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Vecchio 10-07-2007, 09.21.41   #1
arsenio
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la tragicità greca

La tragicità greca

U.Galimberti presenta vicino alla mia città il suo “La casa di psiche: dalla psicoanalisi alla pratica filosofica”. Da alcuni capitoli del suo ricchissimo volume psico-filosofico ho tratto una sintesi sul concetto della “tragicità greca”.

Qual'è il senso dell'esistenza? Dolore, miseria, morte, malattia, disgusto, infelicità, disagio della civiltà oggi rappresentato dall'irreversibile insensatezza dell'epoca tecnologica de-individualizzante. Il rimedio furono religione e psicoanalisi. Ma ogni dolore, conscio o inconscio, è inseparabile dalla precarietà dell'esistenza, ed è governabile solo con la cura di sé. La morte che fa implodere il senso di un'identità biografica e ogni sofferenza vengono in Occidente rimosse, ma la disperazione rimane perchè in verità non si accetta il proprio limite di destinazione verso il nulla.
Religione e psicoanalisi sono impotenti di fronte a tale onnipresente sfondo di angoscia esistenziale. Solo la pratica filosofica, che non è una terapia, potrebbe soccorrere.

Per la tradizione giudaico-cristiana la caduta è dovuta a una colpa redimibile, ma anche la psicoanalisi pretende di detenere il potere di “redimere”-guarire, se l'Io rafforzato subentra all' Es.

Solo la cultura greca assunse il dolore come costitutivo dell'esistenza, da guardare in faccia senza illusioni ultraterrene o colpe originarie, e non da amare come necessaria premessa di una “vera vita”. Ma la vita invece è da dominare valutando le circostanze secondo la propria personale specificità, accettando il tragico nella ineluttabile circolarità di vita e morte, da cui il rimedio sono sapere e conoscenza, con misura e “aretè” (consuetudine di eccellenza) reagendo o adattandosi senza ripieghi o rinunce.

La psicoanalisi è il farmaco della parole, ma in realtà si regge su una falsa coscienza da smascherare e su interpretazioni di rappresentazioni e simboli, finchè non si confronterà con le neuroscienze, per un incontro tra biologia e umanesimo. E' una “maschera” al pari della religione. Da ogni psicoterapia inoltre alla fine emerge sempre solo un desiderio infinito.

La filosofia cura la condizione umana cercando di usare parole inabituali e non logorate dall'abitudine “L'anima , o caro, si cura con certi incantesimi, e questi incantesimi sono i discorsi belli” - Platone, Carmide.
Educando all'accettazione dell'unica esistenza concessaci dalla natura, con tutti i suoi limiti, “diventando con pienezza ciò che si è”

L'arte di vivere è governarsi chiedendosi ciò che possiamo o non possiamo fare.
Immorale è chi si ritiene onnipotente senza confrontarsi con le precarietà esistenziali: morte, cecità del caso, mutevolezza degli eventi, imponderabilità delle circostanze, ecc. L'etica deve diventare una norma personale e non un'obbedienza servile. “Quanto più l'uomo è sottoposto a norme collettive, tanto maggiore è la sua immoralità individuale – Jung, tipi psicologici. La felicità è l'autorealizzazione equilibrata, senza rincorrere l'irraggiungibile, evitando l'eccesso del desiderio sia spegnendolo con l'atarassia che aspirando a un ipotetico bene eterno. Amate il mondo, l'eternità non è fatta per Noi!



La pratica filosofica può indicare un senso all'esistenza per vivere meglio, oggi richiesto anche a psicoterapeuti. Sia la psicoanalisi alla ricerca di conflitti rimossi e inconsci attraverso simbolizzazioni che il cognitivismo comportamentale, che verifica se le proprie idee sono fuori dalla realtà, sono in tal caso inefficaci,
Cosa c'è di più reale della condizione umana?
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Vecchio 10-07-2007, 12.25.22   #2
trismegistus
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Riferimento: la tragicità greca

Forse l'Atto del Pensare Umano?

