Ospite
Data registrazione: 23-09-2004
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Difficolta' Oggettive E Soggettive Nel Trattamento Della "devianza"
Qui si intende mettere in luce le potenzialità del diverso e lo “snobismo culturale” nel terapeuta.
Rispetto agli standardizzati “normali”, i diversi o “malati psichici” presentano caratteristiche personalogiche che li dotano di particolare unicità e peculiarità; possono essere dirompenti verso il senso comune e verso l’ordine sociale; possono essere fastidiosi e scostanti, pregni di proposte nuove ed interessanti per il vivere comune, ed altro.
Tra loro è constatabile uno iato maggiore piuttosto che tra i “normali”; ciò si spiega osservando il tendenziale adeguarsi dei “normali o “inseriti” ai modelli di accettabilità sociale loro proposti.
Più in profondità ogni “deviante”o “diverso” è portatore di nuove modalità dell’”essere” che, nei casi in cui queste non siano frutto di autentiche patologie, sono degne di assimilazione ed in alcuni casi, addirittura, potenziale motore di promozione del tessuto sociale. Di fatto, ciò è ben lungi dalla realtà concreta del trattamento della “devianza”, che, infatti, implica autorepressione, frustrazione e vissuto dei rapporti terapeutici con modalità normale-superiore, malato-inferiore.
Lo psichiatra, lo psicologo, l’educatore si rapportano con la”devianza”,almeno nella percezione di una parte degli individui in cura, con l’esibizione o l’ostentazione di atteggiamenti volti a marcare differenze di qualità tra loro e l’”umanità” da loro “trattata”. Ancora descrivendo questo tipo di “percezione”-interpretazione, lo psichiatra, colui che maggiormente informa una “struttura” terapeutica o di “convivenza”, è anche il più lontano dalla quotidianità dei “pazienti” ed utilizza questo distacco “istituzionale” per indurre un’aura di deificazione al suo contributo e per confermarsi in un ruolo fittiziamente superiore. Tutto ciò, crudamente, è l’utilizzo dei “malati psichici” al fine di avere per sé, carriera e potere sulle persone.
Sempre relativamente ai tentativi di cura della “devianza” c’è da notare che la fruizione di vitto e alloggio gratuiti o parzialmente sovvenzionati, e di, per quanto minimale, cura psicologica, psicofarmacologica e risocializzante, per un periodo, vissuto nel quotidiano sentire, prolungato in modo “rassicurante”, inducono nei soggetti con atteggiamento depresso, la rinuncia ad una attività volta alla costruzione di un vivere più “proprio” e l’abbandono alla propria devianza della quale, in tutta evidenza, essi, dopo un congruo periodo di trattamento , non presentano alcun segno di remissione.
E’ bene sottolineare, a questo punto, che l’intervento del terapeuta dovrebbe essere volto (pare ovvio ma non lo è) alla risoluzione dei conflitti contenuti nel malato psichico, determinati da vissuti non risolti o almeno non sufficientemente elaborati e “digeriti”; questi troverebbero (ed il condizionale ritorna) nel terapeuta un momento di estrazione dalla realtà inconscia e successivamente un momento di composizione e risoluzione; questo, si è verificato essere un’ottimo proposito e poco di più; in realtà l’attacco alle problematiche del malato psichico è blando ed insufficiente, causa, in primo luogo, la resistenza del malato oggetto di terapia, che rinvia ad una carenza strutturale nell’”approccio”, che non riesce a indurre la determinazione nel malato ad affrontare realmente il suo problema, in secondo luogo, l’intervento destinato, obbiettivamente, più alla “gestione” del malato che alla sua guarigione. Si può, appunto, evidenziare, in strutture comprendenti più di qualche paziente un atteggiamento primariamente “amministrativo” che certamente sacrifica uno scopo curativo e riabilitante. Al contrario, ma forse ciò è utopistico, l’universo “malato” deve prendere contatto con l’universo sano (ma fino a che punto?) del terapeuta tanto da assumerlo in sé; il terapeuta, quindi, deve spogliarsi del suo mantello dottorale e proporsi ed essere percepibile nelle caratteristiche della sua nuda umanità, in una sorta di full-immersion a tempo pieno. Ciò si scontra, in una visione radicale, con la standardizzazione-appiattimento, dell’intervento psicoterapeutico, realizzato dall’inquadramento dello stesso nella categoria di lavoro-retribuzione (si salva solo parzialmente il volontariato) che rende sporadico ed “eventuale” l’intervento terapeutico. Qui si sottintende e si prefigura una tipologia di intervento “missionario” forse non proponibile nelle società complesse.
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