee, possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell'uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme. Ma era una lezione, non una spiegazione del fenomeno, né una teoria. (La banalità del male)
Ciò che per la nostra filosofa segnò il successo del regime nazista, rendendo una stragrande maggioranza di individui partecipi e responsabili di un potente meccanismo di morte, fu comprendere che non servivano assassini nati, né complici convinti o nazisti convinti bensì efficienti funzionari e buoni padri di famiglia preoccupati solamente di difendere la sicurezza dei propri familiari a qualunque costo.
Un uomo così era pronto a sacrificare le sue convinzioni, il suo onore e la sua dignità umana. (Colpa organizzata e responsabilità universale)
Se questi Eichmann che non pensano e accettano che la violenza e il male s’infiltrino nella vita di tutti i giorni corrodendo la società stessa, diventa invitabile pensare a ciò che facciamo, fare un esame delle nostre responsabilità e della nostra capacità di giudicare fra bene e male. Arendt era convinta che il male perpetrato da Eichmann e dagli altri criminali nazisti fosse dovuto a una profonda inconsapevolezza delle loro azioni, a una incapacità di pensare.
La mia opinione è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida il pensiero perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”, solo il bene ha profondità e può essere integrale. (La banalità del male)
Ecco cosa succede quando manca il pensiero, la filosofa della banalità del male si chiede quali possano essere le conseguenze della mancanza di pensiero nel mondo in cui viviamo. Com’è possibile pensare ed elaborare un giudizio su ciò che è giusto e sbagliato in condizioni ostili quali possono essere quelle del nazismo o sotto la morsa opprimente del conformismo della nostra società. Com’è possibile che nessuno muova un dito, se una ragazza viene aggredita per strada, se una minorenne viene molestata sessualmente su un treno, se una sedicenne muore per strada per abuso di ecstasy o se un ragazzo viene picchiato a morte all’interno di una discoteca. Diventa di vitale importanza la questione della responsabilità dell’individuo, del cittadino, dell’uomo per evitare il male. L’incapacità di pensare e la mancanza di giudizio comportano un’apatia morale di fronte al dolore altrui che porta alla diffusione di un male privo di motivi, direbbe la Arendt privo di radici, un male banale, le cui conseguenze però sono atroci.
Per il filosofo illuminista Rosseau, il primo dovere di ogni uomo dovrebbe essere quello di essere umani. Per la Arendt l’umanità non si raggiunge mai in solitudine, ma solo esponendosi al rischio della vita pubblica con l’azione. L’azione è ciò che ci permette di entrare in rapporto con gli altri in modo immediato, agendo noi non ci limitiamo a intervenire nel mondo, noi facciamo il mondo. Azioni sono le nostre parole e i fatti, agendo e parlando mostriamo chi siamo nel mondo e agli altri. Capiamo bene come la pluralità faccia da sfondo all’azione che non avrebbe molto senso in solitudine. All’età di diciotto anni, Hannah si trasferì a Marburgo per seguire, insieme ad altri nomi importanti del panorama filosofico del tempo come Jaspers, di cui diventerà amica, Marcuse e Gadamer, le lezioni di quello che lei stessa definiva il re occulto della filosofia, Heidegger. A detta dei suoi allievi, la sua parola seduceva, ammaliava con la stessa intensità con cui deluse la sua tacita adesione al nazismo. Tra la Arendt e il suo maestro ci fu una relazione amorosa e una corrispondenza che a più riprese durò per tutta la loro vita. Hannah sentì sempre un profondo rispetto nonostante le diverse vie imboccate e nonostante il silenzio mai infranto da Heidegger sulle sue scelte. La lezione del maestro echeggia in quello che la filosofa definirà l’amor mundi, l’amore per il mondo e gli altri nel senso dell’avere cura del mondo e degli altri. Questa è una responsabilità che ognuno di noi ha sia verso il passato sia verso il futuro. Noi siamo, infatti, i custodi della memoria delle azioni e dei racconti che hanno avuto luogo prima di noi, ma dobbiamo anche preservare il mondo che viviamo per i nostri figli e nipoti. E preservarlo vuol dire evitare il male, vuol dire non esserne complici anonimi. Secondo la Arendt la via per riconoscere e ristabilire questa responsabilità è l’esercizio del pensiero e della capacità di giudizio. È ovvio che non è per niente facile esercitare la nostra responsabilità rispetto a tutto ciò che può essere definito male, per tanti motivi, paura, conformismo, promessa di un lavoro o di una ricompensa economica, ma nessuno ci garantisce che la vita sia facile. La vita, da una parte c’è lei e dall’altra noi, che cerchiamo di ricavarne il meglio anche quando è ostile e pronta a saltarci addosso ed è proprio allora che avvengono grandi scene di riconciliazione.
I difensori di Eichmann al processo usarono l’argomento dell’ingranaggio, secondo il quale le azioni dei singoli sono solo piccoli frammenti di un sistema molto più grande per cui la scusa “se non l’avessi fatto io, l’avrebbe fatto qualcun altro” libererebbe i singoli individui da ogni responsabilità. Non dimentichiamo che nella mafia sono proprio i piccoli ingranaggi a consentire i crimini più grandi, siano essi la cosiddetta manovalanza o il silenzio omertoso di chi guarda fra le persiane di una finestra sempre chiusa. Poi c’è la scusa del male minore, che Hannah non manca di ricordare. Quante volte l’abbiamo sentita “meglio scegliere il male minore”, “io scelgo il male minore”, una giustificazione, spesso, per celare la mancanza di coraggio, il non volersi prendere le proprie responsabilità morali e politiche, perché è troppo scomodo pensare. Eppure un uomo è morto sostenendo che è sempre meglio subire un’ingiustizia che infliggerla. Socrate è stato condannato perché educava i giovani a pensare, a un dialogo continuo dell’anima con se stessa, è proprio la mancanza di questo che fa sì che ci siano carnefici, vittime e testimoni indifferenti.
Perché alcuni si opposero all’ingranaggio del nazismo? Perché alcuni come Oskar Schindler pensarono che fosse meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla? Perché alcuni non ebbero una paura più grande del coraggio? Perché non avrebbero potuto continuare a vivere con se stessi, l’immagine che il mondo avrebbe loro restituito sarebbe stata quella di assassini. Conviverci è impossibile.
Tutti abbiamo gli strumenti per fare i conti con le nostre azioni e con quelle degli altri, possiamo e dobbiamo giudicarle senza preconcetti o parametri fissi, la facoltà di giudicare è indissolubilmente legata a quella del pensare, e pensare vuol dire porsi delle domande, significa scandagliare il dato immediato illuminandone ogni sfaccettatura. Il caso Eichmann aveva messo in guardia sulle conseguenze del mancato uso del pensiero e del giudizio, dell’incapacità di distinguere il bene dal male.
Come ricorda Anselmo Paleari, il vecchio proprietario della pensione dove Adriano Meis alloggia a Roma:
Per nostra disgrazia, noi non siamo come l'albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l'aria, la pioggia, il vento, non sembra che siano cose ch'esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere. (Il fu Mattia Pascal, Pirandello)
E questo sentimento della vita per il signor Anselmo è come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso, un lanternino che ci fa vedere il male e il bene. Un lanternino che ci illumina la via nei secoli bui e di grande confusione.
Hannah Arendt aveva identificato la malattia del nostro tempo nell’isolamento. Individui soli, che vivono insieme ma senza vincoli sociali e politici che li tengano uniti e per questo facilmente dominabili. Che la via da seguire forse è quella dell’uomo della caverna di Platone anche a costo della vita?
Eliana Macrì
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