Per quel che riguarda la tragicità greca, che né pensi di "La filosofia nell'epoca tragica dei Greci" ("Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen") di Nietzsche? Della differenza tra l'apollineo e il dionisiaco che sarà poi il germe della nascita di tutta la tragedia(quindi in primis della trgicità greca)?
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Vecchio 11-07-2007, 17.28.04   #3
emmeci
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Riferimento: la tragicità greca

Hai toccato, Arsenio, un argomento che mi coinvolge profondamente, perché è dall’incontro con la tragedia greca che ho incominciato a pensare. E se dirò qualcosa che non collima con ciò che ti aspetti, dimentica e ritorna a cercare incantesimi e discorsi belli.
Eschilo e Sofocle: non i due magnificati poeti, ma coloro che hanno scoperto la verità tragica e rivelato il supremo significato della tragedia greca nell’opposizione che essa rappresentava alla comune cultura dei Greci e quindi all’epica omerica, alla mitologia nazionale, alla fede nei valori dell’eroismo e nella sua sostanziale innocenza. Fulcro dell’epica era la gesta, basata sul concetto di genos e coinvolgente attraverso di esso uomini e dei, ritagliati nella stessa stoffa e intrecciati in lotte ed amori, attraverso un’unica storia che ripeteva sé stessa in un susseguirsi di cicli che erano i cicli medesimi della natura. Il poeta tragico ha osato giudicare il mito e considerarlo non come una dimostrazione di gloria ma come una trama d’orrore, rovesciando in tal modo la percezione esistenziale dei Greci, quasi che si fosse squarciato il velario e mostrata la verità nell’identificazione di eroismo e di colpa - colpa oscura e perciò più tremenda – che colpiva uomini e dei facendo balenare il primo e forse il solo momento morale della grecità, colto nel suo radicale e drastico effetto, tale da affascinare ma non trasformare il pubblico del teatro che avrebbe continuato a riverire Omero coltivando, propagando e banalizzando il disegno eroico in un’armoniosa e infine manieristica esaltazione dell’uomo ellenico: una civiltà risolta in un’estetica della grazia, laddove la soluzione tragica era la purificazione catartica, che io intendevo non come un’esperienza emotiva od estetica ma assolutamente morale – dapprima identificata con la giustizia (tolto l’eroe è purificata la scena) e progressivamente vissuta come pietà, se è lecito dare questo nome alla partecipazione del coro, a quella sua azione-inazione che consisteva nel riflettere e lamentare o nel suo semplice essere là. Ma era un insegnamento inutile, il pubblico non era il coro e l’altare di Dioniso non era l’altare della pietà. Una volta sfollato il teatro, la storia ricominciava il suo mitico corso, traducendo le gesta degli eroi nella rissa delle città e delle fazioni, e l’ideale di gloria nell’aspirazione, forse piuttosto inconscia che meditata, ma così suggestiva per i tempi avvenire, a vivere in un’epoca aurea mentre era già tramontata, colpita al cuore dalla freccia del tragico: il fantasma di quelle epoche d’oro che avrebbe da allora esaltato l’uomo come l’ideale delle civiltà della terra, rese, per un ambiguo dono del fato, armoniose e compiute perché ignare dell’ingiustizia che le ha prodotte. Ma proprie in tali epoche o fantasmi di civiltà sembrava ogni volta aprirsi il sipario della tragedia cancellando ogni altro stile e maniera, epica, commedia e lirismo, e risuscitando l’orrendo connubio di eroismo e ferocia su cui ride la morte, insieme creatura del male e misteriosa via di salvezza – l’unica soluzione che coronasse – al di là di ogni miracolo, equivoco e compromesso legale - la grande tragedia.
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Vecchio 13-07-2007, 09.20.15   #4
arsenio
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Riferimento: la tragicità greca

Citazione:
Originalmente inviato da trismegistus
Forse l'Atto del Pensare Umano?

