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Riflessioni sul Senso della Vita

Riflessioni sul Senso della Vita

di Ivo Nardi

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Riflessioni sul Senso della Vita
Intervista a Gaspare Mura

Dicembre 2012

 

Gaspare Mura, filosofo e teologo, è professore ordinario emerito di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana, dove insegna Storia della filosofia antica, Filosofia della religione, Ermeneutica filosofica, è docente di Ermeneutica filosofica presso le Pontificie Università Lateranense e Santa Croce di Roma.

Già direttore editoriale della casa Editrice Città Nuova di Roma, è stato direttore dell’«Istituto Superiore per lo studio dell’ateismo», dell’editrice Urbaniana University Press, e della rivista di filosofia e teologia «Euntes Docete» della Pontificia Università Urbaniana. È attualmente presidente dell’«Accademia di Scienze Umane e Sociali» (A.S.U.S.) di Roma e consultore del Pontificio Consiglio della Cultura. Autore di numerosi studi dedicati all’ “ermeneutica veritativa” ed al fenomeno religioso oggi, gli è stato dedicato recentemente un Festschrift dal titolo: “Per un’ermeneutica veritativa. Studi in onore di Gaspare Mura” (a cura di I. Korzeniowski, Città Nuova, Roma 2010).

 

1) Normalmente le grandi domande sull’esistenza nascono in presenza del dolore, della malattia, della morte e difficilmente in presenza della felicità che tutti rincorriamo, che cos’è per lei la felicità?

La domanda sul senso dell’esistenza sorge credibilmente solo in seguito ad un processo che coinvolge il nostro bisogno di “verità”. “Senso dell’esistenza” e “ricerca della verità” si compongono in modo inscindibile. La stessa esperienza della storia culturale dei popoli testimonia che le grandi culture altro non sono se non le risposte al “senso dell’esistenza” che uomini più consapevoli e meno disponibili ad accettare una quotidianità senza significato, hanno elaborato in forme religiose, filosofiche, artistiche. E’ la cultura di appartenenza, nelle sue molteplici forme, il luogo privilegiato in cui la singola persona legge il senso della propria vita e del proprio destino, e si inserisce in essa in modo originale e  creativo, apportandovi il contributo della propria individuale personalità. “Nessun uomo è un’isola”, scriveva Thomas Merton; nessun uomo elabora individualmente il senso della propria esistenza, senza tener conto del contesto culturale in cui è inserito e di fronte al quale deve responsabilmente prendere posizione e dare il proprio apporto creativo.

Per questo non sono d’accordo nel sostenere che il “bisogno di senso” nasca solo in presenza del dolore, ovvero quando la sofferenza ci costringe a riflettere sul senso della nostra vita. Questa tesi, che ha fatto parte di un  certo spiritualismo “dolorista” cristiano, oggi per fortuna superato, ritiene che solo la sofferenza risvegli nell’uomo la “domanda di senso”, e in ultima analisi il bisogno di Dio come senso ultimo; essa finisce quindi per celebrare il dolore come la via privilegiata che risveglia l’esistenza addormentata dell’uomo al bisogno e al mistero di Dio. Giustamente Dostoevskij metteva in bocca ad Ivan Karamazov, che non accettava questa visione di un Dio che sembra indifferente di fronte al dolore dell’uomo, questa espressione: “No Alioscha, non è che io non accetti Dio, solo che gli restituisco rispettosamente il biglietto!” Se volessimo approfondire questa tematica del rapporto tra “sofferenza dell’uomo” e “rifiuto di Dio”, dovremmo entrare in modo complesso sulle cause e le radici che sono state responsabili in gran parte dell’ateismo, prima culturale e poi pratico, dei tempi moderni. Albert Camus, nel  celebre romanzo La peste, metteva in bocca al dottor Rieux che decide di restare in Algeria per curare i malati, queste parole: "È meglio  restare qui a combattere contro la malattia e il male, a favore dell'uomo, che guardare in alto, nel cielo, dove Lui tace”;  e ancora:  “… io mi faccio un'altra idea dell'amore e mi rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati". Poiché il senso della nostra esistenza è strettamente congiunto con la verità della nostra esistenza, la quale trova in Dio, comunque lo si nomini, il fondamento di un significato non legato alle mode del tempo, ma aperto ad un orizzonte infinito, occorre riflettere sulla nostra immagine di Dio, per esaminare se essa sia piuttosto frutto delle nostre paure ma non risponda alla sua verità. Occorrerà allora passare dalla diffusa immagine Zeusiaca di un Dio indifferente di fronte alla sofferenza dell’uomo, che egli stesso provoca, all’immagine cristiana di Dio come amore, che come hanno scritto e testimoniato i grandi profeti del nostro tempo, soffre nella nostra sofferenza, per lottare con noi contro la sofferenza, fino a liberarci dalla sofferenza. Scriveva Maritain che se gli uomini sapessero che Dio soffre nelle loro sofferenze, molte anime sarebbero liberate dall’angoscia e dal dubbio. Pertanto solo chi incontra realmente nella propria vita Dio come amore, il quale, scriveva Kierkegaard, diviene nostro “contemporaneo in Cristo”, e vive in intimità con lui, sa trovare il senso della propria esistenza sia nei momenti del dolore, sia nei momenti della gioia, perché negli uni e negli altri vive la beatitudine di un’ esistenza radicata nell’eternità.

