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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere. |
27-08-2013, 16.59.53 | #14 |
Moderatore
Data registrazione: 03-02-2013
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Riferimento: Etica senza frontiere
Questa riflessione verte sul complesso e sempre più sentito problema nel mondo attuale della necessaria possibilità di un'etica globale che sappia sviluppare la convivenza non distruttiva e autodistruttiva delle diversità culturali umane. Il problema morale che stiamo affrontando è quindi visto in questo contesto come gestione del rapporto tra l'io e l'altro, immensamente complicato dal fatto che non si tratta di un rapporto a 2, tutto sommato gestibile (magari per via simpatica o empatica secondo regole di buona vicinanza e condivisione), ma di rapporti multipli declinati da pluralità soggettive con tanti e diversi noi e tanti e diversi voi. Resta comunque da chiedersi se effettivamente l'etica sia effettivamente solo questione sociale, ma è certamente meglio mantenerci in tale ambito di lettura.
La problematica, come tutte le problematiche più interessanti, ha una sua contraddizione interna: se l'etica, come è stato detto, è il prodotto della cultura sociale in cui si nasce e si cresce come sarà possibile nel concreto trovare questo sentimento morale comune? Su quali basi culturali o biologiche? Davvero sentiamo la nostra comune discendenza dall'Eva mitocondriale africana? O forse è nella biologia che dobbiamo cercare il senso morale e ancor prima nella fisica, nella sua pretesa di oggettiva verità universale fingendo di dimenticarci che pure la scienza è un prodotto culturale e precisamente proprio della nostra cultura occidentale, non della loro cultura animista, mitica e via dicendo, da noi superata alla grande? Quando nella precedente discussione (grazie Tiziano per averla ripresa) mi mostravo critico verso il pensiero unico dell'Occidente, identificavo l'Occidente (la cultura dell'Occidente greco-cristiano e poi scientifico e tecnico-economico) proprio in questa pretesa universalistica di salvare e convertire il mondo sulla base di una verità sottratta per sempre all'ambiguità del mito e dell'opinione soggettiva (che peraltro trionfa sempre e comunque). Il pensiero dell'Occidente è un pensiero con vocazione missionaria, votato al bene al punto di bruciare i miscredenti per salvarne l'anima, di promulgare i diritti universali mentre riprende con il massimo impegno la tratta di milioni di schiavi destinati al paese che scrive quei diritti nella costituzione, di promettere un paradiso tecnologico per il quale i diritti degli ultimi (donne e bambini compresi) sono meno rispettati che in un villaggio neolitico (almeno se consideriamo i pochi villaggi neolitici ancora nascosti in qualche landa remota prima di venire eliminati dalle malattie, dall'alcol, dalle multinazionali del settore alimentare) e la schiavitù volontaria è un dovere imprescindibile per quella razionalità economica che non può che costruire inferni contrabbandandoli per paradisi in cui è doveroso credere, perché appunto razionali. Ma non è qui il caso di riprendere la polemica, è solo che ogni tanto, nonostante tutti i meriti indubbi della nostra cultura dovremmo saperne leggere anche i demeriti per comprenderli insieme agli altrui demeriti. Si è detto che la soluzione potrebbe essere quella del cooperare (vincere insieme), anziché competere. E' giustissimo, peccato che in genere si coopera solo per meglio sfruttare e anche questo è certamente razionale, ormai il dogma di fede è l'egoismo originario dell'individuo umano. Io proporrei allora un'altra ricetta: forse la soluzione per riuscire a convivere è mettersi ad ascoltare le verità degli altri, anche quelle che, alla luce della nostra verità universale, più ci sembrano assurde, capire finalmente le altrui ragioni. L'arte dell'ascolto come tecnica etica, magari lasciando parlare chi più a lungo ha dovuto tacere. Forse nell'ascolto del taciuto un comune denominatore lo troviamo e forse anche il cannibale che ci vuole mangiare, se gli chiediamo di raccontarci prima dettagliatamente i suoi perché, rimanderà almeno per un po' il suo malvagio intento . Ascoltare insieme l'altro anziché convertirlo (ad amorevoli dei o a incontrovertibili lumi universali che spalancano l'immancabile work in progress dell'umanità tutta per il quale val sempre bene la pena di qualsiasi mattanza), non sarebbe una gran bella idea? Certo che il Serpente riuscì a fregarli bene i nostri progenitori quando promise loro la conoscenza sicura del bene e del male in cambio di un morso a una mela |
