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Prosa e Poesia

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Frammenti Filosofici - Religiosi

di Francesco Gheza
(scritti a diario dal 26-4-1997; trascritti a computer dal 31-3-99)

26 aprile 1997
Il cammino dell'uomo dai suoi primordi ad oggi si è svolto su due piani diversi e paralleli, ma con reciproci influssi.
Lungo il primo più ampio, quello dell'INFINITA REGOLARITA' DI DIO UNICO UNIVERSALE , ETERNO TRASCENDENTE;
lungo il secondo più ristretto, circoscritto ed interno, quello dell'UOMO.
Mentre Dio dal suo infinito orizzonte "guardava" e "non provvedeva", in quanto aveva già tutto predisposto e provveduto, l'uomo Lo "cercava" con anelito cosciente o incosciente, e ne richiedeva l'intervento ulteriore provvidenziale temporale.
Dio non poneva alcuna altra diversa predilezione, specifica per l'uomo, piccola parte del Creato; l'uomo la pretendeva e reclamava in varie e diverse maniere. Lui non gli rispondeva direttamente, ma soltanto attraverso il regolare dispiegarsi dell'infinita vitalità creata e creativa; intanto l'uomo credeva di poterLo riconoscere ed imparava a riconoscerNe la presenza.
La PRESENZA-ASSENZA di Dio veniva colta diversamente dall'uomo: il religioso la PRESENZA attiva e provvidenziale; il non-religioso l'ASSENZA: l'uno e l'altro avevano buoni motivi per confermare la propria posizione e pari opportune ragioni per confermarla; ciascuno, per viverla coerentemente, ha subito l'intolleranza dell'altro.
Dio intanto era al contempo TOLLERANTE E INTOLLERANTE, nel senso di permissivo e inflessibile, con tutti, con tutto: PERMISSIVO nel senso che tutto quanto individualmente e collettivamente facevano gli uomini Gli era comprensibile e giustificabile, quindi accettabile, allo stesso modo di quanto accadeva a qualunque altra cosa o ente del Creato tutto; INFLESSIBILE nel senso che, essendo tutti i "possibili" del/nel Creato sotto la soglia della sua sovranità, la casualità e causalità del loro divenire ed apparire non aveva bisogno di deroghe o di specifici suoi interventi temporali, richiesti dall'uomo in proprio favore nella contingenza della sua vita temporale, temporanea.
Così parte degli uomini hanno creduto di cogliere l'ARRENDEVOLEZZA di Dio, chiamandola Provvidenza; un'altra l'INDIFFERENZA, ritenendoLo inesistente. Entrambe dal loro punto di vista hanno avuto la possibilità di avere ragione: entrambe, e con reciproci scambi di fedi e ragioni, hanno vissuto la propria temporale e temporanea vita entro l'orizzonte di Dio.

27 aprile 1997
L'uomo che coglieva di Dio l'ARRENDEVOLEZZA, chiamandola provvidenza, poteva permanere nella sua felice armonia solo a condizione di mantenere una fiducia estrema (fede) nel suo dio arrendevole e provvidente: accettare cioè qualunque "risposta" di Dio, favorevole o no, ma ritenendola comunque sempre adeguata. Solo la conservazione pervicace della fiducia nel suo dio poteva permettergli di ritenerlo in ogni modo provvidente, perché se avesse razionalizzato il tipo di risposta non favorevole come incapacità del suo dio a rispondergli, sarebbe caduta la sua stessa fiducia-sicurezza. Ma allontanarsi ed abbandonare il proprio dio, è arduo quanto mantenergli fede ad ogni costo.
Da ciò nasce teoreticamente la concezione di un dio provvidente anche nelle specifiche situazioni particolari perorate dal religioso fedele: proprio dalla fiducia che comunque il suo dio è veramente provvidente; ed essendo il Vero Dio davvero Provvidente in assoluto (tutto l'ordine dei possibili del/nel Creato è da Lui eternamente concesso), l'uomo pio riesce a far combaciare l'Ordine Eterno Provvidenziale con il proprio sentire particolare. Per salvare anche questo relativo modo del suo dio d'essere provvidente, il religioso non può che avere questa fede indomita: comunque il suo dio l'ha ascoltato, anche quando non ha risposto alla sua specifica richiesta. Cioè lui si deve convincere che il suo dio (e solo il suo) è davvero provvidente in relazione ai suoi specifici bisogni, anche al di là dell'evidenza reale, cioè anche al di là della risposta mancata. Questo tipo di fede è come l'esasperazione dell'attesa, l'inasprimento coerente della pazienza.
Per ritenere Dio indefettibilmente provvidente occorre lo stesso tormentoso adeguamento di Giobbe al suo dio, fino a quando lo stesso tormento diviene abitudine e questa porta alla serenità e sicurezza di potere sapere dovere affrontare qualunque situazione in suo nome e con il suo aiuto, dato che altra scelta non è adeguata.
In questo modo la fede nel proprio dio diventa sostanzialmente non l'oggettività della sua arrendevolezza, ma la virtù dell'uomo a sapere accettare "serenamente" tutto quanto accade, perchè diversamente non è conveniente che accada.
E' in questo senso che la Presenza-Assenza di Dio Vero ne rivela la sua inderogabile onnipotenza, la sua giusta inderogabile Inflessibilità di fronte all'uomo limitato; e all'uomo non rimane altro che convincersi che così è, se non vuole snervarsi in un continuo tormentoso ribellismo superbo e infruttuoso.
Solo quando l'attesa fiduciosa e coerente del fedele religioso nei riguardi del suo dio provvidente, affinchè Lui gli faccia dono della sua misericordia amorevole nei momenti di necessità, diviene consapevolezza che qualunque risposta gli sia data, in quanto proveniente da Lui, è sempre comunque bene accetta, allora il fedele religioso trasmigra dal suo dio specifico della sua religione al Vero DIO Unico Universale Eterno. E il fedele religioso non si rende conto, giustamente, di questo suo passaggio dal dio della propria religione, al Dio Universale di tutte le religioni: per questo motivo, pur essendo ciascuna religione in sé assolutamente non-vera (non rispecchia cioè la reale identità di Dio, la verità di Dio Universale), tutte le religioni diventano veritiere nel momento in cui un suo fedele acquisisce la consapevolezza e l'abitudine ad accettarne la sovranità serenamente ed attivamente, senza la superba pretesa che Lui faccia secondo i suoi desideri. Il dio provvidente a comando (preghiera, perorazione) diventa il Vero Provvidente Universale.

29 aprile 1997
Tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno vissuto vivono vivranno sotto l'infinito orizzonte di Dio Universale: religiosi e areligiosi; tutti, consapevolmente o no, stanno in sottomissione e al contempo in opposizione a Lui.
L'assoluta impassibilità di Dio nei confronti sia dell'uno che dell'altro è ciò che rende la vita della creature, in qualunque modo essa s'esprima, cone ugualmente accettabile comprensibile e giustificabile: per questo siamo tutti ad un tempo religiosi e areligiosi, e per ciò stesso non ha valore agli occhi di Dio la divisione tra sacro e profano entro la storia umana; non esiste alcuna separazione tra la "Città di Dio" e quella dell'uomo.
La separazione tra orizzonte di Dio e quello dell'uomo intesa come separazione tra eletti e non eletti, come dissociazione tra sacro e profano sono o solo il frutto dell'intolleranza o un semplice modo di distinguere dal punto di vista umano, molto umano, i comportamenti e le azioni conformemente a regole leggi direttive etiche morali convenzionali. Tali distinzioni separazioni dissociazioni non inverano la predisposizione di Dio a favore di una parte e a sfavore dell'altra.
Ciò, molto semplicemente, significa che tutti, tutto il Creato, stiamo di fronte a Dio Ineffabile, in egual misura accettati compresi tollerati autorizzati liberalizzati; confinati a vivere entro il suo orizzonte, senza alcuna possibilità per nessuno di poterlo varcare, né nella vita temporale, né in quella presunta extratemporale (sovrannaturale- secondo il linguaggio tradizionale).
Sia gli uomini religiosi che quelli areligiosi sono tutti egualmente "salvati" risparmiati: esonerati sia dalla speranza e/o pretesa di godere eternamente la beata estasi paradisiaca, sia dal timore di bruciare eternamente nella dannazione luciferina.
Una delle più eclatanti cause di separazione tra Città di dio e Città degli uomini, tra sacro e profano, tra religioso e ateo, è stata proprio questa intuizione intollerante teorizzata per secoli e secoli (e oltretutto proprio dalle religioni rivelate, in modo perentorio) della PREMIAZIONE e DANNAZIONE eterna.
Posto questo teorema sacrilego, gli uomini erano angosciosamente chiamati da CHI L'AVEVA INVENTATO (pur in buona fede e per intenti educativi) a compiere una scelta esistenziale tormentosa: che cosa ne faccio di questa vita temporale terrena dinanzi alla vita eterna dannata o premiata? Scelta non facile, pressoché obbligatoria, vincolante psicologicamente; terrificante!
L'unica via di scampo, per quelli che non volevano o potevano conformarsi liberamente e convincentemente alle virtù convenzionali religiose e alle pratiche meritorie, rimaneva quella di adeguarvisi formalmente: applicare solo le procedure esteriori formalmente "purificatrici" indulgenti, ma comportandosi poi concretamente secondo la propria convenienza e capacità.
Per questo motivo, è proprio nelle religioni rivelate, così mordacemente condannanti tutte le cosiddette forme superstiziose pagane, che prosperano altrettante forme consolatorie e indulgenti puerili. Non potendo reggere alla presunta coerenza teologica dei dettami dottrinali circa i comportamenti da tenere, i fedeli angosciati dal rimorso non potevano far altro che salvarsi purificarsi attraverso pratiche abitudinarie prettamente esteriori, superstiziose. Quante anime si sono salvate in questo modo!