 

2) Professore Mura cos’è per lei l’amore?

Cos’è l’amore? L’amore è il grande senso della vita, a patto tuttavia che si sappia vivere la “verità dell’amore”. Il termine “amore” infatti è oggi abusato a tal punto da coprire un’infinità di realtà che con il vero amore hanno poco o nulla a che fare. E’ la verità dell’amore che ci fa comprendere e vivere il senso della nostra esistenza.

Benedetto XVI ha scritto un’importante enciclica “Caritas in veritate”, nella quale ricorda ai cristiani che non si può separare la “verità” dall’”amore” e che ogni amore autentico ha la sua radice nella verità. Occorrerebbe allora elaborare tutta una classificazione delle realtà che oggi sono sottese al termine amore, ma che sono estranee alla sua verità.

Alla “verità dell’amore” appartiene infatti la giustizia nei nostri comportamenti verso i nostri simili, sia a livello familiare che sociale, la quale ci impedisce comportamenti che violano anche i minimi precetti della giustizia e della legalità, o che peggio, come sovente accade, trascurano la giustizia perché, si dice, “l’amore è più importante”; alla “verità dell’amore” appartiene l’etica del “rispetto”, che considera ciascuno come persona unica e preziosa, e impedisce di strumentalizzare l’altro, chiunque esso sia, ai propri fini utilitaristici; alla “verità dell’amore” appartiene l’etica del “riconoscimento”, che fa dire all’altro “grazie perché tu esisti”, e non pretende che l’altro si uniformi a noi, ma che sia pienamente se stesso; alla verità dell’amore appartiene anche, nei rapporti affettivi e coniugali, la volontà di realizzare il bene dell’altro, rifiutando il “possesso” dell’altro ed amando la sua libertà e la sua piena realizzazione: come traduce André Chouraqui la frase del Cantico, che parla dell’intimità dell’amore: “Alzati bella mia e vai verso te stessa, nell’orizzonte di un Amore infinito”; il vero amore, anche nei rapporti più intimi e sessuali, non è possesso dell’altro, ma è vero se sa creare la più alta personalizzazione, la più piena libertà nell’orizzonte dell’Infinito, in cui si ritrova e si riscopre l’altro sempre nuovo, sempre dono inatteso; alla “verità dell’amore” appartiene la fedeltà dei rapporti, che al di là delle nostre relazioni di gruppo e di comunità, anche religiosa, sa vedere nell’altro che si è incontrato una volta sempre un “amico”, di cui sono responsabile per la vita anche se non facesse più parte del mio gruppo; alla verità dell’amore appartiene la “scelta di essere” contro la “scelta di avere”, una “scelta di essere” capace di condizionare eticamente i nostri comportamenti pratici, nella vita personale, familiare, sociale, lavorativa, per costruire una società giusta; alla verità dell’amore appartiene la capacità di diventare generatori di “speranza” in tutti i luoghi in cui domina la disperazione; alla verità dell’amore appartiene infine, come scriveva Levinas, la capacità di considerare l’altro non come una soggettività di cui posso impossessarmi, ma prima di tutto come partner dell’Infinito; l’altro, scrive Levinas,  è prima di tutto un “volto” che nella sua nudità inerme chiede a me di andare a lui passando l’Infinito, che è il vero custode del rapporto che ci lega agli altri, fondamento della nostra giustizia e del nostro amore.