28-08-2013, 16.33.57 | #15 | |
Ospite abituale
Data registrazione: 17-12-2011
Messaggi: 899
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Riferimento: Etica senza frontiere
Citazione:
Ciao Maral, mi trovo abbastanza d'accordo sulla prima parte del tuo post. Il problema è ciò che proponi; piacerebbe anche a me che le cose funzionassero come probabilmente aspiri, ma temo che il pragmatismo imponga un'etica molto "realistica", eonomicamente sottintendendo, cioè un utilitarismo legato alla convenienza fra le parti contraenti. Purtroppo l'etica è diventata anche come teoria da più di un secolo a questa parte molto legata all'economia e nno ne prescinde perchè il positivismo scientifico nega coscienze o quant'altro e quindo avvalora "il fare" per semplice utilità materiale. Ma la catena utilitaristica, non coinvolge solo le parti contraenti , scatena e scarica le sue "convenienze" su terze persone o altre problematiche: questo è il vero problema teorico dell'utilitarismo. Ad esempio le multinazionali che si riempiono la bocca di "mission" e codici etici interni rendono conveniente un prezzo finale di mercato e quindi anche al consumatore , ma il terzo che paga e che non è contraente è il coltivatore tropicale e/o l'ambiente delle metropoli asiatiche, ad esempio. Si tramuta in migrazione dall'Africa ai luoghi geografici più convenienti e l'inquinamento altera gli equilibri dell'atmosfera sia come protezione per l'esterno del pianeta ,sia metereologicamente. Ciò che quindi conviene a due parti in realtà ritorna come costo sociale a tutta la comunità. Il famoso effetto farfalla aumenterà al crescere e al contatto di culture diverse, con l'estensione della globalizzazione. Quindi l'etica quanto meno dovrebbe rientrare in un discorso di conseguenze, di effetti "collaterali" al principio dell'utilità per la salvaguardia dell'intera comunità umana del pianeta. Una eticità internazionale vorrebbe dire, dare dei requisiti minimi ai diritti civiili e sociali e assoggettarsi a trattati sulle compatibilità ambientali e le spinte demografiche.Purtroppo temo che l'etica se non è operativamente diritto internazionale e trattati contrattuali . E' urgente che a livello globale si superi il semplice do ut des e si arrivi a definire ciò che è almeno compatibile direi minimamente per poi proseguire sulla strada di una cooperazione seria , culturalmente, economicamente ,socialmente. |
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28-08-2013, 17.50.20 | #16 | |
Moderatore
Data registrazione: 23-05-2007
Messaggi: 241
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Riferimento: Etica senza frontiere
Citazione:
Mi sembra una visione molto moderna, direi contemporanea, della cultura e che si adatta bene all'occidente moderno, illuminista, sentimentalista e individualista, di conseguenza una visione molto riduttiva. Nessuna cultura al di fuori di questo nostro mondo è mai stata concepita in questa maniera, poichè di cultura si parla solitamente con riferimento ad un determinato gruppo sociale, e non ad un individuo. Gli studi di antropologia del secolo scorso lo testimoniano ampiamente. Solo qui si può parlare di cultura individuale un po' perchè già dai tempi dei greci e dei romani questa era definita in maniera assai aristocratica (significativa la differenza fra paidèia e banausìa in uso fra i greci), e poi perchè in un mondo fondamentalmente individualista ove il concetto di società è sempre stato molto labile (fra annessione di popolazioni diverse con gli imperi, invasioni barbariche e tratta degli schiavi il melting pot è qui da noi realtà da duemila anni) non si può che compiere una operazione del genere, a maggior ragione da quando ad ognuno è concessa la possibilità di avere una propria visione del mondo e tentare di perseguirla (a discapito ovviamente di tutte le altre visioni del mondo in contrasto con la sua). Una società o una comunità umana è un gruppo di persone che condividono usi, costumi, tradizioni, abitudini, in pratica che condividono la medesima cultura ovvero la medesima visione del mondo di cui usi costumi eccetera non sono che manifestazioni più o meno superficiali. Un aggregato di persone in cui ognuno pensa il mondo in modo diverso da tutti gli altri è solo una "massa", e non una società, e la massa è solo un insieme eterogeneo definito su basi quantitative, mentre una società, una comunità, una "cultura", è definita innanzitutto su basi qualitative. |
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28-08-2013, 19.26.20 | #17 |
Ospite
Data registrazione: 28-12-2012
Messaggi: 37
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il cannibale, ancora?!