30 aprile 1997
Lo sviluppo del senso religioso e, quindi, delle religioni non è una progressione nel raggiungimento del traguardo definitivo: la verità assoluta universale, in base alla quale, da un certo momento in poi, tutte le particolari verità rispetto a Dio siano relative subordinate secondarie, in un qualche modo eretiche o devianti., no!
Il senso religioso, con tutto il suo immaginario di contorno, è sostanzialmente invariato: dal suo nascere e per sempre. La sua progressione è solo di tipo culturale, per i diversi modi di definire dichiarare proporre l'anelito insopprimibile verso l'Ineffabile, è un semplice affinamento teorico e teoretico di corollari; ma invariata rimane la tendenziale prospettiva verso Colui che sta al di là di tutti gli orizzonti del Creato.
Le religioni sono le istituzioni delegate al perfezionamento delle procedure per esprimere il senso religioso in modo collettivo, nella speranza (fede, certezza) che la teorizzazione della verità su Dio sia quella vera universale, ed in tale speranza fede certezza avere sentire provare la gioia di sentirsi in armonia con Lui, l'Unico, Esclusivo, quindi non raggiungibile dai fedeli delle altre religioni, e ritenute, pertanto, nemiche, da combattere in qualunque modo, per imporre la propria supremazia considerata come quella stessa del Dio (loro) Vero. Ma DIO UNICO VERO UNIVERSALE è proprio quello che sta al di là di ciascuna religione: è il Dio Ineffabile Eterno Assente-Presente: l'Areligioso per eccellenza.
Il tentativo perenne di accostamento a Lui, di disvelamento della sua identità, la pretesa fiduciosa dell'uomo di varcare la soglia temporale per appropriarsi della sua forza taumaturgica, di usufruirne in modo esclusivo, così come il tentativo di serrarLo in un apparato teorico e teoretico dottrinario, sono, semplicemente e nel contempo sostanzialmente, l'evidente sintomo della sicura dipendenza del Creato dal suo Creatore Unico, la prova certa che l'uomo, parte infinitesimale del Creato, ha la propria autonoma capacità di fissare non l'identità di Dio, ma semplicemente una trasposizione immaginaria e, quindi, di stabilire solamente ciò che gli è possibile: prescrizioni, ritualità, dottrine, strutture e sovrastrutture di culto individuale e collettivo; in pratica di organizzare la consapevolezza della propria dipendenza da Dio.
Man mano che il senso religioso, essenzialmente uguale in tutti i tempi e tutti i luoghi quanto allo strutturale anelito verso Dio, si è temprato nella sistemazione teorica teoretica ed organizzativo-istituzionale, ha conseguentemente assunto ed esercitato quel ruolo che spontaneamente derivava dal senso di dipendenza dell'uomo dal suo Creatore: la morale e l'etica., la regolazione dei rapporti individuali e collettivi in nome di Dio stesso.
L'effetto amplificativo del presunto diritto delle religioni ad interpretare la "volontà di Dio", attraverso i suoi ministri-sacerdoti (resisi ormai certi del loro ruolo esclusivo anche in forza della loro supremazia culturale e della loro collocazione in casta privilegiata intoccabile), si è propagata verso l'ambito di tutta la vita umana, non limitandosi a prescrivere riti, ritualità,  modi di culto per l'adorazione venerazione e perorazione della divinità.
Le religioni, costituite ed organizzate in istituzioni, in forza della stessa maggiore potenza carismatica e presunta taumaturgia dei propri minsitri-sacerdoti, della loro maggiore scienza e conoscenza anche dei fatti naturali, hanno potuto (opportunamente del resto, data l'assenza di altre opportunità conoscitive razionali, hanno potuto prorompere verso ogni manifestazione del comportamento umano, con l'assurda pretesa di poterlo regolare univocamente.
Ma se ciò è stato opportuno, forse, per un certo arco di tempo, ed efficace propizio al fine di educare elevare l'umanità, ha poi lasciato il marchio indelebile di un'indebita impossibile impostazione teocratica della vita umana, e dando oltretutto come scontato che le loro dottrine e prescrizioni fossero davvero la volontà di Dio, fossero davvero la Verità.
Le religioni, anche quando sarebbe stato opportuno in tempi e luoghi maturi a far assumere da tutti i soggetti umani della colletività organizzata le proprie responsabilità e libertà, non hanno più voluto riconsegnare la vita individuale e collettiva degli individui alla propria libertà di agire e decidere senza il peso del giogo teocratico assunto ad univoca pretesa certezza.
Mentre l'inderogabilità di questa efficace (ma anche dovuta?) appropriazione da parte delle religioni di porsi fin da subito come annunciatrici e peroratrici di valori morali etici ha contribuito ad indirizzare la sapienza saggezza umana verso forme più alte e sublimi di esistenza individuale e colettiva, d'altra parte però ha anche posto un equivoco di fondo: pretendere che l'espressione della vita umana dovesse svolgersi in una specie di "libertà vigilata", ma vigilata da occhi umani (i loro) come se fossero quelli di Dio; cioè, legare costringere restringere ridurre la vita temporale degli esseri umani ad un semplice "transito" "passaggio", in funzione del "vero orizzonte" sovrumano sovrannaturale indefettibile ed oltretutto accessibile solamente attraverso un comportamento religioso pio eletto, esclusivo.
E' questa stessa "esclusività" religiosa di accesso al Trascendente, prima indefinito e indefinibile, poi addirittura dogmaticamente enunciato e teorizzato secondo peculiari e certe caratteristiche, che ha pervasivamente ricollocato l'umanità lungo il crinale d'un nuovo fantastico (fantasioso) immaginifico, ma perentorio, dilemma: essere esistere per la vita terrena temporale o per quella extraterrena eterna?
Posto così il dilemma fatale, ne discendeva inevitabilmente una dialettica ma pericolosa dicotomia tra sacro e profano, tra divino e umano, tra naturale e soprannaturale, tra eletti e reprobi, tra certezza e falsità, tra spirituale e materiale. E non poteva che essere la parte autocertificatasi più alta e sublime a ritenere di dover detenere l'esclusiva dell'assoluta verità: la religione. Non potevano avere tale marchio i filosofi gli scienziati i politici i legislatori i pensatori gli artisti i letterati gli educatori e i singoli individui.
Ironia della sorte: ciò che era reale importante e sicuro (il profano l'umano il naturale) diviene irreale secondario e insicuro; ciò che era irreale immaginario e improbabile (il divino soprannaturale) diviene certezza!

