..mmm, credo di aver frainteso molto nel post precedente, concludendo infine con una questione più psicopatologica che filosofica.
mi lancio quindi in un riepilogo, ma sviluppato, ampliato e lanciato verso nuovi lidi, di quanto espresso da leibnicht (che confido avrà, avendo il tempo e la voglia di leggere, anche la bontà di dirmi: "non capisci un cazxx" oppure "ci hai azzeccato", così come tutti gli altri)
L'azione secondo dovere, sarebbe
l’azione ispirata a giustizia universale.
Questa giustizia universale (universalmente umana, e da intendersi come
legge per la realizzazione del bene, individuale e sociale (uomo essere sociale), che
non prevede, in quanto giustizia, nessun merito alla sua applicazione) afferma il necessario
“dover essere per gli altri” di ogni essere umano. Che non significa livellamento delle individualità, ma valorizzazione delle individualità per la valorizzazione della società umana. In altre parole, la realizzazione delle potenzialità individuali è dovuta alla società avvalorantesi di esse, perciò l’individuo realizza le proprie originali potenzialità per metterle al servizio del consorzio umano cui, secondo giustizia, necessariamente spettano.
La realizzazione della giustizia spetta al dovere (e non al volere, come poi spiego), e porta al bene individuale (tra cui la serenità) nonché sociale. Bene individuale, perché valorizzazione di sé attraverso il “dover essere per gli altri”, e bene sociale, cioè arricchimento mediante i contributi individuali.
Il conseguimento della
serenità, nel realizzarsi attraverso il “dover essere per gli altri”, avviene
tramite l’eliminazione dei sentimenti estremi, narcisismo e sottomissione, indipendenza e dipendenza, di cui è capace quella posizione dell’io.
Se l’uomo è interiorità ed esteriorità-socialità-adattamento all’ambiente, e il suo equilibrio globale è l’equilibrio tra queste due sfere, e questo equilibrio è serenità, ossia armonia tra interiorità ed esteriorità, il narcisismo è squilibrio verso il sé, mentre la sottomissione, l’adesione completamente condizionata alle aspettative esterne, lo è verso gli altri: nel primo caso si tratta di un “essere degli altri per me”, nel secondo un “essere degli altri, per gli altri”, si passa dalla svalutazione della realtà esterna, alla svalutazione della realtà interna. Nel secondo caso è evidentemente irraggiungibile lo sviluppo della propria identità (quindi frustrazione di bisogni interiori e conseguente mancanza di serenità), nel primo l’identità è monca del senso di appartenenza umana, che è significante il vissuto, che risulta quindi insensato (la mia superiorità è divina rispetto alla bassezza di chi mi circonda, che sebbene mi ammiri non può comprendermi, loro non sanno attribuire significato alla mia meravigliosità, insomma, superiorità sprezzante e incompresa, sicuramente non serena), in entrambi i casi non esiste completezza umana, che è interiorità espressa all’interno dell’alterità significante.
È il “dover essere me stesso per gli altri”, a rendere significativa la mia vita. Infatti, in alternativa al “dover essere me stesso per gli altri”, ci sarebbe il “dover essere me stesso per me stesso”, ossia realizzarmi per realizzarmi: ma questo non può bastare a rendere significativa l’esistenza umana, perché il senso della propria vita è nella trascendenza che inserisce la propria attività nella vita più vasta e longeva della comunità: se l’opera dell’individuo non si colloca nella più grande opera collettiva, permanendovi, in modi diversi, oltre la sua morte, allora svanisce assieme alla sua morte, e così, in assenza di ogni comunicazione del proprio sé nella grande mente o corpo dell’umanità, che fosse o non fosse venuto al mondo, non sarebbe cambiato nulla, nemmeno per lui: questo nel caso di un isolamento a-comunicazionale totale. Ma ogni atto individuale comunicato rende sensata la presenza dell’individuo, una presenza tanto più sensata quanto più darà voce alla sua irripetibile identità.
Oltre ad attribuire senso all’esperienza dell’uomo, essere sociale, il “dover essere me stesso per gli altri” evita il rischio del narcisismo: la valorizzazione di se stessi è dovere di ogni uomo, ogni uomo, indifferentemente, ha il dovere di realizzare la sua individualità.
Non sarebbe la stessa cosa il “
voler essere me stesso per gli altri”: nel volere si sottolinea l’io, e nell’essere per gli altri di questo io si attiva il narcisismo del merito: se voglio e ottengo ho merito, merito solo mio che mi differenzia dagli altri, che mi rende un uomo speciale diverso dagli altri, e nell'esserlo per gli altri m'aspetto gratitudine. Invece se devo e ottengo non ho merito alcuno, sono un uomo come gli altri, un originale essere sociale come tutti.
Per questo il “dovere”: non obbligo limitante, ma miglior modo possibile di vivere, che si fa legge e dovere per evitare il merito del volere, a cui conseguirebbe lo squilibrio tra i due piatti della bilancia umana, interiorità ed esteriorità.
Citazione:
Messaggio originale inviato da Errabondo
In che misura è giusto che il dovere influenzi le nostre scelte di vita?
Quanto ci influenzano le aspettative altrui, quanto è giusto il peso sociale? Quanto ci costa l'approvazione degli altri in termini di libertà e serenità?
|
Il problema concreto sorge quando le aspettative esterne contrastano i bisogni interni.
In questo caso bisogna valutare il meglio: mettere a tacere la propria interiorità oppure agire, combattere per affermare il punto di vista interno modificando l’ambiente esterno.
La scelta della seconda possibilità dovrebbe essere subordinata alla previsione di poter in questo modo portare, se stessi e tutti, ad un bene più grande rispetto a quello che si otterrebbe mettendo a tacere il proprio dissenso.
Evidentemente però la previsione è una previsione soggettiva, che inevitabilmente non potrà essere consapevole di tutte le molteplici variabili del reale. A questo punto, secondo me, bisognerebbe ascoltare la propria coscienza e assumersi ogni rischio e responsabilità.