Maral: Io proporrei allora un'altra ricetta: forse la soluzione per riuscire a convivere è mettersi ad ascoltare le verità degli altri, anche quelle che, alla luce della nostra verità universale, più ci sembrano assurde, capire finalmente le altrui ragioni. L'arte dell'ascolto come tecnica etica, magari lasciando parlare chi più a lungo ha dovuto tacere. Forse nell'ascolto del taciuto un comune denominatore lo troviamo e forse anche il cannibale che ci vuole mangiare, se gli chiediamo di raccontarci prima dettagliatamente i suoi perché, rimanderà almeno per un po' il suo malvagio
2 note in margine: 1. Leggendoti m’è venuta in mente la suggestiva scena dell’incontro nella grotta alpina tra Frankestein e la sua creatura, che nella penombra inizia a parlargli dicendo: “Ascolta la mia storia…”; 2. Il cannibale non è malvagio, fa ciò che ritiene giusto, nella sua cultura, per la sua storia. Infatti il problema è riuscire a superare il mio e il suo punto di vista, insieme. Comunque ho continuato a riflettere sul cannibale, perché è ovvio che se non ci intendiamo io e lui, non posso proprio pensare di trovare una morale universale (a proposito, mi sono reso conto d’essere stato confuso, quindi mi correggo e propongo: “etica” è la riflessione filosofica sulla “morale”, che è un sistema di credenze che guidano il comportamento umano), tanto meno dunque procedere a parlare di giustizia e diritti dei popoli e dell’umanità. Riflettendo mi sono reso conto che devo cambiare prospettiva, ovvero non cercare una originaria morale universale bensì progettarla per il futuro. Ecco qua. Problema: un cannibale mi ha catturato e vuole uccidermi per cibarsi di me. La cosa non mi va, come posso convincerlo a non farlo? Se ci fosse una morale universale che prevede la norma “ama il prossimo tuo come te stesso” il problema non si porrebbe, ma o non esiste una morale universale che la preveda, bensì differenti morali di differenti gruppi etnici, o il mio cannibale non ne è al corrente. Allora che faccio? Ci provo. Notare che la decisione di provarci è importante, è già un’acquisizione morale. Non ci proverei con un leone, perché apparteniamo a specie diverse, non possiamo minimamente comunicare; lui è il predatore, io la preda, punto e basta. Invece credo che con il cannibale esista, per quanto remota e complicata, la possibilità di comunicare e dunque di intenderci, perché siamo entrambi esseri umani, entrambi appartenenti alla specie homo sapiens sapiens. Pur con abissali differenze culturali e linguistiche possiamo comprenderci con segnali atavici comuni: gesti ed espressioni del volto, atteggiamenti mimetici, esclamazioni, pianto, riso, ecc.. Tradotto: credo che esista e sussista un’arcaica conoscenza inespressa, in parte preculturale e in parte culturale (della cultura del branco che fummo). Ad essa devo riferirmi. C’è tuttavia un ostacolo (o meglio ci sarebbe se fossi Maral): se io sono un relativista culturale, rispettoso delle culture altre, non un colonizzatore culturale come Robinson nei confronti di Venerdì, che devo fare? Se fossi un relativista assoluto non solo dovrei accettare di essere mangiato ma dovrei perfino, paradossalmente, condividere il fatto che mi mangi, in virtù del riconoscimento del valore delle credenze del cannibale. Ma qui credo di dovermi appellare alla forza dell’istinto che mette in mora la ragione: io voglio vivere, anche a dispetto del mio relativismo. D’altronde ogni morale deve fondarsi su questa irriducibile volontà di vivere, che ho io e che avrebbe anche il cannibale fosse al mio posto. Ecco che comprendo la questione essenziale: non esiste una morale universale, però io e il cannibale insieme possiamo costruirla, se condivideremo lo stesso giudizio sul valore della vita umana, se insieme ammettiamo che ogni essere umano ha il diritto di vivere (rimando a dopo la discussione sul controverso concetto di “diritto”). Ora mi chiedo: quale strategia devo adottare per convincere il cannibale a lasciarmi vivere: devo appellarmi al sentimento, alla simpatia, alla pietà, alla misericordia, oppure ragionare? Nel primo caso dovrò esibirmi in una pantomima, assumere atteggiamenti fanciulleschi (poiché so che i mammiferi amano i cuccioli), avere uno sguardo tenero, insomma provare a farmi riconoscere come un suo simile, uno che in qualche modo possa entrare nel suo gruppo, nel suo “noi”. Se lo muovo a compassione abbiamo costruito il legame etico. Nel secondo caso di che dovrò ragionare, e come? E’ inutile ricorrerre all’astrazione perché il cannibale non astrae, credo perciò che sarebbe meglio una narrazione (“Ascolta la mia storia”), presentare un caso in cui salvare una vita è bene o eliminarla è male (che so, la favola esopea del lupo e l’agnello; en passant: è evidente che qui condivido l’idea di Moore