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15-11-2003, 21.08.09 | #33 | ||||
Ospite abituale
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”…Comunque, non è necessario il fuorigiri neuronale per applicare il rasoio di Ockam che, tradotto, in soldini, dice: la spiegazione di un fatto, più è semplice e più è vera” Hai ragione! La spiegazione più è semplice, più risulta essere verosimile… viceversa, le spiegazioni semplicistiche, qual è quella che vede l’intervento americano come prodromo di civiltà, giustizia, democrazia e guerra alla tirannide, non sono mai le più vere. La mia è stata una spiegazione abbastanza semplice, nonché sufficientemente coerente alla storia recente e remota del Paese che più di ogni altro si è distinto in questi ultimi decenni nell’uso dell’arroganza del nerbo. L’intervento armato in Irak non ha suscitato un vespaio inatteso… era già tutto scritto, già tutto previsto e dichiarato con estremo anticipo; nessuno stupore, dunque, per quanto registrano le attuali cronache. Un’ultima considerazione. Io domando che giovamento abbia portato in termini di democrazia, di stabilizzazione, di sicurezza internazionale e di libertà l’aver sganciato bombe e l’aver distrutto e completamente destrutturato un’organizzazione civile (alludo alla polizia, all’esercito, alle strutture sociali) che, seppur con mille e più contraddizioni, teneva coeso un Paese che ora rischia di sprofondare nel caos più nero e, forse, preda del più bieco fondamentalismo di matrice sciita? Il rischio è che, presa coscienza dell’impossibilità di vincere completamente, gli eserciti di occupazione levino le tende, lasciando quelle terre alla mercé degli sciiti che salderebbero, così, un pericolosissimo legame con l’Iran. Io non ho risposte al quesito del sondaggio; ne ho invece una per quanto riguarda l’opportunità d’iniziare la guerra ed inviare dei giovani a gestire l’invasione di una terra che non gli appartiene. La guerra è stato un grossolano errore, figlio della pancia di chi l’ha voluta piuttosto che della ragione, così pure è stato un atto di cecità irresponsabile inviare colà i nostri giovani, decisione questa, figlia della prona volontà servile di guadagnarsi meriti e simpatie presso i propri aggressivi alleati. Ora che ci sono che si fa? Non lo so… la risposta, così come l’iniziativa che induce questa riflessione, deve essere affidata alla politica. Che deve anche riuscire a districare il Paese fra il dedalo di questo labirinto che ha contribuito a creare. |
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15-11-2003, 21.11.17 | #34 |
Ospite abituale
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La non violenza...
La non violenza non è una semplice teoria che istiga alla non azione. Essa è fatta di azione, di pensiero e di tante altre piccole e grandi caratteristiche che non è giusto relegare nello sgabuzzino delle chimeriche, pie e fallimentari ideologie.