Per quel che riguarda la tragicità greca, che né pensi di "La filosofia nell'epoca tragica dei Greci" ("Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen") di Nietzsche? Della differenza tra l'apollineo e il dionisiaco che sarà poi il germe della nascita di tutta la tragedia(quindi in primis della trgicità greca)?


Può essere la premessa dell'argomento. Il rapporto di Nietzsche con l'antichità è mediato dalla tradizione dell'idealismo tedesco. , cui poi aggiunse il pessimismo schopenhaueriano per cui la tragedia è la rappresentazione della vita nel suo aspetto terrificante. Invertendo così la sua tendenza a giudicare la grecità negativa perchè giudicata appartenente al passato.
Alla base c'è il fondamento dionisiaco, tuttavia inteso anche come orrido con cui percepisce la tensione degli antichi Greci. Riporta Sileno che interrogato su quale fosse la migliore cosa per l'uomo, rispose: “il non essere”. Da cui afferma che solo come fenomeni estetici l'esistenza e il mondo sono giustificati. L'orientamento verso i Greci percorre l'intera produzione di Nietzsche, e ritiene la tragedia arte suprema del dire sì alla vita. L'orientamento verso l'antichità determina l'avversione verso il cristianesimo.
Muove dalla visione dii un mondo classico privo di equilibrio definitivo. . In ogni caso l'uomo greco è capace di scorgere l'assurdo e l'orribile dell'esistenza e di trasfigurarli in uno spirito apollineo facendo così diventare sublime l'orribile: la tragedia che può diventare anche commedia. . Così la tragedia nasce da apollineo e donisiaco: la componente serena, armonica dello spirito greco espressa dalla figura di Apollo in opposizione e integrazione alla componente dolorosa e oscura espressa da Dionisio. Dionisiaco dovrà essere anche l'”oltre uomo” come affermazione della vita totale, il simbolo dell'accettazione della vita in tutti i suoi aspetti, affermandola e ripetendola.
La nascita della tragedia spiega l'arte e la vita della Grecia. La verità contemplata era per l'uomo greco vedere e tollerare l'aspetto orribile e assurdo dell'esistenza.
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Vecchio 17-07-2007, 17.55.28   #5
emmeci
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Riferimento: la tragicità greca