che il bene è indefinibile ed intuitivo, senza avere argomenti per sostenerla). Probabilmente è opportuno che ricorra ad ambedue le strategie, che peraltro uniscono ambiti congiunti e complementari: recitazione e narrazione (d’altronde già Rorty ha ammesso che è moralmente più efficace un romanzo o un film di una argomentazione filosofica, ma questo è un altro discorso). In fondo tutti gli esseri umani hanno delle credenze di base da cui derivano altre credenze; le derivazioni sono molteplici e possono essere modificate, per cui la mia strategia dev’essere di individuare una credenza di base riguardo l’alimentazione o la guerra, ecc. tale che ne possa derivare la credenza che non è bene uccidere e mangiare un nemico. Sono perfino convinto che sia possibile accordarci sul fatto che il nemico non è un nemico; magari, essendo lui un guerriero, posso narrargli di Achille ed Ettore, facendogli vedere che in realtà non sarebbero nemici se non fossero ambedue prigionieri di una ragnatela di credenze, come me e lui, che si può strappare. A questo punto dovremmo fare l’ultimo passo: riconoscere che il mio problema è il nostro problema ed è quindi il problema di tutti; bisogna affermare che ciò che vale per me vale per tutti, perché altrimenti sarebbe un mio privilegio, invece dev’essere un diritto (anche se probabilmente almeno in parte ha ragione Nietzsche, che il diritto è nato come un privilegio). Veniamo al dunque: il diritto, se non c’è un y che corrisponde come dovere al richiedente x, è solo una petitio principi; inoltre y può rifiutarsi sostenendo che poiché non c’è legge non può neanche esserci diritto, ecc.; d’altronde un diritto è tale solo se una società lo riconosce. Perciò preferisco parlare di “bisogno”; io ho bisogno di vivere, perché vivere è il mezzo per raggiungere i miei scopi (ma ammetto che ciò è tautologico, dato che il mio bisogno di vivere ha per scopo di vivere). Se il cannibale riconosce questo mio bisogno, dovrà infine riconoscerlo per tutti gli esseri umani (o tutti o nessuno, neanche lui quindi). Il diritto, insomma, non può non essere inclusivo. Cosicché a me pare che alla fine io e Maral siamo d’accordo: ascolto reciproco, accordo reciproco. Però… siccome sono un filosofo (mah!) ho ragionato da filosofo (ovvero con l’agio dell’intellettuale); rammento il sarcasmo di Wittgenstein: siamo in un prato e uno di noi sta dicendo “Io so che questo è un albero”, arriva una persona che ci guarda stupito; “non si preoccupi, stiamo facendo filosofia”. Ma la realtà è un’altra. Lasciamo perdere il cannibale, prendiamo un genitore che in nome delle sue credenze religiose rifiuta la necessaria trasfusione di sangue al figlio; che facciamo, ci mettiamo a discutere del relativismo culturale, dell’incommensurabilità delle credenze, ecc. mentre il bambino muore? E se un’adultera dev’esser lapidata in Pakistan? E se una donna decide di abortire contro il volere del padre del suo ipoteticamente futuro figlio? Francamente mi pare di perdermi in chiacchiere. Oggi è il 28 agosto…il 28 agosto del 1963 uno che non era un filosofo disse: “I have a dream…” |
29-08-2013, 14.39.07 | #18 | |
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Riferimento: Etica senza frontiere
Citazione:
Perché vedi Paul11, se tratto il comportamento etico come conseguenza di ragioni economiche, siano pure le migliori di questo mondo, mi sa che l'etica finisca con il venire annientata: che differenza c'è tra fare il bene (amare il prossimo, aver cura dell'ambiente e via dicendo) perché mi torna economicamente utile e fare bene perché poi vado in Paradiso? Non è proprio questo modo tanto pragmatico di ridurre totalmente il bene a ciò che è utile il sintomo più evidente del misconoscimento dell'etica stessa nell'attuale rappresentazione del mondo? Infatti se l'etica è così debole che da sola non può reggersi in piedi è costretta a cercare altrove il suo motivo di essere, soprattutto in quelle ragioni economiche in cui solo l'Occidente legge l'essenza razionale e oggettiva del mondo. Ma allora, persa ogni coscienza etica autosussistente, non restano che norme da trasgredire o ottemperare a seconda della potenza efficace che si riesce tecnicamente a esibire. Mi pare che l'imperativo categorico posto da Kant alla base della ragion pratica resti attuale in tutta la sua problematicità: può esservi un'etica fondata solo su se stessa (sul suo giudizio sintetico a priori) e attuata in virtù di un comune destino-necessità che ci lega al mondo per il quale e dal quale tutti esistiamo nella nostra peculiare individualità per tutti indivisibile di soggetti e oggetti di volontà? |
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29-08-2013, 16.54.56 | #19 | |
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Riferimento: il cannibale, ancora?!