1 maggio 1997
Da che cosa e come è nato questo esclusivo e dilemmatico spartiacque tra sacro e profano? Proprio dalla sovrastante assiomatica declarazione da parte delle religioni che il divino fosse più certo chiaro ed imprescindibile dell'umano, l'extratemporale sovrannaturale più irrinunciabile del terreno temporale, la verità-comando di Dio più visibile delle convenzioni umane. Orientando così, paradossalmente, l'umanità finita confinata e limitata verso temerari orizzonti imprevedibili.
Tutta questa smisurata impudenza e imprudenza ha contribuito da una parte a pungolare l'uomo verso sublimi orizzonti ed ancor più superbi sbocchi verso la pretesa immortalità ed eternità, ma dall'altra a comprimere la materiale e naturale esistenza umana a proscrizione e condanna.
Le religioni cioè hanno preferito in un certo qual modo far diventare incombente prorompente ed incontenibile l'aspirazione umana più verso il "dopo" incerto che non verso il presente reale dell'esistenza terrena, come se i religiosi, proiettati verso un sublime enormemente ingigantito e privilegiato, non fossero mai in grado di arrendersi alla limitatezza umana entro il contorno stesso creato in compagnia di tutte le altre cose ed enti finiti.
Perché proprio in questo sta uno dei paradossi delle religioni: battersi molto il petto, continuare a chiedere perdono a Dio ed umiliarsi di fronte a Lui, non sentirsi degni della sua Maestà, ma pretendere al contempo in grande superbia e sicurezza di avere diritto all'immortalità all'eternità beata. 
Questa evidente temporalità limitatezza e finitezza umana, pur entro il circolo eterno della vita creata e creativa, non era tollerabile agli occhi dei religiosi; non era possibile per loro accettarla così com'era (strutturata costituita per atto creativo di Dio stesso), contornata e conformata al perenne mutamento: bisognava redimerla. Non era sufficiente ordinarla e regolarla con l'etica e la morale dei comportamenti individuali e collettivi, rispettosi dell'universale diritto di ogni creatura di vivere la propria vita naturale in libertà e responsabilità.
L'uomo andava salvato, redento ex-novo, rimodellato ad immagine di Dio, reso immortale ed eterno come Lui. E chi poteva compiere questa vertiginosa parodia e palingenesi? Solo Dio! E al prezzo dell'annullamento di ciò che più verosimilmente gli era appropriato: la "Città dell'uomo". L'uomo cioè, confinato giustamente nel suo ambito creato insieme ad infiniti altri enti interagenti, doveva non solo arrogarsi il diritto la pretesa di ergersi sopra tutto e tutti, dominandoli con tutti i mezzi, ma anche nullificare tutto e tutti per proiettarsi lui solo verso l'Eterno. L'uomo era il privilegiato, l'eletto fra tutte le creature, l'unico non soggetto alla temporaneità e temporalità della vita in continuo rinnovamento, l'unico a non dover tornare nella polvere perdendo la propria identità come tutte le altre pari creature, l'unico a morire per resuscitare a nuova vita, il solo ad avere il diritto di presentarsi a Dio e starGli a fronte perennemente!
E come ciò poteva avvenire? Soltanto se era Dio stesso a volerlo. 
E come poteva essere acquisibile la volontà di Dio? Soltanto se Lui stesso decideva di rivelarla.
E come poteva rivelarla, data l'infinita sua distanza dall'uomo piccola parte del Creato? Facendosi indiretto interlocutore dell'uomo, cioè attraverso i suoi profeti.
Ma come era possibile essere certi che alcuni uomini fossero gli intermediari di Dio? Dai loro segni portentosi. 
Ma tanti uomini di religioni diverse hanno saputo mostrare segni portentosi! 
"Allora verrò Io Stesso, Dio, a rivelarvi la mia Verità". Dio si fa uomo!
Ma Dio in forma umana è più credibile di Dio nella sua vera identità inconoscibilmente sublime?
"Uomini di poca fede, allora credete a quel che volete…!".
Dio, sconfitto dall'uomo, assume la forma umana per potersi riproporre come Dio!
Invece è l'uomo, sconfitto da se stesso nella sua pretesa di diventare come Dio, sostituire Dio, ad immaginare Dio in forma umana, per renderLo vulnerabile sotto qualche aspetto, dimostrarLo non più Dio, sottrarGli la sovranità, e rendere quindi più credibile la propria aspirazione all'immortalità eternità: proprio come Dio.
La speranza-certezza che Dio si sia fatto uomo nasconde la pretesa dell'uomo di farsi Dio.
L'assurdità è fatta fede della certezza. E tale assurdità non perde la sua peculiarità di stravolgimento sacrilego anche se i religiosi che l'assumono coerentemente riescono a compiere azioni che nessun altro essere mortale riesce a compiere.
Ma ciò può dimostrare solamente quanta potenza reale concreta visibile sia possibile con l'immaginario umano: una potenza comunque che sta sempre entro l'orizzonte delle cose possibili del Creato e a sola conferma che ogni ideale, qualunque ideale, assunto con certezza di fede, di qualunque fede, può spingere l'uomo a compiere azioni normalmente non assunte dagli altri.
Ma perché Dio (l'INEFFABILE INFINITO ETERNO ONNIPOTENTE ONNISCIENTE INVISIBILE IMPENETRABILE INSVELABILE…), già dall'eternità prorompente Creatore di tutto, decide ad un certo punto della storia temporale di disvelarsi all'uomo (e solo all'uomo!?) per presentargli la propria verità volontà? Per infinito amore.
Allora Dio nel primordiale originale atto creativo non è stato amorevole? Non ha compiuto un'opera perfetta? O forse, certo, è stato sia amorevole che perfetto?! Anzi, di più: anche Giusto e Sapiente e …Provvidente. 
Nell'atto creativo originale e originario Dio ha realizzato integralmente, d'un solo colpo, contemporaneamente un'impresa autoesplicabile nell'eterno flusso di vita, autoregolabile nella perenne dinamica di tutti gli infiniti possibili, autonomamente liberamente relativamente modificabile secondo casualità e causalità: un Creato potenzialmente aperto e flessibile, in cui tutto l'agibile e possibile non assumessero mai due caratteristiche insolcabili: la NULLIFICAZIONE e la DEIFICAZIONE, cioè nessuna pur minima parte del Creato e il Creato stesso universale ritornasse nel Nulla, nessuna cosa o ente del Creato diventasse Dio.
Entro questi limiti, gli unici strutturalmente impossibili da varcare, tutto l'accadibile è accettabile agli occhi di Dio; tutto l'accaduto è giustificato; tutto il futuribile sarà sempre e soltanto entro l'ordine del possibile, quindi del giustificabile; ciò che non è ancora accaduto può accadere; ciò che è già accaduto non si ripeterà uguale: ETERNA LEGGE DELLA VARIANZA NELL'INVARIANZA. 

2 maggio
Il DIO VERO UNICO UNIVERSALE è il DIO IMMANIFESTO.
L'uomo, qualunque esistente nel cosmo, desidera vederLo e svelarLo, ma non riesce, non è mai riuscito, né mai lo potrà. Si vedono le cose che ha creato, ma non si vede Lui che le ha create.
E' stato così grande e superbo il desiderio, la bramosia di vederLo svelarLo scoprirLo, che l'uomo non ha resistito a compiere l'impossibile: ha ritenuto di averLo visto e ne è rimasto folgorato; l'uomo da quando ha ritenuto di aver visto Dio, di averGli parlato, di averne sentito la voce esprimere la Verità assoluta, si è opacizzato e appannato: da quel tempo è rimasto per sempre "confuso".
Credeva di avere ricevuto l'illuminazione definitiva con la Rivelazione diretta di Dio/da Dio, ed invece Ne ha solo ricostruito un'immagine deformata. seppure sublime ed eccelsa; ed alla fine un'immagine pure riduttiva: l'immagine di una divinità, non l'identità del Dio vero Unico. Ogni religione ricostruisce teorizza il proprio dio, mentre Dio Universale sta al di là.
Per ciò tutte le religioni che hanno preteso di avere sollevato il velo che nascondeva l'identità di Dio, invece di essere abbagliate da tanto splendore, sono rimaste intrappolate nella loro stessa concezione riduttiva. Quelle rivelate sono le religioni che più di ogni altra hanno subito questa "sconfitta": hanno opportunamente cercato Dio, legittimamente quasi trovato, ma esclusivizzandoLo con il loro apparato teorico dogmatico, Ne
hanno perso il senso universale: ne è risultata un'immagine sfocata, visibile soltanto con gli occhi della loro fede. Però il loro temerario tentativo non è stato del tutto infruttuoso: hanno ricavato almeno per i loro fedeli una più alta e sublime concezione della vita umana, adatta molto più di altre concezioni non religiose a condurre verso traguardi di armonia e felicità diversamente inarrivabili. La loro maggiore acquisizione di conoscenza ed esperienza in questo ostinato superbo intollerante tentativo di disvelare l'IMMANIFESTO, l'eterno ASSENTE-PRESENTE, sta proprio in quel corollario che comunque vi è collegato: una più raffinata funzionale proficua valenza etica. I religiosi, pur avendo preteso l'impossibile, profanando in qualche modo l'identità di Dio Vero, e dato che Dio Universale è comunque anche Dio di loro (l'Unico che tutto accetta e giustifica), non potevano non essere premiati in questa esistenza mortale con un livello di maggiore armonia serenità felicità sicurezza, derivanti proprio dalla loro più alta moralità convenzionale, quella stessa che deriva dalle loro specifiche virtù.
Proprio il loro sforzo di porsi su un più ampio orizzonte (credendo - erroneamente - che questo sia anche l'unico orizzonte di Dio), ha loro permesso di guardare il mondo, l'uomo, la sua esistenza individuale e sociale, con minore egoismo, minore interesse personale, maggiore rispetto: i religiosi genuini sono gli unici che possono amare con saggezza e giustizia e potenza, che, nel grado più eccellente, sono le prerogative di Dio. E' solo secondo questo canone riferibile alla potenza dell'amore giustizia sapienza che è possibile valutare la minore o maggiore eccellenza delle religioni, non dal loro apparato teorico dogmatico, non dalla istituzionalizzazione e formalizzazione delle loro ritualità e precetti, non dalle loro procedure cultuali e neppure da tutte quelle formalità che spesso rasentano la superstizione.
Poche filosofie, poche elaborazioni etiche hanno potuto raggiungere un elevato grado di fattibilità efficacia e funzionalità come l'etica sottostante alla teologia.
Le concezioni religiose che non hanno un'impostazione esclusivamente dogmatica, sovraccaricate di rigidità concettuali dottrinarie prescrittive, ed invece aperte alla libertà d'azione individuale critica e rispettosa delle concezioni altrui, sono verosimilmente quelle più vicine a ciò che potrebbe essere direttamente rivelato da Dio l'IMMANIFESTO, se Lui fosse realmente un Dio che si manifesta direttamente.
In questa situazione, le religioni pur non annunciando in nessun modo la Verità, quale rivelazione di Dio stesso, tramite uomini appositamente eletti chiamati, profeti, unti, …e figli…, sono state anche le uniche ad annunciare messaggi di "salvezza" (felicità - armonia) efficaci e proficue sia per singoli che per le collettività.
Ed è ancora per questo motivo, nonostante i grandi avanzamenti culturali filosofici, che esse rimangono riferimento eccezionale, garanzia educatrice doverosa ed efficiente. L'uomo areligioso non può dunque impunemente e facilmente pretendere di escludere la religione, trascurarne gli insegnamenti etici più rigorosi anche da un punto di vista razionale, prima di aver scoperto un'alternativa di pari maggiore livello.