Ti ringrazio, trismegistos, per l’attenzione che riservi alla “mia” nascita della tragedia; troppo onore entrare in competizione con quella di Nietzsche! Comunque, se proprio pensi che un rapporto si possa indicare, potrei (almeno ipoteticamente) accostare l’ “apollineo” a quello che io ho considerato come la percezione comune dei greci: quella che chiamo la paideia omerica, una concezione fondata sul mito eroico cioè sulla rievocazione ciclica delle gesta di esseri umani e divini ritagliati in un’unica stoffa e intrecciati in lotte ed amori – un’ideologia giustificata dalla pura esistenza che Omero non si perita di chiamare innocente e dalla gloria cui sembra votata. Una concezione, derivata dal mito, che diviene epos cioè la base del sapere dei greci, e di cui l’invenzione tragica – rappresentata in maniera suprema da Eschilo e Sofocle – è la subitanea, travolgente antitesi. Contro la certezza nel valore assoluto dell’esistenza, la fatalità di una terribile morte; contro la fede nell’innocenza dell’eroismo l’intuizione della colpa che in esso si annida; contro l’aspirazione alla gloria, l’orrore di cui essa si tinge davanti agli occhi e alla coscienza degli spettatori; contro la saggezza normale dei greci una denuncia d’immoralità che non risparmia neppure gli dei; alla fine l’incanto che il mito suscita ridotto all’orrore che ispira la storia poiché il mito è la storia, il genos dei greci è uno solo, e i cicli eroici sono la vita e la morte delle loro stirpi. Una visione in certo senso senza speranza se l’unica soluzione del tragico nodo è la giustizia di Zeus – è giusto dice Eschilo che chi agisce patisca – alla quale si sovrappone una soluzione che sembra trovare la sua espressione nel coro, ossia in quel popolo che è composto di greci ma trascende la loro mondana saggezza rappresentando – intorno alla scena – il popolo altro, quello che non ha azione e sa solo guardare e parlare, o gemere di pietà. E’ questa forse allora la vera catarsi del dramma, cioè non una soluzione legale quale Eschilo pone alla fine dell’Orestea, non una dissoluzione fatata come quella di Edipo e tanto meno come l’azione di un deus ex machina, non – soprattutto – come l’esperienza emotiva ipotizzata da Aristotele, ma una grazia morale che sembra andare al di là degli spalti e di un pubblico che ammirava il tragico per il suo effetto estetico e favoloso e dopo lo spettacolo tornava ad essere quello di prima - non il popolo altro sognato dai tragici e ancor meno il popolo dell’avvenire.
E se questo modo di intendere l’evento supremo della grecità, può effettivamente richiamare l’elemento dionisiaco introdotto da Nietzsche, vorrei però accennare a un’essenziale diversità, perché Nietzsche rimase effettivamente sempre legato a questo elemento fino a perdersi nella pazzia, mentre io mi sono reso conto di aver sopravvalutato il tragico, fino a considerarlo come la verità della storia allargando, per così dire, i limiti del teatro ateniese ai limiti stessi del mondo, ma nel procedere degli studi e il maturare dell’esperienza, cioè nell’allargare la mia visione storica mi sono dovuto convincere che la tragedia non può essere assimilata alla visione di Eschilo e Sofocle, né restare confinata nel teatro d’Atene, ma si muta e si sparge dovunque, diviene più grigia e sottile anche se non meno amara, ed è prosa piuttosto che poesia e non ha bisogno di maschere e tanto meno di dei: mentre quella catarsi alla quale il tragico greco sembrava anelare, cioè quel coro d’Atene è forse il coro immenso dell’umanità reale. Da parte mia, forse, un’illusione che ogni giorno che passa appare più immotivata e che solo in un’esperienza senza confini potrebbe dimostrarsi ancora simile a quella catarsi, cioè un’infinita pietà. Cosa che Nietzsche certo non accettava, rimanendo aggrappato, anche dopo la morte di Dio e dopo il crollo di ogni illusione storica, alla sua volontà di potenza.
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Vecchio 20-07-2007, 09.23.31   #6
Aegritudo
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Riferimento: la tragicità greca

Diciamo che nella tragedia greca il dolore è visto come presa di coscienza, come mezzo di conoscenza, ma anche effetto della conoscenza. Anche se chi arriva al dolore, a sapere, spesso non può fare nulla per mutare la situazione tragica.
Non è neanche del tutto vero che la tragedia non pensi a una "colpa". In Eschilo e anche in Sofocle, molto molto meno in Euripide, c'è l'idea di hybris. E' la colpa di superbia, se si deve tradurre un concetto del tutto greco. E gli dei puniscono quella colpa, che passa addirittura di padre in figlio maschio, fino ad annientare la stirpe. Sofocle inizierà a mettere in discussione questo meccanismo, insomma a chiedersi se la rsponsabilità della colpa non sia fondamentale. Se Edipo, in fondo, era colpevole o meno. E scrive l'Edipo a Colono.
In Eschilo c'è addirittura una figura che per me è vicinissima al Satana cristiano (prima o poi verrò scomunicata). Mi riferisco ad Ate. La divinità, collaboratrice di Zeus, che prima tenta la superbia dell'uomo e poi la punisce, perché mano di Zeus-giustizia.
L'uomo non può sollevarsi sopra i suoi limiti.
Altro elemento, infatti, che c'è nella tragedia, è lo phthonos theon (l'invidia degli dei), cioè l'invidia che gli dei provano per l'uomo.
La tragedia greca è meravigliosa. Il dionisiaco è la bellezza della vita. Ho sempre pensato che le Menadi fossero felici.
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Vecchio 22-07-2007, 10.01.48   #7
emmeci
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Riferimento: la tragicità greca

Forse non ho esposto con sufficiente chiarezza, nel post inviato ad Arsenio, che cosa è per me la tragedia greca. Riprendo il pensiero svolgendolo, per meglio chiarirlo, con un riferimento preciso all’Antigone sofoclea.

