Vorrei parlarvi di due cose apparentemente scollegate (il cui nesso apparirà solo alla fine): l’una è il sentimento delle “situazioni tipiche” e l’altra è una riflessione sullo scopo dell’uomo.
Quanto al sentimento delle situazioni tipiche, mi riferisco ad una specie di deja-vu trans-generazionale. Non per voler banalizzare, ma ho sempre pensato che uno degli aspetti più affascinanti della dottrina di Nietzsche dell’eterno ritorno fosse proprio il nome stesso con il quale il filosofo citato qualificava questo suo insegnamento (die ewige Wiederkehr). All’inizio, trovandomi in solitudine al cospetto di paesaggi naturali incantevoli, mi ritornava spesso in mente la sola espressione “eterno ritorno”. Più tardi, ho capito che quell’espressione mi sovveniva in quelle circostanze di tempo e di luogo in quanto al cospetto di paesaggi naturali immutati è più facile sentire il richiamo dell’eterno ritorno che non al cospetto di paesaggi urbani profondamente modificati. In seguito, affinando il mio intuito (attraverso films, letture, documentari storici, etc…), ho provato il richiamo dell’eterno ritorno anche in situazioni più strane. Il sentimento dell’eterno ritorno è ora evoluto in qualcosa d’altro e cioè nella consapevolezza che il numero di sensazioni umane è limitato ed esse eternamente si ripetono. Come si sposa questa mia convinzione con l’osservazione dell’unicità del singolo individuo? Le due intuizioni mi sembrano non contraddittorie nel senso che di fronte ad uno stimolo dato ognuno di noi reagisce a modo proprio ma comunque con un comportamento tipico. Forse un esempio chiarirà meglio il concetto che intendo esprimere. Quando un soldato si trova in prima linea, sia che si tratti di un legionario romano nelle guerre di Dacia e sia che si tratti di un marine americano che sbarca in Normandia, il novero dei sentimenti umani ai quali attingere è sempre limitato e immutato: la paura di morire, l’idea dell’inutilità della guerra, il flash in cui rivede la propria vita, l’esaltazione che deriva dalla convinzione che si è dalla parte dei buoni, la fiducia che deriva dal sapere di poter contare su un battaglione armato meglio e più numeroso, la sfiducia che deriva dalla consapevolezza che la forza d’inerzia è sfavorevole, etc…
Più in generale, le situazioni tipiche sono molto numerose ma il loro numero è comunque finito e penso che la comprensione tra gli uomini sarebbe facilitata se ciascuno di noi avesse vissuto il maggior numero di situazioni tipiche perché, percependo la sostanziale unità dell’esperienza umana, potrebbe immediatamente vedere se stesso nell’interlocutore.
Saltando alla seconda riflessione apparentemente slegata dalla prima, vorrei parlarvi di quello che secondo me è lo scopo dell’uomo. In proposito, ne ho sentite tante: l’estrinsecazione della propria volontà di potenza, il progresso culturale e sientifico dell’umanità, la soddisfazione dei propri bisogni, etc… e ho anche sentito che la vita umana non avrebbe alcun senso (o, almeno, non necessariamente). Io ho una concezione parzialmente diversa e forse qualche autore che non ho letto la ha già espressa prima di me. Io penso che ciò che caratterizza più in generale la vita e la natura sia un eterno rinnovamento, cambiamento, rifiorire. Penso cioè che, come accade per l’ordinamento giuridico, anche per l’ordinamento naturale si possa predicare la distinzione tra leggi costituzionali e leggi ordinarie. Partendo da questa distinzione, penso che un esempio di legge naturale ordinaria sia la legge della selezione naturale e penso che l’unica legge naturale costituzionale sia quella che tutto trasmuta. In questo senso, penso che lo scopo dell’uomo sia quello di… spostare sempre più in là il limite di ciò che si ritiene possibile fino al limite… dell’autodistruzione (questo proprio perché nulla è eterno). A questo punto però sono caduto in due contraddizioni. L’una è solo apparente (e cioè: come si sposa la mia teoria delle situazioni tipiche con il mio convincimento che lo scopo dell’uomo sia quello di vivere esperienze e sfide nuove?) e l’altra è reale e non l’ho sciolta nemmeno a me stesso (se qualcuno mi può aiutare gliela dico dopo).
Quanto alla prima contraddizione apparente, essa può essere agevolmente sciolta nel senso che il sentimento di sentirsi dio che prova l’uomo nello spostare un po’ più in là il limite del possibile è sempre identico. Ognuno, nel suo piccolo, si è sentito (se non dio) almeno “demone” nella misura in cui ha spostato un po’ più il là (non già il limite umano ma) il proprio limite personale.
La seconda contraddizione reale e sulla quale chiedo aiuto è questa: la fondamentale legge di natura è il cambiamento ma non può essere che proprio questa legge imponga che essa stessa va rinnovata nel suo opposto? Non potrebbe cioè l’uomo essere quel fattore di superamento della legge di natura del cambiamento tale da essere condannato (o benedetto) a vivere per sempre? Cazzo, ho fuso…