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Crediamo nella concretezza di un mondo onirico
di Isabella Di Soragna - Ottobre 2018
I miti, le favole, le civiltà antiche, la scienza moderna, sono arrivati alle medesime conclusioni: ci trastulliamo con le proiezioni emanate dal nostro cervello prima della nascita e le rinsaldiamo con le memorie acquisite e inculcate durante il primo periodo di esistenza. Il neonato, il bebè dei primissimi anni di vita, vive tranquillamente in un mondo di sogno, o autistico se si vuole, senza separazioni, né definizioni. Tutto è dentro di sé, com’era nel ventre materno, unito al cordone ombelicale.
Anche se, nascendo, dopo le fasi dolorose del parto, i polmoni nuovi gli regalano tutta l’aria circostante, si trova sempre immerso in…se stesso, in un’orgia di colori e suoni che non percepisce come separati da sé.
Per funzionare nel quotidiano, la realtà onirica dall’infanzia in poi è repressa, è considerata socialmente negativa e ricostruita secondo uno schema consensuale alla società in cui vive.
Il metodo è convalidato dall’apprendimento del linguaggio. Le parole sono utili per designare, ma sono ‘’simboli’’, non realtà. Ci aiutano, ma ci chiudono in una scatola da cui poi non usciamo più.
Alcune vibrazioni diventano colori (anche se alcuni soggetti continueranno a vederle diverse come i daltonici), le sensazioni concetti, le emozioni inespresse scendono in fondo all’inconscio. Tutto è schematizzato, diviso, incasellato e il cervello lo memorizza e in seguito indottrina i suoi simili. Perché tutto questo, detto in parole molto…povere?
Trovare un senso di appartenenza e di protezione, per non essere esclusi.
Le antiche civiltà, gli aborigeni e tante altre, vivono in un certo modo in comunione costante tra di loro e con la natura, considerandosi parte integrante di un tutto, dove la telepatia è un fatto naturale e altre facoltà che a noi sembrano soprannaturali, magiche o addirittura malattie psichiche da combattere. La trance, anche indotta da droghe, era usata per tornare in fondo alla sorgente della vita e poi comunicare meglio quanto doveva essere a conoscenza di tutti.
Gli sciamani dei vari continenti, sopravvissuti agli stati più paurosi, erano quelli più dotati: se si dimentica il gergo usato – comunicare con gli dei o gli spiriti, volare da un luogo all’altro, guarire, le danze rituali (poi integrate in religioni ufficiali) – era solo un modo di captare ciò che non tutti riuscivano a fare, per rimanere in contatto con la realtà vera sottogiacente e difficilmente esprimibile col linguaggio quotidiano.
Lo stato di trance rimaneva evidente, come nell’infanzia e in altri stati ipnagogici e poi con gli allucinogeni come peyote, mescalina ecc. La realtà imparata, frazionata, divisa, ritrovava l’unità indifferenziata com’era nel ventre materno (feto-madre).
Don Juan, il maestro di Carlos Castaneda, confermò a lui - con esperienze dirette e spesso terribili - grazie a conoscenze ataviche, che quello che gli era stato insegnato nella cosiddetta “civiltà occidentale”, era una chiusura in un mondo fittizio: in seguito esso veniva confermato e imposto con la forza, dalla religione monoteista e missionaria. Era il modo per controllare dominare i popoli. Gli spargimenti di sangue, i martirii degli amerindiani e di altre civiltà che non volevano sottoporsi alla dittatura mentale, sono noti.
Il mondo della trance e delle droghe - non si tratta di quelle ingerite per curiosità o divertimento! bensì di quelle prese ritualmente e in conoscenza di causa – ma anche quello costruito dalla società in cui si vive, si sono poi rivelati altrettanto…reali! Era tuttavia importante aprire il consenso ad altre visioni per poi poterle oltrepassare. Aldous Huxley, nel suo “The doors of perception” (Le porte della percezione) in cui assume in piena coscienza e buona salute il peyote, descrivendo ogni istante del processo, ci conferma come appare il mondo reale, senza inibizioni o travisamenti dovuti all’educazione. Le droghe, si sa, sono anche nel nostro organismo. L’importante, in tutte queste esperienze, era di farci uscire dal mondo consensuale cui siamo stati abituati, per farci accettare dal microcosmo familiare-sociale e… viceversa. Ecco perché si etichettano e si condannano le differenze, confinandole nel mondo della patologia da curare con mezzi estremi. Autismo, schizofrenia, epilessia ecc. nel mondo occidentale - salvo pochi esempi di vera comprensione e cure adatte – si tratta di confinare quegli individui in cliniche o riempirli di altre “droghe”, ma non è il miglior modo di risolverle.
Ci siamo quindi incatenati in un bozzolo virtuale, solo a volte confortante, ma spesso doloroso in una ricerca frenetica di “riunione” con un simile e la cui perdita diventa un trauma insostenibile. Ma è altrettanto vero che il desiderio di rompere la liana parentale (che si protrae - dovuto alla memoria - nella coppia o in altro legame, anche se penoso) è sempre stato per molti una necessità. Anche il solo fumo di sostanze “leggere”, è un modo di staccarsi non solo dalla routine opprimente del quotidiano, ma di distendere i... neuroni sovraccarichi da intrusioni verbali. I bambini – spesso troppo sollecitati da dictat mentali - lo fanno spontaneamente, fuggendo in stati naturali di trance o addirittura in episodi di epilessia.