La non violenza è fatta di diplomazia: la stessa che spinse Nixon e i responsabili del governo cinese di allora, a stringersi la mano e por così termine ad una marcata contrapposizione che poteva anche sfociare in qualcosa di deflagrante; quella stessa che depotenziò la crisi di Cuba nel 1963; ancora quella che impedì l’invasione della Polonia da parte dell’Urss all’inizio degli anni ’80; quella che portò Begin e Arafat ad abbracciarsi e che s’imporrà come unica strada percorribile per giungere alla soluzione dell’annosa questione palestinese (nessuno dei due contendenti vincerà mai facendo esclusivo ricorso alle armi). La non violenza non è la conferenza di Monaco che precedette l’inizio del II° conflitto mondiale, non è neppure l’accordo di Yalta o la conferenza di Vienna. La non violenza è fatta d’azione: tantissima azione che si concreta in atti e fatti. Manifestazione fattuale della non violenza sono le numerose e famose marce. Queste espongono all’esterno quanto nella diplomazia (non necessariamente istituzionalizzata) si muove ed opera nel sottobosco di fitti contatti fra le parti, di speranze ciclicamente disilluse, fino all’inevitabile resa delle miserevoli ragioni che alimentano la ‘disamistade’ al cospetto di quelle razionali dell’incontro (non è un sogno). E’ fatta di azioni complesse, di confronto, di dialogo e di trattative. E’ fatta di tanta opinione pubblica che spinge e preme affinché la soluzione da adottare sia quella meno cruenta. E’ fatta d’azione sul campo per portare ciò che una guerra non è in grado di portare: aiuti veri, fattiva collaborazione, comprensione delle posizioni altrui. La non violenza è fatta di tante, tantissime parole seguite, inevitabilmente, da tanti, tantissimi fatti. La violenza di un kamikaze non la si sconfigge contrapponendovi quella di un autoblindo (Israele insegna); la violenza del fondamentalismo la si potrebbe quantomeno contenere o controllare solo attraverso azioni che siano funzionali alla crescita sociale e civile di una popolazione. L’embargo protrattosi per oltre 10 anni non è stato in grado di produrre i risultati che chi l’aveva promosso si era prefissato, ha solo alimentato l’odio di chi quell’embargo l’ha incolpevolmente subito e che fornisce oggi al fondamentalismo risorse sempre più impregnate d’odio cieco e crudele, perché solo di questo si sono nutrite nel corso degli anni. La non violenza è fatta d’esempi… positivi… è un Gino Strada che gira, amato, benvoluto e stimato, fra i campi profughi e fra i feriti di guerra, è una Madre Teresa o chiunque altro profonda energie non per uccidere e sopprimere, ma solo per aiutare. Non è una chimera, la storia non è mai una chimera. Ghandi, l’alfiere della non violenza, ha mutato le sorti di un sub continente, decretando o certificando anche la crisi di una delle nazioni che più di tutte ha fatto del colonialismo la culla della propria proterva civiltà… altro che democrazia. La non violenza è fatta d’aiuti concreti che non portano armi, è fatta di missioni civili e religiose che curano i mali del corpo prima di quelli dell’anima… quando il corpo brontola, lo spirito tace. La non violenza è una chimera concreta fatta di fatica, impegno e tanto, tantissimo tempo… quello della diplomazia che opera alla luce del sole e all’ombra della tenace volontà di chi non intende piegarsi alla ragione delle armi… armi che non curano, che dannano. Chi volle far echeggiare in quelle terre il fragore delle armi, forse oggi comprende quanto errata fu la stima di una guerra trionfale, con pochi caduti e soprattutto che immaginò l’ingresso a Bagdad del nuovo Libertador, cinto d’alloro procedere fra due ali di gente acclamante e festante. Non è stato così… un ripensamento dell’intera politica americana s’impone con urgenza… forse qualcuno sta già meditando quanto stupida ed inutile fu la lunga lista nera degli <stati canaglia>, e quanto improbabile sia replicare in altre zone della terra la soluzione adottata in Irak… che dire di più? La non violenza è impegno sociale costante che prende le mosse dall’intimo disgusto che il suono del verbo <imporre> e dalla dissonanza dal medesimo prodotta rispetto ai vanagloriosi e mefitici proclami di chi pretende di spacciare per vere, o solo credibili, i propri intendimenti di custodi dei valori di civiltà e libertà del pianeta. |
16-11-2003, 00.03.00 | #35 |
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Mio dio!!!!
sto ascoltando un servizio del tg2 che racconta il modo lacrimoso la situazione dei poveri soldati americani che danno la vita per portare la pace ad un povero paese dilaniato da una guerra che loro stessi hanno portato.
