La Riflessione Indice
Quale amore? Quale felicità?
di Domenico Pimpinella – luglio 2007
- Capitolo 1 - Il nostro destino
Paragrafo 5 - Un’occhiata ad oriente
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Contrariamente all’occidente in cui ha sicuramente vinto la visione eraclidea di un mondo spezzettato, diviso, in Oriente ha cercato di affermarsi l’idea opposta: quella di un mondo unitario, parmenideo. Per questo, l’iniziale comune spinta filosofica si è andata trasformando, da una parte, in una visione sempre più scientifica e nell’altra in una visione sempre più mistica, religiosa.
In oriente, il pensiero cosciente si è andato consolidando sull’intuizione che l’individualità non poteva risiedere tutta e solo nell’Io, in un sé limitato all’angusto spazio soggettivo di un essere vivente. Doveva necessariamente fondarsi suoi legami di ogni cosa con il tutto.
In occidente, invece, il realismo ingenuo ci ha portati a seguire l’apparente spezzettamento del mondo, in una realtà di enti slegati tra loro, e siamo così sprofondati più in un riduzionismo che ha polverizzato sempre più la realtà. In questo modo il disegno originario si è ridotto ad un puzzle dalla complessità pressoché infinita; mentre in oriente il disegno è finito per svanire nelle nebbie di un misticismo che gli ha assegnato un’altra infinità di possibili contorni.
Un grande pensatore come Osho ha riferito che Scienza e Religione hanno entrambe ragione poiché la scienza ha ragione per quanto riguarda il mondo e la religione per quanto si riferisce al soggetto interiore. Né l’una né l’altra però possono fornire una spiegazione esaustiva, completa. L’oriente è stato così non-scientifico e l’occidente non-religioso, anche se l’occidente ha anch’esso le sue religioni.
Un solo grande pensatore credo abbia avuto l’intuizione giusta che però non si è sviluppata in modo razionale, come avrebbe dovuto, poiché nell’uomo l’emotività ha passato il testimone alla razionalità perché lo portasse oltre. Questo pensatore è conosciuto in occidente come Lao-Tzu. E la sua dottrina della complementarietà degli opposti avrebbe sicuramente meritato un diverso sviluppo.
Questa occhiata rivolta all’oriente vuole solo focalizzare l’attenzione sul fatto che le strade che si possono percorrere sono strade che si colgono con un’interpretazione originaria a cui poi si cerca di rimanere fedeli.
Non vi è dubbio che in oriente l’individualità è stata colta maggiormente nel suo aspetto sociale, interpersonale, per cui il frazionamento del mondo introdotto dalla razionalità è apparso più problematico.
Spiegare le ragioni del perché la stessa moneta individuale sia stata colta nelle sue diverse facce non credo sia possibile. Sarà stato semplicemente il caso a presentare alla razionalità, da una parte del mondo la testa e dall’altra parte il recto.
Ovviamente qualunque interpretazione la razionalità abbia potuto dare è stata comunque completata dalla conoscenza emotiva, che ha cercato di mostrare con i mezzi di cui disponeva l’altra faccia della medaglia. Il sé è riuscito comunque, seppure in modo fortemente squilibrato, a rimanere un’entità ambivalente.
In occidente. Come ben sappiamo, c’è stato così un lunghissimo periodo di contrapposizione tra soggetto e oggetto che è la prova evidente di come il pensiero abbia continuato a dare grande rilevanza alla soggettività. Nonostante che l’emotività abbia indotto la razionalità a fondare anche in occidente una sua religiosità per completare il sé. Una vera svolta c’è stata solo qualche secolo fa, quando a cominciare da Husserl, e poi con Nietzsche ed Heidegger, il pensiero occidentale ha iniziato a scoprire l’unità indissolubile di soggetto-oggetto. Questa svolta filosofica ha influenzato la scienza che ha portato così il pensiero occidentale sugli stessi sentieri che un tempo erano stati calpestati in oriente.
A questo proposito è quanto mai significativo il seguente aneddoto riportato in un suo libro dal Dalai Lama.
Un giorno Jean-Claude Carrière chiama Michel Cassé e gli chiede di ascoltare una citazione tratta dalla Bhagavad-gita di Krisnha che recita: “Tutto ciò che esiste, mobile o immobile, proviene dall’unione del campo e di colui che conosce il campo.”. L’astrofisico gli avrebbe risposto immediatamente: E’ una delle più belle definizioni della meccanica quantistica che io conosca!
La religiosità orientale sembra essersi definitivamente ricongiunta con la scientificità occidentale. Intuizione e metodo potrebbero in seguito dare quelle soluzioni ottimali al senso della vita che ci sono sempre mancate.
Il metodo occidentale può permettere alla razionalità di sviluppare un concetto di individualità che non sia più identificato con l’uno o con l’altro aspetto. Un concetto che non ci blocchi sull’opportunità della soggettività di affermarsi singolarmente, come sull’esclusività di tessere legami resistenti con gli altri esseri viventi e soprattutto con gli altri uomini.
