Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
Blaise Pascal - L'altra faccia della ragione
di Michele Paolini Paoletti
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MISERIA DELL'UOMO.
8 anni dopo la morte di Pascal, nel 1670, gli
amici del filosofo di Port Royal pubblicano la
prima edizione dei suoi Pensées (Pensieri). Dopo aver attraversato i secoli
tramite numerose edizioni diverse, quest'opera
continua ancora oggi a costituire la fonte
principale del filosofare pascaliano, nonché
una delle analisi più drammaticamente lucide
delle aspirazioni e dei limiti della
condizione umana.
Avversi sia allo scetticismo (il "pirronianesimo",
come lo chiama il pensatore di Clermont -
Ferrand), sia al razionalismo, che
rappresentano due modi parziali e riduttivi di
rispondere ai dubbi dell'uomo, i Pensieri di Pascal intendono evidenziare prima le
contraddizioni, le illusioni e le falsità dell'esistenza, per poi giungere, quasi
necessariamente, a dimostrare l'esigenza della
fede
cristiana, nell'ambito di una più vasta,
come già scritto, Apologia del
Cristianesimo. Spesso Pascal utilizza
degli interlocutori immaginari, non credenti,
(come nella celebre "scommessa") allo scopo di
difendere la ragionevolezza delle sue
osservazioni e di convertirli ad una verità che dia risposta proprio alle loro esitazioni.
La prima parte dei Pensieri ("Miseria
dell'uomo senza Dio") è dunque una pars
destruens: gli inganni della mentalità
comune, ma anche le vanità dei filosofi e
della scienza sono descritti con una vena di
pessimismo e malinconia, che non esita
talvolta a sfociare in una sottile ironia.
L'uomo è posto a metà strada tra l'infinito ed
il nulla, entità egualmente incommensurabili,
che egli non sarà mai in grado di comprendere
pienamente e rispetto alle quali avverte la
propria finitezza:
"Che cos'è in fondo l'uomo nella natura? Un
nulla rispetto all'infinito, un tutto rispetto
al nulla, un qualcosa di mezzo tra il niente
ed il tutto. Infinitamente lontano
dall'abbracciare gli estremi, la fine delle
cose ed il loro principio gli sono
invincibilmente nascosti in un impenetrabile
segreto, ed egli è ugualmente incapace di
vedere il nulla da cui è stato tratto e
l'infinito dal quale è inghiottito. (.) Chi
potrà seguire queste strade meravigliose?
L'autore di queste meraviglie le comprende;
nessun altro lo può". (72)
Racchiuso in questa "posizione mediana" (tra
l'essere ed il nulla, come tra la sapienza e
l'ignoranza, la felicità e l'incapacità di
raggiungerla) l'essere umano, ogni volta che
vi pensi, in solitudine e senza distrazioni, è
costantemente in grado di afferrare la propria
miseria e di provare tristezza, sconforto ed,
in ultima istanza, angoscia per il proprio
stato. Oppure comincia a crogiolarsi nella
noia, il segno più forte che egli non può bastare a se stesso.
Infelice e rassegnato circa i risultati del
proprio pensiero e della propria azione, che
sono sempre troppo piccoli rispetto ad uno
smisurato desiderio di felicità, l'uomo tenta
allora di stordirsi, di distrarsi in una
miriade di attività e di occupazioni che gli
facciano dimenticare se stesso e la propria
manchevolezza.
"Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno creduto
meglio, per essere felici, di non pensarci"
(168), perciò "l'unica cosa che ci consola
delle nostre miserie è il divertissement, e
intanto questa è la maggiore delle nostre
miserie. Perché è esso che principalmente ci
impedisce di pensare a noi e ci porta
inavvertitamente alla perdizione. Senza di
esso, noi saremmo annoiati, e questa noia ci
spingerebbe a cercare un mezzo più solido per
uscirne. Ma il divertissement ci divaga e ci
fa arrivare inavvertitamente alla morte".