Citazione:
In fondo è nell'illusione-rappresentazione di una storia che sempre e solo possiamo apparire l'uno all'altro e reciprocamente comprenderci in quella nostra comune radicale solitudine a cui ci consegna il nostro peculiare e unico sentire il mondo, sia pure culturalmente mediato così da gettare una prospettiva di rapporti tra chi pur essendo diverso ci è prossimo (tanto più amato o odiato quanto più ci è vicino) e chi invece è confinato a un'abissale distanza da ciò che dà significato al nostro esserci. L'altro dopotutto è ciò che io nego a me stesso di essere per potermi definire tracciando un contorno, ma per poter negare in me l'altro (come il cannibale che vuole mangiarmi), in qualche modo lo dovrò pur essere e questo mette in crisi angosciante la mia autodefinizione. Laggiù nella grotta in fondo è proprio il mio essere cannibale che vado a cercare ascoltando il cannibale che racconta di se stesso, per fare questo devo avere il coraggio di accettare la mia crisi identitaria in modo tale che anche il cannibale accetti la sua per risonanza empatica e l'altro, quell'ombra sullo sfondo della quale io posso conoscermi in luce, per quanto ripugnante emerga dal buio della caverna sia riconosciuto nella comune imprescindibile necessità. In tal senso la riflessione morale (l'etica come annoti) si svela come parte imprescindibile di un discorso esistenziale e ancor prima ontologico (perché la dicotomia io-altro è fondamentalmente ontologica), ben oltre comunque la sua semplice e diretta rilevanza sociale. Certo, una donna presunta adultera non può essere lapidata in Pakistan, né in alcuna altra parte del mondo e in Occidente (ossia in quella parte dominante del mondo che ha sviluppato il modello culturale occidentale) la pena pubblica della lapidazione è vietata, mentre in Pakistan è ammessa forse in virtù di una particolare (fuorviante?) lettura dei precetti coranici. Verrebbe da pensare quanto siamo migliori noi, rispetto a quei Pakistani. Eppure sappiamo benissimo che in privato (non in pubblico, che non è educato) ci sono in Occidente tante, troppe donne che vengono quotidianamente martirizzate, fino a essere uccise da mariti, fidanzati, parenti e amici in quanto adultere o presunte adultere. E i loro aguzzini e boia non sono nemmeno differenziabili per istruzione, credo, censo o grado di inserimento e successo nel modello sociale, anzi pare che il fenomeno della violenza privata sulle donne sia più forte proprio nei paesi più all'avanguardia per il riconoscimento dei diritti civili. Di nuovo la stessa assurda contraddizione, di nuovo la stessa grande ipocrisia del convertitore di selvaggi che si rivela più feroce di ogni selvaggio. Per questo è necessario capire l'abominevole cannibale che sta là fuori, per capire l'ancor più abominevole cannibale che ci sta qui dentro e, fermo restando la condanna morale verso chi distruggendo l'altro distrugge inevitabilmente pure se stesso trascinato dai propri deliri, riconoscere il senso di questi deliri di reciproco annientamento, perché l'uomo, ogni uomo è anche questo e nasconderselo sotto principi universali perfettamente razionali è come dare una mano di bianco al proprio sepolcro. Forse la morale condivisa che cerchiamo può nascere nel riconoscere l'immagine che l'altro, proprio e solo in quanto altro (nel suo essere insopportabilmente altro), riflette di noi stessi. P.S. In realtà non ritengo di essere così tanto relativista, anzi, forse non lo sono per nulla. Quello che cerco è il valore ovunque esso si trovi e qualsiasi forma assuma: nelle storie degli indiani Hopi, nel poema di Parmenide, o nella meccanica quantistica che di si voglia. |
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