Secondo vari livelli d’interpretazione può essere considerata una storia mitica, la contrapposizione di due caratteri (uno altezzoso e volgare, l’altro puro ed ardito), la lotta ideale fra una donna ispirata da un compito sacro e un autocrate capace solo di dare ordini alla città. Ma la mira è più alta. Sofocle si solleva, forse contro le sue stesse preferenze di poeta e di cittadino, a un confronto metafisico che sancisce l’avvento della tragedia.
Creonte è il custode della città, e come tale ha ordinato di lasciare “in pasto agli uccelli” il cadavere di Polinice, che ha combattuto contro la città: di fronte a lui Antigone, sorella di Polinice, che ha violato la legge per dare sepoltura al fratello obbedendo a un ordine superiore, cioè a una legge non scritta ma inobliabile e santa - questa l’essenza della tragedia secondo la tradizione, che va da Aristotele, attraverso Hegel, fino alle nostre scuole. Ma non è questo che scolpisce il senso supremo della tragedia. Non un contrasto di caratteri e neppure un contrasto di idee, sia pure portato al più alto livello; non un emozionante e pittoresco conflitto fra leggi scritte e leggi che vivono nello spirito, forse ispirate da uno di quegli esseri dell’Olimpo di cui Sofocle rispetta il mistero anche se non può giudicarli scevri di responsabilità di fronte agli orrori del mito.
Perché la visione di fondo, anche in questa tragedia, è mitica-eroica e Antigone si assume la parte dell’eroe davanti allo stesso Creonte. Qualunque siano le ragioni della sua scelta, Antigone afferma infatti il suo volere contro Creonte e la sorella Ismene, contro i piccoli personaggi e contro la stessa città: come tale – ed è qui il marchio della tragedia – Antigone non è la dolorosa immagine di un futuro diverso e più gradito per noi, ma è un eroe della Grecia arcaica, un essere chiuso, assetato di gloria, ossessionato dal genio dinastico. E la tragedia si erge su questo grave nonsenso: che l’essere eroico, fosse pure sostenuto da una fede sublime, è considerato malefico e destinato alla morte da un giudice di cui Creonte è solo la maschera o il messaggero. Antigone vera donna? Antigone devota alla coscienza e agli dei? O il principio etico si traduce in un’affermazione di volontà eroica dunque cattiva, obbligando gli dei dell’Olimpo ad essere indifferenti o complici, e quindi cattivi?
L’opposizione alle leggi è proclamata non in nome di ideali o di idilliche aspirazioni all’amore ma in nome di quelle stesse leggi che hanno plasmato la Grecia e determinato l’insorgere della tragedia, e che sono infauste e maligne perché fondate sull’ira e sulla proterva violenza, inquinando famiglie, stirpi, città - volontà contro volontà e dei contro dei. Questa scoperta è l’essenza del tragico nella sua quasi irrapresentabile verità e nella sua sfida ai costumi che hanno eretto la sua civiltà, sublime come l’Acropoli che incombe sulla miseria degli angiporti. La luce è dalla parte di Antigone o di Creonte? E c’è davvero una differenza fra essi, una volta portati nel teatro di Atene, se non una differenza di maschere? Il poeta tragico non ha parzialità storicistiche o personali – egli deve far scaturire il tragico dal terribile enigma dell’eroismo celebrato nell’epica e non ci sono santi o magistrati che proteggano i personaggi, ma solo azioni mortali e parole mortali. L’esistenza eroica, cioè l’esistenza, è qui: è ciò che è maligno e non deve esistere.
Votarsi all’eroismo significa infatti bruciare sull’ara di Ate, e la morte diventa la soluzione della tragedia e la soglia della catarsi, mentre proprio per questo la volontà eroica la cerca, si volge contro sé stessa e la superbia finisce in lamentazione. Ma è una soluzione? e, soprattutto, giustizia?
Questo non poteva non tormentare la coscienza di Sofocle, teso a cercare qual è il senso del mito antico presente e futuro, se nel compiersi della tragedia e nella scomparsa dell’essere si annuncia qualcosa di simile a un’assoluta giustizia o solo un capriccio del fato. Ma è tutto qui il popolo della Grecia? E’ quello che si accalca in questo teatro, e comprende e non comprende il messaggio del tragico? O c’è un altro popolo che il tragico chiama a partecipare e forse sognare?
Contro la potenza illuministica di Creonte, la prudenza umana di Emone, la superstiziosa estasi di Tiresia, quella eroica di Antigone; contro le morti inferte e subite, contro l’eros e la disperazione, il coro dà voce ad una ingenua innocenza, a un turbamento che non indulge all’azione e supera la stessa idea di giustizia in quella di un’ignota pietà. Che non è quella di Antigone e che, come l’assassinio, non si verifica mai sulla scena, proprio perché è ciò in cui nessuno veramente crede e va oltre le pietre teatrali e le danze di Dioniso. Gli dei sono santi o tiranni? E che sono quegli urli che si alzano dalla folla? Nell’ultimo stàsimo è il groviglio insolubile della parola dio, mentre il coro invoca un Olimpo che non esiste.
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Vecchio 22-07-2007, 10.33.57   #8
Aegritudo
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Riferimento: la tragicità greca