3 maggio
Qual è la base comune di tutte le religioni? E' la catarsi, metamorfosi spirituale che si attua nel suo fedele fervente coerente. E' la possibilità di scoprire, riscoprire continuamente se stessi entro quell'orizzonte che, pur non essendo l'unico di Dio Universale (Lui è aperto a tutte le infinite possibilità di scelta), è comunque uno degli orizzonti efficaci a far acquisire la pace e serenità tra il vortice, talvolta tumultuoso, delle infinite possibilità di esistenza.
Qualunque divinità sia concepita dalla teologia di ogni religione, ma che sia davvero percepita come ultimo e più ampio orizzonte, e come se fosse veramente quello di Dio (la fede…), pone mirabilmente al fiducioso religioso fervente ricorrenti opportunità di cambiamento rinnovamento; la fede religiosa esclusiva di un proprio dio è comunque come una fiamma che, mentre brucia e distrugge, al contempo rigenera e ricostruisce.
Brucia e distrugge le sicurezze superflue leggere ed effimere; rigenera e ricostruisce altre nuove e più sicure certezze. Conduce ad una "eccedenza" di umanità, cioè ne riscopre risorse che diversamente mai sarebbero apparse vitali e vivificatrici. E nel vederle emergere, talora anche sorprendentemente, il fedele religioso (che si anima nella fede) non può che coerentemente infervorarsi ulteriormente e meravigliarsi; la fede è appunto questa continua meraviglia stupore di sentirsi percepirsi diversi, non tanto dagli altri, quanto da se stessi; il consistere in un diverso e più sicuro circolo amplificativo di speranze che si fanno certezza, proprio perché immaginificamente s'innestano e s'inverano nella stessa reale vita concreta.
C'è qualcosa di denigrabile in questo vissuto? No, certamente! Anzi, se fossero di più gli uomini gratificati da questa fede rigeneratrice, il mondo conterrebbe minori meschinità, perché la semplice normalità di vita umana oltre che appiattirsi nell'effimero continuamente, offusca le potenzialità nuove da riscoprire.
L'uomo areligioso anche quando si realizza, si sente realizzato, è comunque sempre un riproduttore di effimero, non ha mai la certezza la sensazione di vivere con stupore: banalmente consiste nella mediocrità, cercando continuamente di camuffarla come apparenza importante, non in considerazione del sé più avanzato esposto allo sguardo di Lui il più alto orizzonte, ma in considerazione degli altri.
L'uomo areligioso è sempre perdente, anche quando si sente realizzato, perché ha sempre bisogno di sentirsi considerato dagli altri suoi simili, che parimenti vivono nella banalità ed effimero. Non sentendosi sotto lo sguardo di Dio, sublime orizzonte imparziale, e non potendo sempre contare sul riconoscimento degli altri, mortifica la considerazione di se stesso, fino a percepirne l'inutilità: l'uomo areligioso è potenzialmente votato alla demotivazione alla sfiducia alla disperazione; l'uomo areligioso ha in sé il germe dell'autodistruzione progressiva o fisica o psichica o entrambe.
L'uomo religioso invece sente già in se stesso questo riconoscimento e se ne compiace traendone forza, perché sente di avere dalla sua parte l'armonia di Dio. E Lui che sopporta e tollera e giustifica anche le scelte banali ed effimere dei non religiosi, perché non dovrebbe accettare quelle sublimi, superiori?
IL modo usuale degli uomini di sentirsi vivi e vincenti è quello di vedersi esposti continuamente agli altri verso gli altri; ma essendo anche questi dello stesso livello e tipo di apparizione-esposizione effimera fugace, la loro reciproca considerazione è solo assorbente passeggera gelosa, cosa che tende a suddividere quel poco di importanza e valenza rassicurante, quindi a disperderla, non a moltiplicarla in una donazione reciproca: quella tende pertanto solo ad opacizzarsi diluirsi e scomparire, se oltretutto si rafforza la pretesa superba e prepotente.
Rimane, così, limitato l'orizzonte entro cui si rispecchiano i non religiosi; e non basta l'evidenza che anche molti di loro possono compiere grandi imprese, possano condurre una vita piena e generosa, perché nel solo paragone con gli altri anche molti di loro possono essere ritenuti importanti; invece dal raffronto di loro stessi con se stessi, muniti di senso religioso o privi, emergerebbe chiaramente la diversità di stile serenità valenza di vita.
La fede dell'uomo religioso fervente è sempre effluente ed effusiva; come una lente di ingrandimento, la fede religiosa aiuta ad ampliare al massimo la potenza vitale nell'amore saggio e giusto, mentre il riferimento alla vivacità e trasparenza dell'uomo areligioso è molto più simile ad un semplice specchio: è solo imitativa, pari pari è lui stesso limitato (come tutti) quanto è riflesso nello specchio; ci sono scarse possibilità di un effetto amplificativo, quale deriva dal sentirsi sotto l'orizzonte di Dio.
C'è qualcosa di condannabile in questo? No certamente! Dio tollera accetta giustifica tutto e tutti!
Ognuno si guadagna il proprio riconoscimento.

4 maggio 
La Storia di Dio Unico Universale è diversa e più ampia di quella narrata ed interpretata dagli uomini e, paradossalmente, quella degli uomini pii e religiosi, perché proprio le religioni hanno preteso ciascuna di presentare la loro divinità come Dio Vero; esclusivizzando il loro dio non potevano pervenire ad una identificazione più vicina alla vera immagine di Dio.
Ed ancora più paradossalmente si sono avvicinati di più proprio quelle filosofie che non soffrivano del condizionamento di fede delle religioni: i filosofi, i grandi filosofi, proprio perché scollegati da una pratica religiosa particolare esclusiva, e spesso intollerante, hanno potuto meglio di altri rendere l'idea di Dio più veritiera. Astraendo da una idea di Dio elettivo e salvifico dei propri devoti e non promettendo cose assurde come l'eternità e l'immortalità umana con la relativa pretesa di collocarsi perennemente al cospetto di Dio o per goderne la beatitudine o per soffrirne la dannazione eterne, molti filsofi si sono avvicinati ad una concezione di Dio più imparziale, quindi più veritiera, e spesso anche meno superstiziosa. La tendenza a questo ultimo pericolo, infatti, è presente proprio nelle religioni, anche rivelate, e pure dal largo seguito, che, rendendo certo ed esclusivo il proprio dio protettivo provvidente ed elettivo, fanno sentire i propri devoti in una specie di privilegio, in una sorta di sicurezza dovuta, nella errata consapevolezza che il proprio dio potente, più potente di qualsiasi altro, sia pronto in loro soccorso.
La storia di Dio non coincide con quelle narrate dagli uomini; quella narrata dagli uomini è propriamente una loro ipotesi, una loro ricostruzione, talvolta assurdamente ritenuta persino rivelata in esclusiva da Dio, una ricostruzione di fatti d'ambito specificamente umano in cui la ricollocazione di tanti accadimenti più o meno portentosi ed immaginifici sono stati fatti rientrare in una linea di continuità particolare…
L'ineffabilità di Dio Vero Immanifesto è tale che mai l'uomo potrà narrarne una storia vera, soprattutto se continuerà a rimanere abbracciato al dio che la sua religione gli propone come esclusivo.
La migliore aderenza tra storia umana e storia di Dio avverrà soltanto quando l'ineluttabilità e la coerenza di Dio condurrà costringerà, con la forza dell'evidenza dei fatti correnti nel mondo umano, l'uomo, gli uomini di tutte le religioni a perdere la propria sicurezza dogmatica, ad abbandonare la propria certezza di fede ipotetica, a non pretendere che la potenza di Dio sia soltanto a loro disposizione. Cioè, avverrà soltanto quando i religiosi affluiranno più tollerantemente verso una concezione di Dio meno privatistica e più universale.
In pratica, questo significa l'abbandono non tanto della religiosità, quale anelito arcano e razionale, ma della religiosità concretizzata nelle forme e pratiche stesse della propria religione, quel rivestimento formale teorico teorizzato tramandato istituzionalizzato, che pretende di contenere tutte le ragioni uniche possibili di avere scoperto il Dio Vero. 
Solo questa elementare fondamentale icastica rinuncia al privilegio esclusivo di essere stati scelti provvidenzialmente, attraverso la fede, da Dio potrà avvicinare le religioni tra loro, e i religiosi ai non religiosi. Di fronte all'immane superbia compiuta alle loro origini storiche e rafforzata nel seguito, dal proselitismo fino alle assurde pretese di convertire in ogni modo gli altri alla propria religione, sarà a loro necessario ergere un altrettanto coerente atto di umiltà e richiesta di perdono reciproco: 
"Dio esiste ed è Unico; abbandoniamo ciascuno quello che abbiamo costruito in esclusiva; ricostruiamo insieme la sua unica storia universale, perché Lui è Universale; rinunciamo a riconoscere nel nostro specifico dio-uomo-fondatore Dio stesso". Questa preliminare promessa sottoscritta da tutte le religioni è la sola che possa rimettere in corso un cammino verso Dio Vero Unico Universale. Tutti gli altri corollari dogmatici, specifici di ogni religione cadrebbero, cadrebbero uno ad uno conseguentemente. 
Si avvierà la vera storia di Dio.
E' possibile pretendere tanto?
E' difficile, ma doveroso! Altrimenti saranno gli stessi increduli, areligiosi a riequilibrare contrastare l'inopportuna pretesa religiosa di porsi come unico ambito di "salvezza", perché la vera salvezza non consiste nel "salvare l'anima" dalle pene della dannazione eterna, né nell'immortalità umana al cospetto beato di Dio oltre la morte, ma nella realizzazione della giustizia nel Creato universo.
I religiosi hanno costruito la loro saldezza dogmatica ritenendo unico garante della loro verità Dio stesso; hanno potuto ammantare di doverosa imprescindibile credibilità la loro teorizzazione teologica anche per la scarsa visibilità e diffusione e contradditorietà delle filosofie razionali.
Le religioni, soprattutto nei tempi pregressi quando la loro forza organizzativa istituzionale le rendeva quasi uniche protagoniste e garanti dell'etica morale individuale e collettiva, quindi pressoché l'unico riferimento autorevole-autoritario delle scelte umane, hanno potuto perentoriamente squalificare ogni tentativo razionale filosofico mirante ad orientare culturalmente le società umane, adducendo la motivazione pervasiva che tali filosofie razionali sganciate dalla teologia, dalla rivelazione, non potevano esprimersi sulle verità di Dio. Per secoli e secoli le religioni sono riuscite a contenere l'urto (doveroso e necessario) delle filosofie, deprecandone le idee, condannandole e ritenendole (spesso spregiativamente) solo "umane", non sublimi e divine come le loro.
In questa opera di deprecazione condanna squalificazione abiura delle concezioni razionali (umane quanto quelle teologiche) ed in quella collegata di relegazione in circoli chiusi ristretti, senza alcuna possibilità di penetrare nella cultura sociale e nei modi di vita normale degli individui, ha contribuito (e ciò va a merito delle religioni) l'estrema coerenza (dal loro punto di vista) nell'esibire innumerevoli esempi di virtù saggezza sapienza amore giustizia santità, derivanti proprio dalla loro fede religiosa. Nei filosofi sono scarsi gli esempi di queste "virtù", che sono peraltro state quasi l'unico metro per misurare la credibilità del pensiero umano.
Le persone normali inoltre sono più attratte e affascinate, quindi più convincibili, dai soggetti eccellenti per le virtù di tipo religioso che non filosofico-etico, e si sentono più rassicurate nell'adesione (magari solo formale e formalistica) ad un credo religioso che non filosofico: il primo ha il merito e la capacità di toccare e far vibrare l'intimo, l'interiorità, perché può promettere senza vergogna meraviglia impressione quegli assurdi doni eccellenti e sublimi come l'eternità ed immortalità dell'anima umana destinata o a beatitudine o a dannazione eterne, ed anche la protezione della loro divinità provvidente; al secondo rimane ben poco, dato che in genere le filosofie razionali si astengono dal promettere la "grazia" di Dio, e il loro dio o troppo trascendente (fino all'astrazione assoluta) o troppo immanente non conturba l'interiorità degli uomini normali, al massimo - si sente dire - può masturbare la mente. 
Parlando di verità divine, di grazia, immortalità eternità beatitudine dannazione santità vocazione voto donazione virtù … le religioni sono riuscite a trasformare il tutto(che era semplicemente umano, molto umano), tutta la varietà dei comportamenti e concezioni (tutte umane, molto umane) in divino, in sacro: il cosiddetto profano è rimasto fuori dalla consistenza e proprietà umana: non degno di appartenere alla storia di Dio. Così è stata omologata una concezione dualistica e dicotomica: sacro - profano, ma con la pretesa intollerante che il primo fosse di diritto il sublime, il secondo l'effimero.
Ma sacro e profano (entrambi molto umani, precipuamente entrambi solo umani) sono rimasti comunque entro l'unica storia di Dio, entro la stessa storia umana, entro il medesimo scorrere eterno del Creato nel cui orizzonte sta di perenne solo il mutamento.
Solo in questa nuova prospettiva comune di "precarietà" di fronte al Dio Universale, di consapevole certezza si sentirsi (tutto e tutti) tragicamente (ma poi armonicamente) "nudi" di fronte a Lui, quindi consapevolmente desiderosi di "salvezza" (armonia di vita) per la propria ed altrui felicità, solo così sarà possibile un comune ambito di verità regolatrice dell'esistenza viva vitale vivificatrice del Creato. 
Ma deve cadere l'intolleranza di chi pretende di avere in esclusiva la verità (di Dio).