E ci dicono che no, non possiamo lasciare soli i poveri americani portatori di pace contro i cattivi islamici. Non ci dicono che si sta proteggendo l'occupazione dei vincitori sui vinti. Non ci dicono nulla di come fosse e di come sia la vita degli irakeni. E' così facile distorcere le cose. Certo, lasciare che lo stato sconfitto si ricoponga automamente, senza imporre una presenza occidentale, renderebbe la guerra vana. La vittoria va difesa con la completa distruzione dell'autonomia. Con noi, cinquant'anni fa, ci sono riusciti. Siamo una colonia americana. Perchè non dovrebbero riuscirci ancora? |
16-11-2003, 09.19.36 | #36 |
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Cara Fragola
Condivido i "poveri soldati americani" condivido perché è sempre povero chi è pedina, strumento di un altro. Muoiono ogni giorno e questo basterebbe ad aver pietà di loro. Ma la pietà si trasforma in collera quando saliamo ai vertici politici. Errori dopo errori, ed ora non sa più come venirsene fuori (il presidente Bush). Il gigante vede sempre il topolino come già sotto i suoi piedi. Hanno messo le castagne sul fuoco quando tutti concordavano nel non farlo. Ed ora invocano aiuto per tirarle via. Vorrei che i nostri si ritirassero, ma allo stesso tempo abbandonare l'Iraq a se stesso è comunque sbagliato. Non puoi abbattere i pilastri di una casa non tua con la scusa che la casa era pericolante e poi andartene via lasciando solo le macerie. Quel popolo non credo sia tutto in favore dei terroristi. Vuole solo che gli invasori se ne vadano, non li avevano invitati! Ma prima è necessario rimettere a posto una qualsiasi forma di struttura politica e burocratica. In poche parole dare o ridare a questa gente un minimo di benessere e sicurezza sociale. Se il nostro capo del governo e quello inglese avessero detto no a qualsiasi forma di sostegno forse (dico forse) oggi non saremmo in questa situazione. L'aumento di atti di terrorismo dovrebbe preoccupare tutti, ormai. Mary |
16-11-2003, 13.00.10 | #37 |
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Cara Mary:
non so se hai letto bene quello che ho scritto. Beh, forse la cosa più probabile è che ieri sera quando l'ho scritto io fossi troppo stanca per rendere efficacemente quello che pensavo. Vedi, non siamo andati a buttar giù i pilastri della loro casa perchè era pericolante. (se avessimo fatto questo credo che probabilmente prima avremmo chiesto agli abitanti di uscire!!). Siamo andati a buttare giù i pilastri della loro casa perchè sotto c'è il miglior petrolio del mondo. E poichè siamo andati lì a rubare, non ce ne possiamo andare fino a che non abbiamo finito. Fino a che non siamo riusciti ad imporre un controllo politico ed economico. Fino a che questo stato, che pur con tutti i sui difetti si è sempre rifiutato di essere una colonia americana, non sarà completamente stravolto nelle sue radici culturali. Certamente una parte della popolazione irakena non gradiva il governo di Saddam, ma non mi pare che qualcuno abbia voglia di bombardare l'italia perchè una cospiqua parte della popolazione non gradisce il governo berlusconi. In irak c'è un altissimo livello di scolarizzazione, anche tra le donne. La popolazione sa benissimo cosa vuole e ha gli strumenti per ricomporre da sola quella che tu chiami una struttura politica e burocratica. A me pare che si stiano semplicemente difendendo da un'occupazione. E se ci pare che colpendo gli italiani abbiano "sbagliato mira" perchè gli italiani sono tanto buoni, non dobbiamo però dimenticare che noi siamo lì a fianco degli americani. Non possiamo pretendere di partecipare ad una guerra senza che ci siano morti. Ma dei morti irakeni, chissà perchè, nessuno parla. Non è che ce ne dobbiamo andare, questo sarebbe il minimo, è che non avremmo mai dovuto essere là e la bandiera della pace che sventola ancora dalla mia finestra (e non solo dalla mia) significa questo. Ci siamo resi complici di una guerra ingiusta. (guerre giuste per me non ce ne sono, ma ci sono guerre più ingiuste di altre!) Vogliamo anche sentirci vittime? Mi dispiace immensamente per chi è morto, anche perchè credo possibile che le singole persone fossero in buona fede. Gli italiani, almeno. Non però chi li ha mandati. Ma non abbiamo ragione. Non stiamo facendo nulla di giusto. Non stiamo aiutando la popolazione irakena ma solo l'america. E non mi sembra che ne abbia bisogno. E' abbastanza forte per fare le sua porcate da sola. Per quale misterioso motivo l'italia dovrebbe continuare ad ubbidire all'america? Siamo strumenti, servi. E i media fanno di tutto per convincerci che non è così. ciao |
16-11-2003, 16.14.30 | #38 | |
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Re: La non violenza...