L'Antigone e le Baccanti sono le mie due tragedie greche preferite.
La tua lettura è molto interessante. Però, non condivido quell'accostare Antigone all'eroe greco arcaico. Antigone è un'eroina, ma non ricerca la gloria personale. Sacrifica la sua vita, il suo essere donna, per un ideale.
La sua morte è necessaria nella logica della tragedia sofoclea, perché la tragedia è paradeigma. Creonte qui è immagine del tiranno, quindi un governante che non è esemplare in positivo, un pò come Edipo nell'Edipo re.
Tutta la saga tebana, tra l'altro, è una riflessione sulla forma politica. Cioè, aristocrazia o democrazia?
Antigone è una figura molto moderna. E la tua riflessione sulla divinità, cioè se questa divinità sia buona o cattiva, è una delle riflessioni che nascono dalla lettura. Insomma, una eroina che difende la legge divina poi deve morire? Gli dei, in realtà, cioè la tragedia greca, soprattutto con Euripide, pare lasciar trapelare qua e là questo dubbio sugli dei. E anche nell'epica in fondo. Ma non c'è condanna. Gli dei sono dei. Per Sofocle incomprensibili, come dici tu. Antigone, come ho già scritto, nella logica dell'opera teatrale, deve morire.
Tra Antigone e Creonte per me c'è un abisso. Creonte è colui che governa ponendosi al centro, non ponendo al centro la polis e si comporta come se il suo pensiero fosse unica verità. E' un superbo. Un tiranno. Non ha pietà neanche per un cadavere. E sai che in Grecia era gravissimo il non rispetto per i cadaveri. Come tiranno non può essere visto positivamente.
Antigone è l'unica che ha il coraggio di sottolineare tutto questo, a costo della sua vita. Un'eroina romantica, se vogliamo. Eccezionale perché donna, o forse tale perché donna.
Meravigliosa a mio parere.