Tutte le vie i percorsi e gli stimoli della conoscenza e vita umana rispetto al proprio mondo e rispetto all'Ineffabile Dio stanno ed emergono entro l'orizzonte temporale temporaneo individuale e, ciascuno, entro l'ambito eterno del Creato.
Dio non ha mai riservato alcuna occasione speciale privilegiata o esclusiva di tale conoscenza: sono stati gli uomini pii invece a credere e teorizzare che le proprie conoscenze rispetto alle verità divine fossero state rivelate direttamente da Dio in modo prodigioso esclusivo privilegiato.
Il risultato di queste credenze e conseguenti teorizzazioni, pur rasentando spesso il filo della superstizione e rischiando tutte le conseguenti intolleranze promananti dalla certezza, ha riversato nel mondo culturale umano una produttiva proficua e balsamica capacità di levigatura di tanta parte di concezioni grezze del pensiero. Queste ultime, varie anche del campo filosofico, non sarebbero mai forse pervenute ad ad un pensiero meno antropomorfico se non fossero state sollecitate da quelle più sublimi di origine religios rivelata.
Durante tanti secoli di reciproci scontri e accanite controversie tra: religioni di diversa origine e struttura concettuale; religioni di uguale origine e poi variata strutturazione; religioni rivelate e le altre; religioni e filosofie; componenti della stessa religione; e mentre gli uomini vivevano comunque, aggrappandosi opportunamente a qualche certezza soggettiva, la certezza oggettiva aleggiava sfuggente sopra tutto e tutti.
Stava sopra e aldilà di ogni concezione umana la vera consistenza identità di Dio; la sua riservatezza, il suo stare e consistere in disparte induceva gli uomini a tentare di scoprirLo, e quanto più Lui stava in silenzio (visibile interpretativamente solo nell'immensa infinita eterna Creazione), ETERNO ASSENTE-PRESENTE, tanto più lo sforzo umano diventava più urgente.
L'eminente merito delle grandi religioni, le rivelate monoteistiche in particolare, è proprio quello di aver frenato concezioni culture tradizioni dal sapore troppo antropomorfico: dei divinità numi ancora troppo concepiti ad immagine dell'uomo. Era giusto ribaltare la visione di fondo, pur col pericolo di un altro tipo di esagerazione: non più le divinità ad immagine umana, ma l'uomo ad immagine divina.
Questo ribaltamento conteneva una duplice spinta: sospingere la divinità il più aldilà possibile, nella trascendenza (e ciò era doveroso ormai); ma anche proiettare l'uomo (ideale - idealizzato) sempre più verso Dio (e ciò era indebito e temerario, come il tentativo di definire identificare Dio).
Ma in base a quale presunto diritto l'uomo poteva essere concepito ad immagine di Dio?
Perché una volta intravista la necessità di rendere Dio sempre più trascendente sublime, si è poi di pari passo tentato di divinizzare l'uomo?
Su che cosa poggiare questa nuova superbia? 
Questa infinita distanza non è stata colmata da Dio direttamente provvidenzialmente, né specificamente da Lui voluta ridotta; ma gradualmente dall'uomo attraverso l'affinamento del proprio pensiero, in varie fasi di maggiore credibilità delle sue concezioni: prima semplicemente collocando tra sé e Dio una miriade di essere celestiali spirituali, quasi una scala ininterrotta dal Cielo alla Terra; poi (pur in forme concrete diverse a seconda delle religioni) con la più superba e sacrilega (ma concettualmente più credibile e sublimemente fascinosa) teoria della trasposizione assunzione trasmutazione di persona: Dio-Uomo, Uomo-Dio…
In questo modo, raggiungibile ipotizzabile esclusivamente dalle religioni monoteistiche rivelate, non certamente dalle filosofie razionali o dalle altre religioni, si poneva l'ultimo anello mancante della lunga catena di tentativi di colmare l'infinita distanza tra l'uomo e Dio. Dio non è più l'Ineffabile l'Inaccessibile l'Insvelabile il sommo Trascendente: Dio è tra noi, come noi, vicino a noi… uno di noi.
Dio può essere sposo delle vergini, marito delle vedove, padre di tutti, fratello di chiunque; può avere lui stesso un padre e una madre (perfino umani); può essere visto toccato mangiato; può stare al nostro fianco, essere collocato in luoghi: stare dentro di noi, nelle nostre menti e nei nostri cuori.
L'emblema - dilemma di queste trasposizioni è GESU': con Lui il Cristianesimo ha compiuto il più sublime mirabile sacrilego misterioso e dilemmatico procedimento di trasformazione della realtà finita - infinita…
Di fronte a tanta temerarietà umana superba, dove l'impossibile diviene ipotizzabile e l'ipotizzabile divenire credibile, il credibile diventare certo…: non è assolutamente condannabile chi non l'accetta, anche se chi assume questa vertiginosa credenza può riuscire ad esprimere azioni pensieri comportamenti sublimi.

