Riflessioni sulla Simbologia
di Sebastiano B. Brocchi
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Verum, sine mendacio.
Un’analisi filosofica ed ermetica della Certezza
Novembre 2008
“È così! Ci metterei la mano sul fuoco!”.
Quante volte abbiamo sentito e usato questa espressione? Usata così, per modo di dire, naturalmente senza crederci veramente. Nessuno metterebbe veramente la mano sul fuoco per avvalorare una convinzione, ci mancherebbe altro… ma sapete da cosa deriva questa curiosa “dichiarazione di certezza”? Deriva, così tramanda la tradizione, dalla vicenda del romano Muzio Scevola. Ecco la sua storia:
«Stupendi sono i personaggi dei quali narrano la tradizione e la leggenda Romane, tra essi svetta Muzio Scevola, in lotta contro il malvagio Porsenna intorno all’anno 507 a.C., il quale non si voleva arrendere dopo la sconfitta inflitta a lui da Orazio Coclite e insisteva ad assiepare Roma. Muzio Scevola s’introdusse nel campo tentando di attentare a Porsenna, colpì invece il suo scrivano e per punirsi si tagliò la mano che aveva compiuto quell’errore.
Volontariamente mise la mano in un braciere e la lasciò ardere davanti al re, Porsenna, avvinto da quel coraggio e provando grande ammirazione lo lasciò libero. Durante l’assedio di Roma da parte etrusca, l’atto di Muzio Scevola mette in evidenza la forza d’animo e l’ardimento dei romani.
In verità si chiamava Muzio Cordo, il nome di Scevola voleva dire Mancino, dato che gli era rimasta solo la mano di manca» (da www.anticaroma.org).
«Questo famoso episodio ha dato origine al modo di dire: "mettere la mano sul fuoco". Quando infatti si è estremamente sicuri di una cosa, per rafforzare la propria posizione è solito dirsi "ci metterei la mano sul fuoco", come a voler riproporre, talvolta con aria di sfida, la vicenda accaduta a Muzio Scevola» (da wikipedia).
Tutto questo mi fa venire in mente un’altra tradizione popolare, anch’essa romana, quella legata al mascherone di pietra noto come “bocca della verità”, «una grossa pietra circolare (1,80 m di diametro) che rappresenta una testa di fauno urlante: è la famosa "Bocca della Verità", probabilmente un chiusino, a forma di maschera, di una cloaca, risalente al IV secolo a.C. Nel Medioevo l'indagato veniva condotto dinanzi al mascherone (allora affisso alle mura esterne della chiesa di S.Maria in Cosmedin) e la mano introdotta nella "bocca della verità": se innocente, ritirava la mano indenne, ma, se colpevole, il mascherone avrebbe chiuso la bocca, troncando di netto la mano» (da www.romasegreta.it).
Se ci pensiamo (qui la similitudine salta meno agli occhi), anche quando viene prestato un giuramento, generalmente esso è accompagnato da un rito che prevede la testimonianza di questo impegno attraverso la mano, che può essere posta sul cuore, su un oggetto, levata in aria, o anche stretta alla persona con la quale si intende suggellare il patto…
Nel giuramento che presta un testimone in tribunale, che insieme alla formula “Giuro di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”, pone la mano sulla Bibbia o sulla costituzione; il che certo oggi non è un obbligo, ma lo riporto al fine di tracciare una certa tradizione in questo tipo di rituale. Fra l’altro, secoli orsono «I capitolari carolingi, lo Specchio svevo e molti ordinamenti urbani e rurali prevedevano pesanti punizioni in caso di spergiuro (come il) taglio della mano o delle dita usate per giurare» (dal “Dizionario Storico della Svizzera”), quindi ancora una volta lo stretto legame fra la mano e la parola data…
Lo vediamo addirittura nella ritualizzazione sociale del desiderio di unione che è il matrimonio, in vista del quale appunto l’uomo è solito “chiedere la mano” alla propria amata… «Perché si dice ‘impalmare una donna’ col significato di sposarla? E’ facile capirlo. Impalmare vale propriamente ‘unire palma a palma’, intendendosi le palme delle mani di due diverse persone; quindi ‘stringersi la mano’ come segno solenne di promessa. La stretta di mano che suggella un patto, un accordo, una promessa è del resto cosa comunissima in tutti i popoli della terra. E in antico, anzi, non serviva soltanto come severo impegno nella vendita, poniamo, di una coppia di buoi o di una partita di grano (…) ma impegnava perfino nelle alleanze politiche e guerriere (…). Non furono perciò esclusi gli affari di cuore. Quando un giovane voleva giurare amore a una fanciulla, ne chiedeva licenza al genitore e, davanti ai familiari che fungevano da testimoni, si stringevano la mano, e questo aveva la stessa importanza di un giuramento (…). ‘Impalmare’, dunque, era l’atto solenne che valeva come promessa di fidanzamento; un fidanzamento che precedeva di pochissimo le nozze, tanto che presto ‘impalmare’ significò addirittura ‘sposare’, ‘prender moglie’. Ed è un verbo che usiamo ancora con questo significato, anche se più spesso con una connotazione ironica o scherzosa. Né ironia né scherzo mettiamo invece in un’altra espressione affine di significato: 'chiedere la mano' di una ragazza: che deriva, è chiaro, da questo uso lontanissimo di stringersi la mano (palma, ndr) come promessa di matrimonio» (da Fausto Raso, “Cardiopalmo o cardiopalma?”).
