Caro Maral, mi arrendo...proprio non riesco a capire.
Un po' per ignoranza, un po' perchè gli schemi mentali di tipo hegeliano sono molto distanti dai miei; è come giocare a dama, con uno che sta giocando a scacchi.
Ed invero, da giovane ho letto quasi tutto Kant, e, sia pure con molta fatica, ho capito quello che intendeva; ed infatti riuscivo benissimo a seguire la sua sintassi e la sua analisi logica (ora ho dimenticato quasi tutto).
Ho provato anche a leggere Hegel (e qualcosa dei suoi seguaci), ma, sinceramente, non sono mai riuscito ad intendere il senso logico delle sue formulazioni logico-sintattiche.
Per esempio, il concetto di "coimplicazione fra un qualunque significato "a" e la sua negazione infinita "non-a" in cui è posto l’intero del contraddittorio di "a": la totalità del suo altro.", per me non ha alcun senso semantico.
Ed infatti, cosa vuol dire "coimplicazione"?
Non bastava dire "implicazione", che, comunque, comporta in ogni caso una relazione tra "implicante" e "implicato": "co" che cavolo ci sta a fare, prima della parola?
E cosa significa "negazione infinita"?
Io conosco il "sì" e il "no"...non il "no" all'infinitesima potenza.
E' vero che, poi, spieghi che la "negazione infinita" è quella in cui è posto l’intero del contraddittorio di "a": la totalità del suo altro.
Peggio che andare di notte!
Poi, senza entrare più in dettaglio, insisti col verbo venusiano "coimplicare"...a me del tutto ignoto.
Quanto all'"Olismo semantico", so che è una teoria riguardante la filosofia del linguaggio, nel senso che una certa parte del linguaggio, sia esso un termine o una frase completa, può essere compreso solo attraverso le sue relazioni con un segmento più ampio del linguaggio.
E questo può anche starmi bene.
Ma cosa vuol dire che "...il principio fondamentale dell'Olismo Semantico, per il quale la determinatezza del significato coimplica la determinatezza dell’intero campo semantico per cui l’ente (in quanto è il determinato, l’incontraddittorio) coimplica l’intero (la totalità concreta del significare) dell’essere (in quanto è la totalità del determinato-incontraddittorio)."?
Meno male che poi l'hai detta più semplice, ed allora ho compreso: "il significato coimplica l’intero campo semantico.".
A questo punto, incidentalmente, spiegami la differenza tra la frase che hai scritto tu, e quest'altra: "il significato implica l’intero campo semantico.".
Cioè, che differenza c'è tra "implicare" e "coimplicare"?
Non sarà tanto un vezzo per "co(i)mplicare" le cose?
Comunque, è vero che questo va oltre la definizione di Aristotele, il quale non la pensava né in termini olistici e tanto meno di un negativo olistico.
Per fortuna!
Altrimenti sarebbe difficile persino spiegare al barista come vuoi che ti prepari il cappuccino ("non voglio un caffè, nè un ginseng, nè una aranciata, nè un alcoolico, nè una frittata, nè un meteorite, nè il rimmel di tua sorella ...").
:-D
Non che a me non interessi il dibattito "olismo-riduzionismo", molto approfonditamente trattato da Hofstadter , ne "L'io della Mente" e ne "L'eterna Ghirlanda Brillante"; ho affrontato anche io l'argomento, più volte, anche in questo stesso forum (vedi "dialogo di due neuroni").
Ma ancora non riesco a capire bene la relazione con l'argomento del tema, da me originariamente proposto in questa discussione.
Il testo di Berto, in verità, lo trovo chiarissimo:"La RSF pone il nesso olistico, ossia il nesso del significato all’intero: infatti, poiché non-a, in quanto negazione infinita, indica tutto ciò che è altro da a, nell’unità di a e non-a è posta la totalità del significato, è posto l’intero campo semantico."
In parole povere, mi sembra voglia dire che, tutto ciò che è "altro" dalla parola "abaco", lo trovi in tutte le altre parole che si trovano nel vocabolario; e che "abaco" è la la parola che non è tutte le altre.
Bella scoperta!