8 maggio
Un dono si riceve senza averlo richiesto e lo si usa come si vuole, senza l'obbligo di tenerlo ed usarlo in un modo obbligato.
Il dono non pone alcun vincolo d'uso ricattatorio: il beneficiato può decidere come utilizzarlo.
Anche il dono della vita segue la stessa procedura: una vita donata è una vita vivibile in un certo modo non obbligante, ma solo secondo un contorno di condizioni individuali ambientali culturali che s'intersecano tra loro causalmente e casualmente libero e responsabile, e in un intreccio misterioso (cioè non pienamente consapevole) da cui, altrettanto misteriosamente, scaturiscono gli stimoli razionali e istintivi ad agire. 
Chi vive la vita ricevuta in dono la vive come vuole e non deve rendere conto a nessuno dei donatori: Dio, i genitori… Nessuno è obbligato a scegliere un determinato modo di vivere; nessuno è obbligato a vivere, perché solo su di sé ed entro sé il vivente sente il riflesso della propria vita, quindi se valga la pena di viverla o non viverla.
Lo stesso contorno culturale, da quello religioso a quello civile etico morale legislativo pratico, può essere solamente un contorno di aiuto derivante dalla tendenza naturale alla sopravvivenza individuale e collettiva, ma mai un riferimento assoluto per poter condannare in nome di Dio chi la vita non la vive secondo le regole convenzionali umane o rifiuta la vita. Non esiste in realtà nessuna oggettiva condanna eterna di Dio oltre la morte per chi rifiuta o spreca il suo dono: Dio non aggiunge sofferenza e vergogna a chi non usa bene la vita o la interrompe. La decisione dell'individuo è totale e completa rispetto alla propria vita, totale e completa in senso relativo allo specifico individuale della persona collocata in vita in irripetibili circostanze di varie genere: egli ne risente in se stesso, proporzionalmente al proprio sentire non a quello degli altri, non al preteso volere di Dio dei religiosi, non alla coscienza individuale - collettiva astratta.
Non esiste alcun prolungamento di colpa e condanna oltre la vita temporale per il modo di condurre la propria esistenza; non esiste alcun Tribunale Supremo Celestiale Ultraterreno che bendica assolva condanni discolpi gli uomini per l'eternità.
Il frutto della propria esistenza ricevuta si mangia nell'arco temporale vivibile, vissuto.
Gli uomini hanno sentito il bisogno di prolungare oltre l'esistenza terrena le conseguenze eterne del vivere terreno, non Dio; per Lui è già tutto coerentemente e proporzionalmente presente nell'esistenza terrena di ognuno: la vita si sconta vivendo, sia quella del virtuoso che del non virtuoso. Vivendo la vita, nel modo proprio che non è univoco, non può essere uniforme, non deve essere uguale per tutti, (così è stato, così è, così sempre sarà - ogni vita è irripetibile) ogni individuo consuma entro se stesso il percorso del proprio destino senza sapere quale esso fosse o potesse essere: entro l'infinità dei possibili posti eternamente da Dio tutto ciò che avviene si ritrova ad essere perfettamente conforme a quanto doveva/poteva avvenire.
Come ogni dono non comporta la restituzione condizionata, così ogni nuova vita reca all'esistente la padronanza di viverla in assoluta/relativa libertà, svincolata da qualunque pretesa e presunta rendicontazione eterna d'origine religiosa o filosofica; e l'individuo non risponde a NESSUNO, a nessuno anche per il modo e il tempo di restituzione: ognuno va incontro alla morte giocando la propria vita, come può, come vuole, come deve.
E ciò che cosa significa? Che anche il suicidio è una scelta di vita: Dio non ne richiede conto e non ne fa giudizio; l'individuo, il soggetto suicida "restituisce" il dono (la vita), non sapendo più come contraccambiarlo: Dio accetta.

9 maggio
Ci sono più ragioni per credere all'esistenza di Dio che non il contrario. Il fatto che non sia evidente, perentoriamente evidente, la sua esistenza, non è assolutamente irrazionale ritenerLo esistente: da un punto di vista razionale possono essere addotti motivi convincenti da entrambi i fautori delle due diverse ipotesi.
Ciò che può essere invece davvero irrazionale è la pretesa umana di poter definire indicare identificare Dio con esattezza e sicurezza; del tutto immaginario immaginifico fantastico è ogni esclusivo e dogmatico presunto diritto di parlare in suo nome, annunciandone verità come se fossero assolutamente certe e vincolanti.
Entro questo ambito tutto è relativamente razionale e irrazionale a un tempo: DIO è l'eterno Assente/Presente; perciò tutto il rapportarsi umano a Dio rimane, come dai primordi dell'umanità, assolutamente e definitivamente ipotetico quanto ad oggettiva corrispondenza del pensare umano alla realtà divina, anche se ciò non squalifica assolutamente il contenuto emergente dagli individui di entrambe le ipotesi: le cosiddette virtù dei credenti come i cosiddetti valori dei non credenti agli occhi di Dio non possono che avere la medesima considerazione, proprio perché Lui stesso ha accettato di porsi come ipotetico. 
Ogni vita umana e collettiva è stata costruita sempre, nel bene e nel male umani, e sempre lo sarà, su ipotesi.
In base ad ipotesi nessuno, proprio nessuno, può essere ritenuto in esclusiva "salvato" o "perduto" rispetto all'eternità di un premio o di una pena, ma soltanto più o meno felice rispetto all'esistenza terrena, in conformità alla credenza ipotetica che si riveli anche in concreto più funzionale alla felicità umana stessa. 
Il fatto che sia (più) razionale ritenere Dio esistente non autorizza nessuno a pretendere oltre misura rispettosa e tollerante che lo sia davvero; ma, di più, il fatto che sia invece sommamente solo ipotizzabile come Lui sia definito e definibile, rivelabile e rivelato, identificabile quindi con un contorno di verità assolute manifestate da Lui Stesso, pone tutti con assoluta uguaglianza fuori dalla certezza di poterLo raggiungere per l'eternità nell'immortalità. La pura congettura distintiva tra sacro e profano ha valore solo relativamente agli uomini, non a Dio: ciò che si riferisce alla vita umana è puramente e semplicemente umano, solo umano, molto umano, parte infinitesimale del Creato eterno di Dio.
Sia che l'uomo nel condurre la propria esistenza si ispiri ad una eventuale ipotetica verità divina, sia nel caso contrario, sempre e comunque la sua vita è prettamente umana.
La distinzione tra divino e umano, tra sacro e profano, tra sublime ed effimero, riferite alla effettualità concretezza dei comportamenti umani, non hanno alcuna consistenza reale agli occhi di Dio, ma solamente un valore convenzionale tra gli uomini, anche se questo stesso può entrare a far parte del contorno culturale complessivo a cui tutti i soggetti sono in qualche modo chiamati a riferirsi.
Non ha alcuna consistenza reale soprattutto se tale distinzione, per esempio, vuole intendre significare che davvero alcune azioni certi comportamenti sono sacri perché ispirati da Dio, altri no perché non ispirati da Lui. Oppure che sia sacra solamente la partecipazione ad una ritualità religiosa, e profana invece quella ad una celebrazione non religiosa; oppure sacro il comportamento di un religioso, e profano quello di un areligioso; sacro l'eroismo di un uomo devoto e pio, e profano quello contrario. 
Non vi sarebbe certamente alcuna valenza di inopportunità e scorrettezza se queste distinzioni fossero, consapevolmente, solo di uso convenzionale linguistico/razionale/pratico; ma il fatto è che tali distinzioni sottintendono ormai un giudizio di valore divino: il sacro come sublime, il profano come effimero.
Tutto quanto proviene dagli uomini è contemporaneamente sublime ed effimero.
Per questo anche il santo non è l'eccellenza del sacro; quindi nemmeno del divino: è semplicemente una diversificazione dell'umano, una sua espressione particolare in cui si pone in mostra la grandezza umana quando l'individuo è coerente generoso eroico: è uno dei modi possibili, e come uno degli infiniti modi possibili agli occhi di Dio non ha particolare rilevanza, non ha una elezione specifica.
Tutto è sublime, tutto è effimero allo sguardo di Dio, perché comunque ai suoi occhi tutto è vita.
L'unica eventuale distinzione possibile, se proprio risultasse necessario, può essere quella tra divino e umano, intendendo però come divino ciò che presumibilmente Gli appartiene in esclusiva, ciò che Gli compete; però non è divino (sacro) ciò che appartiene all'uomo, compie l'uomo e parte dall'uomo.
L'unità di misura per valutare la rilevanza umana dei soggetti, la loro eccellenza e validità, se proprio ce ne fosse bisogno, potrebbe essere soltanto quella più coerente dell'etica umana convenzionale, quella cioè del rispetto e aderenza alle leggi che la società umana elabora ed istituisce per il bene individuale e collettivo insieme.