(171)
Il divertissement ci aliena dalle
nostre coordinate esistenziali, proiettandoci
di continuo in un contesto ed in un tempo che
non sono ancora nostri, ma in cui riponiamo
tutto il nostro essere: "Così, non viviamo
mai, ma speriamo di vivere e, preparandoci
sempre ad esser felici, è inevitabile che non
siamo mai tali". (172)
Ma la mentalità comune non trova una soluzione
alla propria tragedia esistenziale soltanto
nel divertissement. Altre sono le forme
dello stordimento di sé che ci traggono in
inganno: l'immaginazione ("maestra d'errori
e falsità", 82), l'abitudine ("spesso
la natura non si assoggetta alle sue stesse
regole", 91), la perpetua voglia di
cambiamento ("la nostra natura sta nel
movimento; il completo riposo è la morte", 129). Un posto particolare, nel novero delle
illusioni di stabile felicità, è occupato
dalla vanità, che scaturisce da una volontà di
riconoscimento: "Siamo tanto presuntuosi
che vorremmo essere conosciuti da tutta la
terra, anche da quelli che vivranno quando noi
non esisteremo più; e siamo tanto fatui che la
stima di cinque o sei persone che ci
circondano ci rallegra e ci fa contenti".
(150)
Questo per quanto riguarda la mentalità
comune. I filosofi e gli scienziati, invece,
non possono essere considerati esclusivamente
secondo l'ottica della vanità e del
divertissement (anche se poi gli
appartengono, in quanto uomini), ma devono
essere esaminati, nei loro auspici di
conoscere, secondo un quadro ben più ampio di
quello della sola
etica.
Un quadro che includa, ovviamente, anche la
distinzione pascaliana tra esprit de
géométrie ed esprit de finesse.
Tralasciando per un attimo l'aspetto gnoseologico, ci limitiamo ad esporre i motivi che inducono a Pascal a parlare di un eccessivo orgoglio anche per la scienza e la filosofia.
La scienza, e il razionalismo che da lei nasce, si propone di spiegare i meccanismi di tutto il creato, ma non ne è capace sia per limiti metodologici sia perché non assolve mai del tutto a ciò che l'uomo richiede da parte dell'esistenza. Il sapere scientifico, difatti, è sempre limitato dall'esperienza che, se da un lato è la forza del suo metodo (Pascal è contro l'apriorismo cartesiano), dall'altro è anche incapace di donare universalità e assoluta necessità alle conoscenze. La scienza, inoltre, parte da principi indimostrabili per il suo stesso metodo e, se giunge a comprendere i meccanismi della natura, non riesce mai, alla fin fine, a dar risposta agli interrogativi umani di fondo: chi siamo, perché viviamo, qual è il nostro destino ultimo, etc, perché tali domande riguardano in un certo senso l'infinito ed il nulla, i due estremi entro i quali l'uomo è calato ed al di là dei quali non può esistere mai, per lui, una certezza razionale.
A quest'ultimo compito prova a dedicarsi la filosofia, che indaga le cause ultime dell'essere, del conoscere e dell'agire, fallendo, per Pascal. Essa, infatti, non può disegnare mai un'etica perfetta ("nulla si vede di giusto o di ingiusto che non muti qualità col mutar di clima", 294), né tantomeno può rintracciare nel creato prove sicure dell'esistenza di Dio, che sono valide solo per chi già crede. Ecco che, dunque, i filosofi o si rifugiano in teorie parziali in cui vogliono intravedere l'assoluta verità (i dogmatici) o si abbandonano allo scetticismo (come Montaigne).
Il vero filosofare, al contrario, secondo Pascal, sfocia necessariamente in una sorta di "filosofia dei limiti", che mostri all'uomo la propria miseria, il proprio dramma esistenziale e l'assurdità delle risposte date finora ad esso dalla sola filosofia: "Beffarsi della filosofia è filosofare davvero" (4), "Nulla è così conforme alla ragione come questa sconfessione della ragione" (272).
Parallelamente, però, la filosofia deve lasciar intravedere, dietro ogni confine, uno spiraglio di verità che trascenda ogni ragione possibile e che risieda nella benigna Rivelazione divina.
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