Il metodo introspettivo che è stato messo a punto dal pensiero orientale per poter osservare un mondo intero, integro, è conosciuto come meditazione.
Sempre Osho a proposito della meditazione dice: non è un rapporto a due, è simile all’arrendersi, al lasciarsi andare. In questo modo la meditazione non può creare nuove possibilità, nuovi legami, si accontenta di soffermarsi su quelli messi a punto dall’emotività. Ed ecco che allora l’uomo, il mondo, e tutte le cose, diventano ciò che in passato è stato e che in futuro sarà ancora. L’uomo razionale diventa un osservatore distaccato. L’uomo razionale si limita ad osservare quello che l’uomo emotivo sa fare, quello che riesce a creare e non si sogna di andare oltre, credendo che la razionalità lo possa portare solamente sulla strada dell’individuazione. Una strada che appare illuminata dal solo faro dell’egoismo.
In effetti è la direzione sulla quale ci spinge da sempre la razionalità.
Pensatori come Krishamurti lo sottolineano senza mezzi termini: il pensiero razionale porta a sviluppare solo la parte soggettiva del sé. Porta inevitabilmente all’egoismo.
E’ questa tesi che noi vorremmo confutare e non perché in passato non sia effettivamente accaduto questo. E’ indubbio che la razionalità si fonda, come vedremo meglio in seguito, sulla possibilità di cogliere, di articolare un mondo originario fatto di enti. E questa possibilità unità all’impossibilità della razionalità di cogliere in modo diretto, immediato, i legami che pure ci sono tra molti di questi enti, porta in maniera automatica a farci cogliere una trasformabilità del mondo per adattarla alla nostra soggettività. L’individuo diventa, come dice giustamente Krisnhamurti il punto centrale intorno al quale si pretende che ruoti tutto. Ognuno vuole essere quel punto centrale ed allora diventa inevitabile che sorgano tensioni e contrasti che prima o poi finiscono per sfociare in guerre, in violenza. Se però si educa l’occhio della mente a cogliere i legami finora invisibili, trasparenti, che senza alcun dubbio ci sono, le cose possono significativamente cambiare. Ogni ente potrebbe finire con l’abbandonare la pretesa di essere il centro del mondo e costruirsi una nuova dimensione con l’ausilio e lo sviluppo ulteriore di quei legami e tendere così ad un nuovo senso.
Scegliere invece di neutralizzare la razionalità e puntare di nuovo tutto sull’emotività sapendo che questa conoscenza ci indica la via corretta, appare una soluzione improponibile perché oramai l’uomo non ha più possibilità di rimanere un essere emotivo puro. Può riuscirci in parte calandosi in una meditazione lunga e laboriosa, ma non può pensare di fare a meno della razionalità. Per questo l’unica soluzione ci appare quella di fondare una razionalità che possa cogliere l’individuo nella sua ambivalenza e svilupparlo così in modo equilibrato.
Con questo sguardo ad oriente si è solo voluto mettere in evidenza un problema che deve trovare la sua corretta soluzione nell’utilizzo della razionalità su entrambi gli aspetti interni dell’individualità e non nell’emarginazione della razionalità che in questo modo diventerebbe una sorta di appendice inutilizzata. Per questa via non si perviene come si crede ad una “conoscenza superiore”, semmai alla vecchia conoscenza non fuorviata che proprio per i suoi limiti intrinseci potrebbe avere spinto affinché si sviluppasse una conoscenza della conoscenza. E’ in questa meta-conoscenza che l’uomo può trovare la soluzione all’ulteriore sviluppo dell’essere pluricellulare in una nuova forma sociale superiore che aggreghi le vecchie individualità.
La filosofia orientale per riuscire a mettere le pastoie alla razionalità ed evitare che continui a catalizzare una crescita soggettiva la obbliga a rimanere con i riflettori puntati sulla realtà circostante; come dire che gli occhi della mente vengono tenuti fermi su quello che vedono gli occhi sensibili. Si obbliga in questo modo il “bambino” turbolento, iperattivo, a starsene quieto e a non commettere azioni che potrebbero danneggiarlo. In questo modo le due conoscenze finiscono per coincidere perfettamente e si evita che interpretazioni sbagliate ci portino a sviluppi pericolosi, stressanti, mortali.
La tecnica meditativa che compie questo allineamento conoscitivo è lo Yoga. Con lo Yoga ci si abitua a mantenere l’attenzione sulla realtà interna ed esterna senza farla correre a briglia sciolte nella impossibile ricerca di una felicità ottenuta senza il concorso degli altri. Una felicità di questo tipo non è felicità. Non può esserlo perché significa sviluppare le azioni ritenendo tutto il mondo esterno, il non-Io, un mezzo da utilizzare e non un’opportunità per portare il proprio sé al di là delle possibilità acquisite.
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