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Visi, ti voglio bene! Hai espresso dei concetti a me cari, ed affido i miei pensieri alla tua esposizione sulla non violenza. Non violenza non vuol dire rimanere inermi di fronte ad un attacco subito, vuol dire non intraprendere stupidamente azioni violente solo perchè da secoli si crede che sia l'unico modo per risolvere i problemi. |
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17-11-2003, 13.54.40 | #39 |
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Mi compiaccio
Caro/a Visechi,
davvero mi compiaccio di quando il tono di una discussione si dispone, pur nelle legittime divergenze di opinione, sul piano equanime e neutrale del confronto attento e intelligente. Per ciò ti ringrazio di aver espresso, così lucidamente, un punto di vista lontano dal mio, ispirato più al contraddittorio che alla sterile confutazione, sapendo per altro condensare in una breve mail l'articolata complessità di una prospettiva in cui preme il respiro del grandangolo ideologico. Credo che, allora, torcendo il collo all'eloquenza, si possa tranquillamente portare il discorso sopra il punto fondamentale intorno al quale si impernia il nocciolo della questione. Questo, se sei d'accordo, è il punto: che assistiamo, operandovi in quanto parti in causa, ad una tipologia di conflitto "nuovo" per le nostre generazioni, ma non per gli scenari storici in cui gli eventi odierni si svolgono. Intendo l'entrare in contrasto, irreversibilmente, di mondi culturali contrapposti, di forme diverse e incompatibili di sistematizzare le attese esistenziali delle genti attraverso gerarchie di valori, articolazioni di senso, progettualità storiche. Ora, ciò che tu dici, sostanziamente, "ridotto all'osso" è che l'analisi strutturale della storia, il cui impianto è, in ultima analisi, hegeliano e post hegeliano, è adeguata e sufficiente a fornire anche qui, e adesso, gli strumenti di valutazione e di comprensione dell'attuale. Mi rendo conto, sia chiaro, del fatto che, nell'ottica "strutturalista", non esistono contrapposizioni tanto assolute e radicali da escludere la possibilità di una lettura in chiave deterministica degli eventi: lo stesso scandaglio analitico presuppone, infatti, di determinarne in parte la forma ed il rilievo, così come, del resto, la lama che disseca impone l'aspetto e le dimensioni di ciò che essa taglia. Ciò che io dico è, in realtà, che non credo affatto nell'efficacia dello strumento o, meglio, credo che il metodo dialettico, quando anzichè "discendere" a posteriori nella storia, pretende di ascendere nell' "a priori" dell'analisi, non fornisce, kantianamente, alcuna conoscenza che non gli sia intrinsecamente già attribuita. Detto in poche parole: l'analisi strutturale delle dinamiche storiche si riduce, necessariamente, ad una (o più) petitio principii. La mia opinione è la seguente: le valutazioni "storiche" dei grandi rivolgimenti epocali funzionano tutte e sempre perchè, necessariamente, si autoconvalidano. L'analisi degli eventi in corso è, come sempre, semplicemente, indecidibile. Ma quando il pensiero, per sua onesta lucidità, deve sospendersi in un'attesa, scettica, di giudizi, sono le emozioni, i vissuti e le azioni (e, se vuoi, proprio la "pancia") che debbono orientare le scelte. Fine dello strangolamento dell'eloquenza. |
17-11-2003, 16.18.58 | #40 | |