Su questo sentiero ci imbattiamo sicuramente nel celebre episodio evangelico dell’“incredulità di Tommaso”, in cui l’Apostolo identifica nel “toccare con mano” la veridicità di quanto afferma l’uomo che si trova di fronte a lui.
Ma a cosa porta questo discorso? In primo luogo a constatare un indubbio fattore simbolico (direi senza troppo timore di esagerare “archetipico”), che lega la mano alle certezze di un uomo. In secondo luogo, credo, ad analizzare il significato profondo di quanto detto.
Credo che la mano sia presa, in tutti questi casi, a simbolo dell’intero corpo, o meglio dell’intero sé. Perché proprio la mano? Poiché è attraverso di essa che fisicamente (e perciò visivamente) noi esprimiamo in concreto il nostro mondo interiore, i nostri pensieri, le nostre intenzioni. Un progetto della mente viene attuato con la mano. Perciò credo che le azioni rituali sopra citate, e in primo luogo quelle in cui la mano viene immolata (anche laddove solo metaforicamente), equivalgano al sacrificio della persona intera, e in questo si avvicinino molto all’idea del martirio. Il martirio infatti è la massima espressione di sacrificio di sé atto a dimostrare una certezza. Dire “ci metterei la mano sul fuoco”, non è molto diverso in fondo dal dire “mi butterei nel fuoco”. Lo dimostra ad esempio l’eroismo e l’abnegazione elevati al massimo parossismo che dimostrarono i Catari all’epoca del loro barbarico sterminio. Un Cataro, in molti casi, accettava di finire sul rogo piuttosto che rinnegare ciò in cui credeva. E questo lo vediamo non solo con i Catari: quasi tutti i gruppi religiosi, etnici e talvolta anche politici o scientifici possono “vantare” (se di vanto si può parlare!) una lista di martiri immolatisi per sostenere i propri ideali.