Ci sono infinite “prove scientifiche” che il mondo che ci siamo costruiti, non è là fuori, ma solo una “proiezione” di dati contenuti nel retro del cervello sullo schermo (immaginario) dell’orizzonte.
Un esempio noto è quello dei bambini abbandonati, allevati da animali. La loro realtà non coincideva per niente con quella che in seguito hanno cercato di insegnare a loro. Sono tutti morti in giovane età. Una bambina indiana trovata in una foresta, allevata da un branco di lupi, continuò fino alla fine a ululare a ore determinate e di nascosto andare a rubare qualche gallina per strapparne la carne: arrivò a mala pena alla maggiore età.
In tutt’altra sede, il fisico che cerca l’origine della materia, arrivando a “scoprire” di volta in volta con calcoli infiniti, l’esistenza di un nuovo elemento, troverà…quello che immaginava, dopo anni, ossia quello che già “sapeva” e che ha materializzato. In effetti, non scorgerà mai l’origine, ma solo il suo “sapere-pensiero” o l’ “osservatore”, creatore dell’atomo-come lo definisce N. Bohr:
In assenza dell’osservatore l’atomo è un fantasma. L’elettrone è… ovunque, solo se l’osservi si fissa e diventa percepibile.
Ecco perché nessuno, né scienziato né filosofo, ha mai trovato la sede o origine della coscienza. Si sono scritti trattati voluminosi, senza arrivare mai a conclusioni valide, al massimo si scopriva che il cervello era più rapido del nostro… volere consapevole e un’azione avveniva una frazione di secondo ‘’dopo’’ che il cervello l’avesse decisa. E dove sarà finito il tanto decantato “libero arbitrio” e …di chi?
Ne possiamo dedurre che se nel più profondo di noi stessi, anche inconsapevolmente, siamo ignari della nostra sorgente, né lo ‘’sapremo’’ mai, tutto quello che ci appare dopo la nascita e l’educazione, si rivela non appartenerci, allora cerchiamo di rivivere questo fatto, sia con l’immersione nella meditazione, nella preghiera, nella trance e nella... droga. Lì c’è una sottile speranza d’incarnare-vivere questo “ignoto”, che per noi era naturale durante la vita fetale e nei primi mesi di vita, poiché eravamo il Tutto non ancora diviso dal “sapere di essere”. Non siamo mai stati in un corpo, ma ci ostiniamo a identificarci con un burattino o con un concetto di “io” che non si trova mai da nessuna parte! Siamo “oltre”, ma ci hanno (siamo) condizionati a sentirci incastrati in qualcosa che si rivela mutevole e transitorio, che chiamiamo materiale e reale, ma togliendone il nome, analizzato e approfondito, diventa sinonimo di vacuità - falso.
La paura di morire è la stessa cosa. Abbiamo paura di perdere, non il corpo - che è materia, resa mobile dall’ossigeno e dal respiro - che si disintegra anche alla sola osservazione scientifica - ma quella sensazione etichettata come concetto inesistente di “essere”.
Se prendo una moneta e la faccio girare su se stessa, vedo solo un movimento senza distinguerne le due facce. Solo quando si ferma e la posso “osservare”, diventa visibile sia l’uno sia l’altro lato.
L’esempio della fede nei cosiddetti “miracoli” che accadono, anche se attribuiti a divinità o altro, mostra che ciò in cui crediamo profondamente, senza l’ombra di un dubbio, si rivela nel vissuto.
Avendo così definito in breve l’esistenza di questi due “stati” paralleli, è importante tuttavia superarli, poiché sono entrambi… un miraggio.
Nascita, vita, morte sono apparizioni passeggere, avvolte in uno spazio-tempo che si è rivelato relativo, ma spesso sembra utile dis-identificarsi per mezzo di metodi “non-ordinari” di coscienza, per vederne l’assurdità e inconsistenza.
In una versione ancora più semplice: come faccio a provare la mia “paura” inespressa se non trovo qualcosa che la eccita? Inoltre ciò è strettamente legato alla memoria, come le altre emozioni. Se non ricordo ciò che m’incuteva paura, come faccio a riconoscerlo? C’è sempre un supporto esterno che stimola l’emozione, eppure è solo farina del nostro sacco. Il nostro nemico più terribile si rivela essere solo la nostra ombra repressa. Diventa negativa, appunto perché cacciata via. Accolta, essa si rivela il nostro potenziale inespresso, al quale non potevamo identificarci. Difficile da accettare che chi è stato oggetto di violenza, mantiene in sé la forza che non è mai riuscito ad esprimere: eppure lo dimostrano le ricerche in vari campi.
Si verifica quindi che lo spazio-tempo è solo una spessa cornice che racchiude i concetti a cui siamo appesi, per non far evaporare il quadro evanescente della falsa realtà.
Fatte queste considerazioni, c’è solo da cambiare ottica: la coscienza - corpo-mente continuerà a eseguire il suo lavoro, visto che ormai si sa che è il programma (cervello) che ha già deciso fin dai primi istanti quello che l’ologramma dovrà fare, ma non c’ingannerà più e soprattutto uno tsunami di libertà invaderà finalmente il terreno, finora nelle mani di un intruso.
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