10 maggio
La "salvezza" è originale e originaria: tutti gli uomini, tutto il Creato, sono "salvi" dall'eternità. La salvezza non sta in mezzo alla storia, a storia iniziata; non è un'attesa di salvezza come ulteriore intervento divino oltre quello originale ed originario della creazione: la salvezza di tutto e di tutti nasce con la creazione stessa.
E' assurda la sequenza d'immaginazione religiosa: prima la creazione, poi la "caduta", poi l'attesa della salvezza, quindi la salvezza a certe condizioni religiose.
Non esiste alcun "peccato originale" commesso dai progenitori del genere umano ed inteso come gravame duraturo sul genere umano (empia e sacrilega è questa concezione, perché pone in origine lo stesso fallimento di Dio nella sua opera creativa).
Entro l'orizzonte eterno del Creato, l'ordine temporale umano è strutturalmente costitutivo e costituito originalmente e originariamente di vita vitalità alla ricerca sì di un "riscatto", ma questo consiste nella ricerca insopprimibile della felicità ed armonia, secondo le circostanze in cui viene a trovarsi, secondo quanto ha a disposizione nella propria specifica situazione individuale e sociale.
Ciò combacia perfettamente con l'istintivo naturale bisogno e tendenza alla propria sopravvivenza e alla propria visibilità esposizione nell'infinito teatro mutevole ed eterno del Creato.
Il desiderio costitutivamente inalienabile di ogni cosa ed ente del creato ad emergere e sentirsi vivi è concomitante allo stesso anelito indelebile di vivere liberamente, così come liberamente ogni individuo è "situato" nell'ordine temporale suo specifico.
Qualunque vivente nell'arco temporale e temporaneo della propria esistenza compie questo cammino "originario" (a partire dalla propria nascita) ed "originale" (a partire dalla propria individualità situazionata e collocata), verso lo sviluppo espressione della propria identità riscatto salvezza: questo vivere per la propria identità riscatto salvezza per ciascun vivente è già la sua salvezza e ciascun vivente in ciò stesso la esaurisce, a prescindere dal grado di felicità e armonia raggiunte.
La vera salvezza dell'uomo (riuscita o meno rispetto alla propria felicità terrena) sta tutta e completamente nella sua specifica scelta di vita, più o meno condizionata e confinata in relazione a quella degli altri, entro la sua specifica nicchia dell'infinito Creato: l'unica reale salvezza, pertanto, è l'uso stesso della propria libertà (relativa) contornata dalla conseguente responsabilità (relativa) ed esiti collegati.
La salvezza-felicità dell'uomo, che si esercita e situa nell'arco temporale terreno e senza alcun merito/demerito proiettato nel futuro extratemporale individuale, inesistente, sta tutta nell'attuazione unica irripetibile specifica ed esclusiva della propria libertà di vivere dopo essere stato chiamato a vivere.
Che poi in questo originale originario, individualmente specifico, impiego della propria libertà l'individuo raggiunga in pieno o in parte o minimamente la felicità/armonia (salvezza) questo non conta alcunchè rispetto al religioso presunto destino ultraterreno immortale eterno; è assolutamente ininfluente.
E' ben assurdo concepire e sarebbe ben assurdo, infatti, che debba esistere una condanna eterna, senza più la possibilità di rivalsa, di riscatto da parte dell'individuo infelice per la sua malvagità; come altrettanto assurdo possa esistere una premiazione eterna dell'uomo già felice in terra a causa della sua virtù.
Se un soggetto si è salvato nella vita terrena (ha trovato felicità ed armonia), perché dovrebbe essere ulteriormente premiato e gratificato addirittura per l'eternità?
Se un individuo non si è salvato (non ha raggiunto la felicità/armonia), perché dovrebbe essere ancor più penalizzato con il castigo eterno?
E' veramente malefica la concezione del premio e castigo eterno!
Ben più coerente legittima e giusta è la semplice giustizia umana terrena areligiosa.

11 maggio
Tutta l'impalcatura dogmatica spesso intollerante su cui si sono rette le religioni, soprattutto rivelate, consiste proprio in questo superbo blasfemo indebito principio/inizio: Dio stesso a noi ha rivelato la Verità, quella vera universale indefettibile.
Tutte le conseguenti derivazioni a corollario e contorno, presunte vere (ma invece semplicemente di fede di fiducia fideistiche possibili…), confluite nell'immenso apparato teologico/ideologico di tali religioni, e raffinatosi durante secoli di storia, sono coerenti proporzionali e funzionali a tale principio indebito.
Se fosse razionale e dimostrabile tale principio (della diretta rivelazione della Verità agli uomini - alcuni eletti - da parte di Dio stesso), decadrebbe miserevolmente e tragicamente la cosa più importante: l'Amore onnipotente onnisciente e giusto di Dio Creatore; non sarebbe bello ciò che ha fatto!?
E' evidente la pura "apparenza" ipoteticità di tale principio della verità rivelata da Dio: concezione immaginaria oltre che irrazionale e contraddittoria.
Sulla base poi di questo aprioristico principio, le religioni rivelate hanno aggiunto una ulteriore dose d'intollerante superbia, quando hanno tentato di smentire, senza averne l'adatta conoscenza, le realtà fenomeniche e le teorie scientifiche.
Dando per scontato e incontrovertibile il loro assunto fideistico di base, ed in forza di (altrettante) profezie autoavverantesi e autoindotte, i religiosi teologi non hanno più avuto alcun dubbio di derivare astrattamente e aprioristicamente anche teorie fenomeniche e scientifiche. Un'intrusione così banalmente perentoria sicura indebita da strabiliare; ma nei secoli successivi la stessa scienza ha provveduto a smascherare e sconfessare tale superba dogmatica intrusione.
I tanti risvolti di questa dolorosa intrusione, per quanto riguarda il cristianesimo, sono scritti nella storia, con tutti i relativi corollari intolleranti, compresi quelli penosi di tipo inquisitorio.

16 maggio
La millenaria mania del cristianesimo e di altre religioni di volere dovere salvare redimere l'anima degli uomini l'ha condotto spesso a stravolgere la stessa storia umana, pervenendo gradualmente all'opposto (di contrapposto ma coerente segno) di torturare e uccidere quelli che questo tipo di salvezza non volevano non potevano accettare liberamente.
Questo sbocco autorevole autoritario intollerante repressivo, sintomaticamente contrario all'insegnamento essenziale del loro fondatore (Gesù), non poteva non avvenire, perché chi nutre per secoli l'esaltazione e certezza di stare nella verità, non riesce a sopportare le idee degli altri.
Dopo essere cresciuti per decenni (dopo la morte di Cristo) nell'esaltazione incontenibile che il Risorto, asceso alla destra del Padre, avrebbe in poco tempo riportato l'umanità alla "conclusione dei secoli" , caratterizzata dalla condanna definitiva eterna dei reprobi e la beatificazione sempiterna degli eletti, la profonda delusione che tutto comunque continuava come prima ha costretto i cristiani o ad affrettare la propria morte col martirio (la via più dritta e veloce verso il Cielo) o a ricostruire con ostinazione e ostentazione il mondo terreno profano. 
Una volta ben consolidato il cristianesimo, i suoi devoti non hanno più avuto bisogno di tanto martirio proprio, ma hanno potuto procurarlo agli altri, reprobi infedeli.
La teocrazia al potere produce scelleratezze uguali alla tirannia civile politica: entrambe figlie dell'intolleranza, non riescono ad accettare l'idea di una pluralità di concezioni e comportamenti.
Le infamie e malvagità, giustificate dal traguardo redentivo salvifico, perpetrate dal cristianesimo fino a pochi secoli fa, macchia indelebile ed imperdonabile agli occhi del loro stesso fondatore che annunciava l'amore la pace la fratellanza il perdono, non avrebbero sollevato dure reazioni sia all'interno della Chiesa che fuori di essa, se non fosse che proprio il cristianesimo si basa specificamente su concezioni sublimi di Gesù, il più sapiente uomo che sia esistito sulla Terra.
Quanto Gesù non era intollerante, tanto la Chiesa gradualmente lo diventava; quanto Gesù inviava messaggi di comprensione amore misericordia perdono, tanto la struttura dogmatica teologico/ecclesiastica pervadeva il mondo sociale civile con anatemi condanne scomuniche sanzioni e precetti sempre più insopportabili.
All'interno della Chiesa i cristiani si sono divisi in due schiere: quelli fedeli al vero unico grande sublime messaggio rivoluzionario di amore (compresa una parte dei santi) e quelli che credevano unicamente ossessivamente alla salvezza dell'anima derivante dalla fede e alla irrimediabile corruzione rovina del mondo profano. Mentre la prima schiera costruiva veramente secondo lo spirito genuino delle origini, l'altra lo demoliva e si proiettava inesorabilmente verso la costituzione di una teocrazia devastante.
Il messaggio di Gesù che, dal punto di vista cristiano stesso, doveva essere "dono" "grazia" è stato trasformato dalla schiera degli intolleranti religiosi (compreso un buon numero di papi e santi) in condanna, e non solo spirituale ma anche e persino corporale.
Ma come è stato possibile che la Chiesa, sempre sicura, troppo sicura, di essere "vivificata" dallo Spirito Santo (Dio) sia caduta così in basso?
Ma come è stato possibile che la Chiesa sempre sicura, troppo sicura, di avere l'"Infallibilità", abbia nutrito nel suo seno una fallibilità così sconcertante?
E' stato possibile perché anche il cristianesimo, come religione istituzionalizzata e come concezione di pensiero ed immaginazione, non sfugge, non può sfuggire alla condizione perenne in cui è posto il Creato: luogo universale totale eterno degli infiniti possibili e questi, rispetto all'ambito umano, sono anche le infinite relative libertà individuali e collettive, umane, solo umane, molto umane.
Entro l'eterno orizzonte di Dio, l'infinito possibile ipotizzabile rimane sublimemente anche l'infinito possibile usabile fruibile, istantaneamente e completamente salvo da ogni presunto sbocco verso l'individuale immortale eterno. Il permanere dell'eterno mutamento è la stessa strutturale condizione dell'infinita varietà temporale temporanea, dell'infinita sequenza di comparse/scomparse, quindi di tutte le incalcolabili casualità/causalità interagenti, volontariamente e involontariamente; il permanere dell'eterno mutamento è la stessa condizione divina , originale e originaria, posta al Creato, affinchè nessuna cosa o ente che entro vi appare/scompare possa permanere o annullarsi. 