 

3) Come spiega l’esistenza della sofferenza in ogni sua forma?

4) Cos’è per lei la morte?

Ho già risposto alla domanda sul senso della sofferenza.

Quanto alla morte, vorrei rispondere con Socrate: “Come saranno le cose di là non so, ma commettere ingiustizia, e trasgredire il comando di Dio, questo so che è male” (Apologia). Ritengo che la risposta di Socrate sia già precristiana, nel senso che la guida sicura per affrontare la morte con serenità è la coscienza di una vita giusta, fondata su quelle virtù etiche che rendono sereno anche l’uomo non cristiano o non credente. Nel Somnium Scipionis Cicerone descriveva la vita oltre la morte come il luogo della ricompensa dei giusti.

Come cristiano tuttavia la morte assume un significato più profondo. Perché la morte non è il termine della vita, ma è la porta che ci introduce in una nuova vita che tuttavia abbiamo già sperimentato se abbiamo incontrato Cristo nella Chiesa. Ho sentito in questi giorni che commemorano i defunti un sacerdote dire nell’omelia: “La Chiesa è il cielo sulla terra”. E’ vero, perché nella Chiesa incontriamo realmente Cristo nei suoi sacramenti, e sperimentiamo già fin d’ ora la sua vita di Risorto. Cristo non è il Dio dei morti, ma dei vivi. Per un credente la questione della morte si riassume tutta nella domanda: sono io intimamente unito a Cristo, il Dio della vita? Cosa mi manca per essere perfetto in questa unione e potere incontrare, al termine della mia vita, non la morte ma Cristo?

 

5) Sappiamo che siamo nati, sappiamo che moriremo e che in questo spazio temporale viviamo costruendoci un percorso, per alcuni consapevolmente per altri no, quali sono i suoi obiettivi nella vita e cosa fa per concretizzarli?

6) Abbiamo tutti un progetto esistenziale da compiere?

Quanto agli obiettivi nel percorso della vita, mi sembra di avere già detto che questi dipendono dal senso che si dà alla morte. Tornando a Socrate, tutta la sua filosofia può essere considerata una “meditatio mortis”, nel senso che la meditazione sulla vita oltre la morte, e sulle disposizioni interiori che l’uomo deve possedere per entrarvi, hanno animato tutta la sua ricerca e dominato la filosofia di Platone. Per un cristiano, la “meditatio mortis” si trasforma tuttavia in una “meditatio vitae”, che trasforma la filosofia in sapienza, perché compie il cammino della ricerca e dell’amore della verità in una contemplazione amante della verità, resa presente nel mistero realmente incontrato.

Tuttavia, questa “contemplazione” della verità non fa da ostacolo al raggiungimento di progetti esistenziali concreti. Dio non è il rivale dell’uomo, ma ama l’uomo fino in fondo, aiutandolo a realizzare quei progetti e quei sogni concreti che egli stesso ha messo nel suo cuore. Il mio progetto esistenziale, anche per influsso della mia famiglia di intellettuali, è stato l’impegno nel campo dello studio e della cultura, dedicandomi soprattutto alla diffusione della cultura cristiana ed alla formazione dei giovani. Anche il lavoro intenso in questo campo mi ha permesso di incontrare il Signore come compagno di viaggio, come amico fedele, come sostegno di ogni iniziativa, così che dopo molti anni mi sorgono spontanee le parole del Salmista: “Tu dai successo a tutte le nostre imprese”.

 

7) Siamo animali sociali, la vita di ciascuno di noi non avrebbe scopo senza la presenza degli altri, ma ciò nonostante viviamo in un’epoca dove l’individualismo viene sempre più esaltato e questo sembra determinare una involuzione culturale, cosa ne pensa?