Ora, personalmente non ritengo il martirio un gesto nobile, eroico, intelligente e degno di ammirazione, come lo considerano certe persone e, purtroppo, certe dottrine e religioni che lo promuovono o l’hanno promosso in passato. Esso è, nella maggior parte dei casi, dettato dall’influenza che certi fondamentalismi riescono ad esercitare sulle menti facilmente condizionabili e, spesso, sulle schiere più povere e ignoranti della popolazione. Troviamo, è vero, anche una forma di martirio dotto e individualizzato, come quello di un Socrate o di un Giordano Bruno, che scelgono di porre le proprie idee al di sopra del proprio “essere” terreno…
Tuttavia, dobbiamo prendere atto che proprio il martirio è uno dei “gesti” maggiormente rappresentati dell’arte sacra, non solo cristiana. Il che sarebbe impossibile, credo, se questo non fosse dettato da una necessità inconscia collettiva, o piuttosto, come è spesso il caso nell’iconografia religiosa, dal tentativo di travestire con una maschera essoterica delle ben precise conoscenze esoteriche. In altre parole, chi ha occhi per vedere e orecchie per intendere, guardando le molte immagini di martirii dovrebbe poter “leggere” delle verità spirituali che esulano dal campo della storiografia. Ovvero: l’Iniziato che osserva un affresco in cui è rappresentato il martirio di un santo, non dovrebbe pensare alle vicende storiche cui l’affresco si riferisce (sempre che si tratti di vicende realmente accadute, il che in molti casi è chiaramente impossibile e in altri è fortemente opinabile) quanto piuttosto cercare di cogliere il messaggio di tale affresco, interpretandolo sub specie interioritatis…
La prima asserzione della Tabula Smaragdina è fortemente perentoria: “Verum, sine mendacio, certum et verissimum”, “È vero senza menzogna, certo e assolutamente veritiero”. In effetti, le conoscenze ermetiche acquisite da un Iniziato, spesso attraverso l’intuizione, hanno la caratteristica di essere talmente chiare, limpide, semplici (una volta comprese), da risultare assolutamente prive di dubbio, a differenza di quanto accade con ogni altra forma di conoscenza acquisita, sia essa di carattere scientifico o religioso. Un individuo che sia stato istruito, indottrinato, non potrà mai dire di conoscere, ma sempre e solo di credere. Persino ciò che vediamo, tocchiamo, sperimentiamo, è così facilmente soggetto al dubbio (cfr. Ubaldo Nicola, “Sembra ma non è”)…
Mentre la gnosi dell’Iniziato, per essere riconosciuta interiormente come tale, dev’essere compresa fino in fondo, e dare l’impressione di essere giunti a toccare una verità talmente radicale e profonda, da farci sembrare di aprire gli occhi in quel momento per la prima volta. Dopo di essa, non dev’esserci più lo spazio dell’incertezza, delle domande. Lo spirito diviene totalmente unificato con quella verità, diviene da essa indissolubile, rendendo impensabile quel che avviene invece a quasi tutti i “credenti”, che prima o poi si ritrovano confrontati alla fatidica domanda: “e se non fosse vero?”.
E parlando di questa gnosi non parlo della Gnosi con la “G” maiuscola, ovvero della verità ultima e onnicomprensiva chiamata anche “Illuminazione”, ma di ogni singola verità, di ogni “frammento di Gnosi”, che man mano si rivela dalla coscienza e nella coscienza dell’alchemico Operatore. Poiché per ognuno di questi tasselli del grande mosaico detto “Risveglio”, deve valere il medesimo principio di chiarezza e certezza. Leggete un testo alchemico: non vi troverete nulla! Esso non insegna assolutamente nulla, proprio perché ogni insegnamento è qualcosa in cui bisogna credere. Un testo alchemico permette, attraverso i suoi simboli e le sue metafore, di ottenere delle intuizioni. E un’intuizione non è una conoscenza appresa, ma una conoscenza che si rivela da sé stessa dentro di noi al di là della nostra volontà, al di là delle nostre possibilità, al di là delle nostre conoscenze. Non tutte le cose che “pensiamo” sono intuizioni. Un’intuizione si riconosce fra mille pensieri. È lei che fa esclamare “Eureka!”. E lei che ci coglie all’improvviso, con un impatto tanto forte da sembrare un’esplosione della mente, che ci distoglie in un istante dal vago turbinio di pensieri e preoccupazioni quotidiane, creando il vuoto e il silenzio dentro di noi che servono ad ascoltarla.
È questo che può darci la serenità interiore, e la vera certezza. Una certezza che rende impensabile l’idea di sbagliare, tanto che saremmo disposti (per tornare al principio di questo discorso) ad immolare qualsiasi cosa, a “mettere la mano sul fuoco”, se ci venisse dimostrato che siamo nel torto.
Per finire, solo ciò di cui abbiamo la completa certezza per averlo conosciuto tramite l’Intuizione o perché dall’Intuizione ci è stato confermato, ciò che ci è stato rivelato dalla nostra Coscienza che viene chiamata dagli esoteristi “il Maestro Interiore”, ebbene soltanto questo possiamo considerarlo un insegnamento della Scienza Ermetica, che per sua stessa dichiarazione dev’essere “Verum, sine mendacio, certum et verissimum”…
Sebastiano B. Brocchi
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