Ultima modifica di Aegritudo : 22-07-2007 alle ore 11.21.46.
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Vecchio 24-07-2007, 14.32.45   #9
emmeci
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Riferimento: la tragicità greca

Certo non voglio affermare che il mito greco conoscesse solo la donna-eroe, quale mi è parso di poter vedere in Antigone di fronte a Creonte, un’Antigone rapita in un’estasi eroica da contrapporre al signore della città, un’ossessione che la conduce alla morte, che è una morte da eroe e che, secondo la mia percezione del tragico, è insieme la sua rovina e il tralucere di una speranza di redenzione. Ma è proprio perché la donna può essere altro – può essere non l’eroina di Tebe ma la figlia di Edipo a Colono – che essa può indicare una salvezza dal tragico, una catarsi che non s’identifica con la morte e tanto meno con l’aristotelico arpeggio delle emozioni, ma forse con una misteriosa pietà.
Siamo rimasti in pochi, Aegritudo, a interessarci dell’antica Grecia e farne, per così dire, il principio della nostra storia: una realtà che anche chi vive di religione dovrebbe in qualche modo affrontare. Così, mi sento quasi obbligato, qui, a ricordare ciò che ho inteso primariamente come essenza del tragico: un rovesciamento della concezione eroica che caratterizza il mito dei greci e la percezione che essi hanno di sé, e che è alla base dell’epopea, della loro arte, della filosofia, di quello che noi chiamavamo un’epoca d’oro. Una visione che riemerge nel Rinascimento e che, anche in questo, scatena il demone della tragedia a ricordare la malignità dell’azione eroica e l’errore fatale di coloro che credono in essa e nella gloria che dovrebbe donare. Dunque il personaggio tragico è sempre paragonabile a quello dell’epica greca sacrificato nel teatro di Atene, anche se si presenta nelle vesti o con le armi di un personaggio del Rinascimento, e Shakespeare è il nuovo Eschilo o Sofocle in un teatro che, nella sua povertà, è pur simile a quello di Atene. E come l’eroe greco è quello stesso che nel teatro di Shakespeare riappare come eroe romano, come eroe inglese, alla fine come l’eroe senza tempo – così le donne della tragedia greca risorgono nelle donne di Shakespeare - pure e dannate: dannate per quanto assomigliano ai maschi, come dichiara senza ambagi Lady Macbeth, pure quanto più si allontanano dallo spettro maschile e si dimostrano quasi incapaci di esistere.
Il discorso, certo, sarebbe assai lungo su questi enormi problemi della poesia e della vita, e io stesso nel corso del tempo ho dovuto correggermi, riconoscendo che la tragedia non può essere identificata con quella ateniese e scolpita per l’eternità, estirpandola in certo modo dalla vita reale, da una tragicità che non obbedisce alle norme – non dico d’Aristotele ma degli stessi poeti tragici – perché è insieme più atroce ma anche più sfumata e ingannevole, dissolta nella storia e proprio per questo terribilmente reale. Ma quelle figure create dai greci e risuscitate da Shakespeare rimangono, nell’oceano della storia, intoccabili per l’eternità.
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Vecchio 24-07-2007, 22.44.02   #10
Aegritudo
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Riferimento: la tragicità greca

La tragedia greca è viva. Estremamente viva. E' vero, non siamo molti a interessarcene e ad amarla. Io credo che studiare la cultura greca dia grande profondità. Sin dallo studio della lingua. La trovo perfetta nella sua precisione.
Riguardo alla morte di Antigone, sai che le eroine morivano in modo diverso dagli eroi? Cioè i suicidi femminili non avvenivano nelle modalità maschili. Era questo il segno distintivo, anche. Antigone si impicca. Come Giocasta, del resto. Fedra, anche. Un 'eccezione fu Deianira che si trafigge. Lei era la moglie di Eracle, del resto, prototipo dell'eroe greco tradizionale. Ma anche lei, si uccide nel chiuso del suo talamo, cmq. La morte delle donne doveva essere, in genere, senza spargimento di sangue. Troppo maschile altrimenti.
Erano meravigliosi i Greci.
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