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Non so se sia sempre così… io riterrei una riserva, anche abbastanza ampia, in ordine all'opportunità di affidare sempre e comunque ai posteri l'analisi dei fatti e il giudizio finale sugli eventi che si vivono e ci coinvolgono. Credo che la storia, entro cui si dipanano gli eventi, anche i più traumatici e contraddittori, sia una questione da affidarsi, sì, come ultimo giudizio soggettivo, agli storici che, guarda caso proprio in retrospettiva osservano l'intero svolgersi delle circostanze che li tengono occupati allo scrittoio, ma questa (la Storia), composta di tanti piccoli tasselli interconnessi e non scindibili, la si costruisce tempo per tempo, e gli attori protagonisti, chi più chi meno, di questa edificazione sono proprio gli uomini che la vivono. La costruzione degli eventi (la Storia) non può, quindi, a mio parere, essere affidata esclusivamente alle emozioni (la pancia), ma deve essere frutto di un approfondimento minuzioso da effettuarsi nell'itinere, il cui sunto finale, la sintesi ultima (se mai fosse possibile apporre un suggello ai fatti della Storia) sarà poi affidata non ai protagonisti attori, che saranno forse i testimoni, bensì ad attenti (chissà quanto) e non pregiudizievoli osservatori. Questa diversa impostazione - rispetto alla tua - presuppone che non si possa abdicare all'imperativo compito d'indagare anche nel durante… non si può affidare 'al dopo' ciò che l'impellente scorrere del tempo e l'assunzione di decisioni connesse ad ineludibili scelte da fare subito impone all'adesso per il dopo…forse anche per sempre. Questo perché la storia non è un'architettura fatta di piccoli pezzi disgiunti l'uno dall'altro, ma ciascun fatto che la compone è il risultato degli accadimenti che lo precedono e, a sua volta, la forza propulsiva indispensabile per quelli che dovranno ancora esserci. La Storia è un tutt'uno che, per semplicità, si analizza per segmenti. Da ciò ne deriverebbe che il pensiero da cui discende il giudizio finale non può mantenersi, nel corso dell'edificazione della storia, in uno stato di sospensione inerte, ma deve collaborare fattivamente alla costruzione stessa, perché la scelta delle direttrici che compongono, tassello per tassello, il grande mosaico possa sempre essere, con l'ausilio dell'indagine in fieri, se non la migliore, quantomeno la più prossima al minor danno e al minor errore. Per questo motivo immagino che gli analisti coevi agli eventi, abbiano sempre un ruolo preponderante nell'edificazione di quel che sarà, a tempo debito, sottoposto al giudizio successivo, che auspichiamo sia equanime. D'altra parte cosa è poi questo giudizio auspicato equanime se non la media dei diversi verdetti volta per volta espressi nel corso del dipanarsi degli eventi. In quest'ottica, non potrà essere sottaciuta l'importanza delle particolari e specifiche, ancorché parziali, valutazioni contemporanee ai fatti, poiché da queste discendono, senza ombra di dubbio, le direzioni che gli eventi in fieri dovranno prendere; direzioni che si genereranno, in un motus che mai può prescindere dai suoi attori principali (gli uomini e il caso), anche e soprattutto per grazia delle scelte precedenti, e che alfine determineranno, se genuino e non preconcetto, il giudizio e la valutazione storica finale (sempre ammesso ci possa essere un giudizio finale e scritto per sempre). Va da sé, dunque, che l'azione di forte critica avviata in questi mesi nei confronti dell'operato anglo-americano in quelle latitudini, assume rilevanza, piena giustificazione e s'impone come un elemento qualificante rispetto all'esito finale dell'evento storico in sé. Questa diversa impostazione critica, in itinere, assumerebbe un importante ruolo nella realizzazione di una 'Storia consapevole', e ne rappresenterebbe, probabilmente, il tassello fondamentale. |
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