E allora?
Non mi sembra un modo molto efficiente per far capire a qualcuno cosa diamine sia un "abaco"; non si fa prima a dire che si tratta di un antico strumento di calcolo, utilizzato come ausilio per effettuare operazioni matematiche?
Il resto delle considerazioni di Berto, invece, per citare il Macbeth, mi danno l'idea di "...una esposizione confusa e contorta, e che non ha senso alcuno" (almeno, per me).
O, forse, un senso ce l'hanno, quello che avrebbe attribuito loro Trilussa: "Se voi il rispetto de l'amichi...nun faje mai capì quello che dichi!".
:-D
Poi, invece, Sgiombo, molto più comprensibilmente e congruamente, scrive:
"L'essere a se stesso identico definito compiutamente dal totale del contraddittorio, seguendo questa linea di ragionamento, è allora di ogni ente, non solo di Dio come tu suggerivi riferendoti all'Aeropagita e questo intendevo dirti in risposta."
E' chiaro, ma non sono d'accordo, perchè, come già avevo scritto, qualsiasi altro ente può essere definito per genere prossimo e differenza specifica, e non dal totale del contraddittorio (se non si vuole rischiare un ricovero d'urgenza alla Neurodeliri); ma non Dio, perchè, riguardo a lui, non c'è nè genere prossimo, nè differenza specifica.
Per cui, nel suo caso, direi che l'approccio apofatico è l'unico possibile.
Poi Sgiombo scrive: " ... tu mi obietti che Dio non è un ente (dunque un essente), ma un verbo, il verbo essere, minimo comune denominatore di tutti gli essenti (poiché infatti tutti gli essenti sono) e qui resto un poco perplesso, in quanto anche un verbo mi pare pur sempre un ente anche se si riferisce a un atto agente, un accadere".
Il mi riferivo al "VERBO" "Essere", nel senso evangelico del proemio di Giovanni; cioè, al "LOGOS".
Comunque, anche dal punto di vista meramente semantico, "essere" è il verbo coniugato all'infinito; mentre "ente" è un participio presente, riferito una identità determinata e "finita".
"Essere", invece, è il verbo coniugato all'"Infinito"...chi vuole intendere, intenda.
:-)
Poi, Sgiombo, fa un ragionamento in buona parte condivisibile: "...anche il minimo comune denominatore è un ente, ma è un ente astratto, ossia qualcosa che prendiamo in astratto (estraiamo) da tutte le cose che hanno una certa caratteristica tra le molte altre che le individuano e teniamo questo apetto comune separato entizzandolo come se esistesse di per se stesso, un po' come quando diciamo il colore rosso, intendendolo come il tratto comune di tutte le cose che ci appaiono diversamente rosse."
E' esatto.
Ma il "rosso" è il minimo comune denominatore di tutte le cose rosse, mentre l'"essere" è il minimo comune denominatore di "tutte" le cose che sono, in quanto sono.
C'è una bella differenza...perchè, in questo caso, l'essere non è una specifica caratteristica del singolo ente (colore rosso, ad esempio), bensì la sua "quintessenza".
La sua "ragion d'essere", insomma.
Sgiombo conclude che "Questo Dio, definito come essere, mi pare allora semplicemente come l'astrazione concettuale dell'essere diverso di ogni singola cosa."
Confesso che, un tempo, la vedevo esattamente come te.
Adesso, invece, non ne sono più tanto sicuro...ma si tratta di approcci esperenziali, per descrivere i quali le parole e la logica (aristotelica o hegeliana che siano), risultano del tutto inadeguate.
O meglio: inutili.
Ma il mio tema originario era assai meno ambizioso.
Ed infatti, ammettendo di non sapere cosa sia, ritenevo di potere affermare, con relativa sicurezza, cosa Dio non può essere.
Cioè, che non gli possono spuntare i peli della barba (in assenza di testosterone), nè sentimenti o pensieri di tipo umano (per assenza dei neurotrasmettitori).
Tutto qui.
In conformità all'assunto:
Ignorare Qualcosa, Non Significa Ignorare Cosa Quel Qualcosa Non Puo' Essere.