Il fatto che l’individualismo connoti oggi la cultura e l’etica dominanti è un fatto indiscusso, che certamente denota una involuzione insieme culturale, etica e sociale. Il problema è tuttavia: quali sono le vie più adeguate per far riscoprire  alla nostra società il valore della responsabilità per gli altri, fondata sulla natura dell’uomo “animal sociale”?

Personalmente ritengo che esista una sola strada “di ritorno”: quella dell’educazione, dell’istruzione, della cultura, insomma della scuola e di tutte le agenzie educative, oggi sovente in crisi, come la famiglia e, sotto certi aspetti, la stessa Chiesa. La politica, come è oramai sotto gli occhi di tutti, ha fallito nel suo compito educativo; anzi, la politica stessa, che sta dando esempio in molti suoi rappresentanti di individualismo ed egoismo sfrenato, ha bisogno di essere riformata dal di dentro, mediante l’inserimento di uomini nuovi, eticamente e culturalmente formati, come sono stati i padri della nostra Costituzione. Ma la formazione appartiene appunto alle agenzie educative, le quali, data l’emergenza del momento, non possono ridursi a quelle tradizionali, ma devono allargarsi a tutti quei centri anche privati e minori di educazione e di formazione culturale che sono preziosi per la ricostruzione di un tessuto sociale sano.

 

8) Il bene, il male, come possiamo riconoscerli?

“Unde malum”? E’ la grande domanda di Agostino. Cristo parlava di un “mysterium iniquitatis” perché il male è soprattutto un mistero, e come tale non può essere razionalizzabile. Possiamo tuttavia riconoscerlo in tanti suoi volti, non solo quelli delle malattie, ma in tutti quegli eventi incomprensibili di cui ci parlano ogni giorno le cronache dei giornali, e che non sembrano avere spiegazione. E poi il male sociale, dovuto alle ingiustizie, che creano alcuni “sempre più ricchi” ed altri “sempre più poveri”; e ancora i piccoli mali - incomprensioni, litigi, discordie, maldicenze, calunnie ecc.-  con cui ci scontriamo quotidianamente nella nostra vita. Il cristiano sa che Cristo ha “vinto il mondo” ed ha sconfitto il male anche se, come scriveva Pascal, “Cristo è in agonia fino alla fine del mondo”. Partecipare a questa agonia, non passivamente, ma lottando efficacemente contro ogni forma di male, significa contribuire alla vittoria finale sul male.

 

9) L’uomo, dalla sua nascita ad oggi è sempre stato angosciato e terrorizzato dall’ignoto, in suo aiuto sono arrivate prima le religioni e poi, con la filosofia, la ragione, cosa ha aiutato lei?

Personalmente non credo che per aiutare l’uomo a cercare il senso della vita siano arrivate prima le religioni e poi la filosofia. In realtà la questione è molto più complessa e non può essere trattata superficialmente. Ritengo tuttavia che religione e filosofia siano due componenti fondamentali dell’animo umano, le quali devono collaborare per sostenete l’uomo nel cammino della vita, mentre se vengono contrapposte producono lacerazioni anche psicologiche devastanti. Personalmente ho cercato fin da giovane l’alleanza della religione e della filosofia, della fede e della ragione, e me ne sono avvalso come di due ali per un cammino sempre più intenso nell’orizzonte della verità, dell’amore e della bellezza.

 

10) Qual è per lei il senso della vita?

Il senso della vita mi è stato donato dalla fede, che ho incontrato fin da giovane. Voglio chiudere allora queste mie brevi riflessioni con una poesia del poeta romano Trilussa:

 

“Quella vecchietta cieca, che incontrai
la notte che me spersi in mezzo ar bosco,
me disse: - Se la strada nun la sai,
te ciaccompagno io, ché la conosco.
Se ciai la forza de venimme appresso,
de tanto in tanto te darò 'na voce,
fino là in fonno, dove c'è un cipresso,
fino là in cima, dove c'è la Croce…
Io risposi: - Sarà … ma trovo strano
che me possa guidà chi nun ce vede … -
La cieca allora me pijò la mano
e sospirò: - Cammina! - Era la Fede”.


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