17 maggio
L'assurda pretesa umana di fissare una volta per sempre la verità divina assoluta è altrettanto controvertibile di quella della scienza di fissare definitivamente le teorie concezioni scientifiche. Opportunamente però alcune religioni ed il mondo scientifico da qualche tempo hanno assunto un atteggiamento diverso, più critico, meno rigido e più aperto e flessibile; tutto ciò anche per una maggiore consapevolezza che la terra dell'uomo non è l'ambito esclusivo e privilegiato da cui tentare di padroneggiare l'armonia complessiva del Creato, non è lo specifico orizzonte il cui sguardo ricercatore e rivelatore possa pretendere di cogliere le infinite interrelazioni e connessioni statiche e dinamiche.
La dissoluzione della pretesa di assurgere ad una verità oggettiva universale, possibile solo a Dio e da Lui opportunamente non trasferibile a nessun ente del creato stesso, non include necessariamente anche la distruzione della speranza di poter assumere convenientemente una verità soggettiva coerente funzionale alla realizzazione espressione di un stile di vita soggettivo/collettivo, creativo e gratificante.
Tutto e tutti stanno essenzialmente dentro lo stesso limitato orizzonte incerto/certo, proprio perché illimitate sono le possibilità di casuali/causali combinazioni nel Creato flessibile/duro voluto da Dio.
Ogni individuo ha ragione di trarre sicurezza soggettiva da ciò che ipoteticamente sia oggettivo, quindi di stare "probabilmente oggettivamente" dentro la verità, pur standovi oggettivamente solo in modo soggettivo, perché fra molte e diversificate verità/concezioni una potrebbe essere la migliore oggettivamente, pur non individualmente riconoscibile accettabile.
Solo la filosofia razionale disincantata e disinteressata può diventare lo strumento più appropriato a rilevare valutare la maggiore probabilità di oggettività delle varie concezioni; però la sua efficacia e funzionalità comportano non una separazione di essa dal mondo sociale civile, quasi una casta fascinosa ma inerte, ma una penetrazione culturale nell'ambito esperienziale collettivo, e comportano, ancor più, che i filosofi diffidino coerentemente di tutte le interpretazioni teorizzazioni etiche di tipo religioso, pur sublimi ed affascinanti, che collegano indissolubilmente inderogabilmente le proprie concezioni alla certezza sia di possedere la Verità in quanto rivelata a loro da Dio, sia di giudicare le libere espressioni esistenziali e comportamenti individuali secondi i canoni di immortalità eternità, e destino alla beatitudine/dannazione perenni, di apocalittica memoria nefanda e sacrilega.

20 maggio
E' spaventosa ma potenzialmente razionale e credibile l'idea che a Dio non importi il bene e il male degli uomini; certamente più ipotizzabile e veridica per quanto riguarda il vincolo indissolubile che i religiosi hanno posto quanto a demerito/merito per la dannazione/beatitudine eterne.
In questo caso il progresso della ricerca conoscitiva umana si rivelerebbe come la pretesa di porre definitivamente "ordine" a qualcosa che potrebbe anche rimanere "disordinato", e comunque accetto a Dio.
Sicuramente il cosiddetto ordine/salvezza cui mirano gli uomini, religiosi e pii, e in un tempo come il nostro in cui non vi è più ragione e motivo di pensare ritenere la religione come unica esclusiva fonte di verità, non è lo stesso di Dio, perché quello degli uomini, almeno fino ad ora, è conforme solo al loro punto di vista, mentre quello di Dio è onnicomprensivo universale, ed in questa universalità non è assolutamente escludibile la presenza di altri esistenti fuori dal nostro pianeta.
In questa prospettiva la storia dell'umanità non sarebbe la contrastante dicotomia tra bene e male come equivalenza di contrasto tra virtù e vizio, tra bontà e malvagità e nemmeno un empio rifiuto della bontà divina, ma semplicemente e dinamicamente la storia della costruzione di una costrizione convenzionale umana, al fine di una pacificazione e ordinamento di tutte le istintualità naturali/razionali; pacificazione e ordinamento legati ad un sentire più armonico felice e pacifico.
Più semplicemente che cosa significa ciò?

1° Qualunque azione compia l'uomo è "neutra" agli occhi di Dio, avendo Lui stesso avviato il Creato ripieno di infinite possibilità, attuabili esplosibili. 

2° Tutta l'universalità dei possibili, prevedibili e imprevedibili, armonici o contrastivi, è tutta parimenti accettabile e comprensibile per Dio.

3° Ciò che è ritenuto dagli uomini come disordine/male/corruzione, allo sguardo di Dio risulta semplicemente una diversità, una componente dinamica dell'eterno flusso di vita, in cui inesorabilmente e continuamente ciò che appare scompare.

4° Non è a Dio che interessa un certo ordine umano, ma è degli uomini questa preoccupazione.

5° L'ordine etico-morale costruito dagli uomini non è conseguente dal dettame divino inviolabile, ma semplicemente una convenienza esigenza umana: segno della sua stessa finitudine strutturale.

6° La paura stessa dell'uomo rispetto alla potenziale irrefrenabile propria istintività/libertà lo spinge in qualche modo a porre a se stesso un freno controllo; la virtù il bene la bontà sarebbero la paura della propria libertà/istintività. 

7° Fin dai primordi umani ciò che ha spinto gli individui a "frenare controllare" reciprocamente la incolpevole naturale tendenza a confrontarsi duramente con gli altri, a sopravvivere emergere sovrastare, non è stata la presenza di una norma vincolante per dettame divino rivelato, ma paradigmaticamente il (giusto) timore di perdere, cioè la possibilità della sconfitta: da qui la tendenza umana a pattuire patteggiare ordinare regolare. Il bisogno di stabilire dei patti tra individui è emerso quando si è reso evidente che per tutti era possibile la sconfitta, la morte. Quei primi patti sono la base elementare umana della morale, dell'etica.

8° La stessa diversa storia evolutiva (relativamente libera), degli uomini da una parte e degli animali dall'altra, deriva dal modo diverso con cui gli uni e gli altri hanno progressivamente deciso il modo di controllarsi reciprocamente. Gli uomini in generale sono orgogliosi della propria storia, ma nessuno può affermare con sicurezza che gli animali non lo siano per la loro, pur essendo diverso il modo in cui è stata "scritta". Noi siamo propensi a ritenere segno di progresso intelligente razionale proprio il fatto che ce la poniamo in mostra reciproca attraverso gli eccellenti canali della comunicazione orale/scritta; dal canto loro gli animali sono riusciti a rispettare la propria storia anche senza l'eccellenza di tali modalità: in quale altro modo eccellente hanno potuto farlo senza esibirla?
Non è così irrazionale ed improbabile, quindi, che agli occhi di Dio la diversa storia evolutiva, nostra e degli animali, non comporti alcuna differenza di pregio, nessun privilegio, nessuna esclusività né elezione. 
Non solo il modo di conservare tramandare la storia della propria specie è diverso, ma anche la maniera di rispettarla. Noi umani andiamo orgogliosi, salvo continuamente piangere miseramente vedendo come la nostra storia sia piena di orrori, del fatto di averla costruita con l'uso dell'intelligenza, della razionalità, della libertà, e chiamando progresso questo processo continuo di revisione correzione integrazione, riteniamo superbamente di stare ad un livello superiore; vincolando inoltre questa distintività ad una precisa sicura scelta di Dio, abbiamo potuto immaginare che la salvezza/redenzione divina fosse speciale privilegio nostro, e questo stesso privilegio l'abbiamo spinto all'eccesso, fino a renderci (noi soli) immortali eterni.

Che sia evidente la diversità di storia/esistenza umana e animale è innegabile; quale sia delle due quella migliore (se così si può dire) non lo è. Ma ancora più innegabile è l'impotenza l'impossibilità che sia l'uomo a porsi giudice di questa valutazione; dal suo piccolo orizzonte limitato, pur così enfaticamente reso esclusivo e privilegiato per la sua superiorità presunta, non sarà certamente lui a decidere il destino del Creato, entro cui bellamente e sublimemente stanno anche gli animali.

9° Questo nuovo ambito concettuale appena descritto comporta conseguentemente una diversa assunzione di prospettiva futura, perchè il Creato non volge verso una definitiva soluzione/dissoluzione, oltre la quale poi si svolga una nuova eterna situazione extra al cospetto di Dio Giudice, esecutore finale delle sue sentenze (di condanna e premiazione); ma il Creato continuerà in eterno (con o senza il pianeta Terra) ad "assorbire" ogni temporalità ogni finitudine in un vitale creativo interminabile vortice/flusso di perenne mutamento.

10° Ogni vivente pertanto dovrà porsi nella nuova prospettiva dell'"eterno mutamento", affinchè non debba illudersi circa il proprio ed altrui destino, e ciò comporta ulteriormente di non credersi privilegiato eletto protetto da Dio in modo esclusivo; ed ancora ciò implica la consapevolezza della duplice illusorietà:

- che l'essere buono pio santo virtuoso autorizzi Dio a riservarci un prolungamento infinito di felicità/armonia anche oltre la morte, in aggiunta a quella già godibile e goduta in vita;

- che l'essere cattivo empio profano vizioso autorizzi Dio a riservarci un prolungamento infinito di infelicità/disarmonia oltre la morte, in sostituzione di quella soffribile in vita.

La storia dell'umanità non è una storia esclusiva separata da quella universale del Creato, ma un'unica storia SACRO-PROFANA, EFFIMERA-SUBLIME universale.

25 maggio
Fino ad ora sono coincise due opposte ed integrate umane concezioni integrate:
- l'una che esalta di più e privilegia la direzione dall'Alto al Basso (sa Dio all'uomo);
- l'altra il procedimento inverso: dal Basso verso l'Alto (dall'uomo a Dio).

La prima basa la sua efficacia non tanto su che cosa Dio abbia "fatto", ma su quanto Dio "ha detto" (sulla parola di Verità); la seconda invece di più sul che cosa ha fatto. 
La prima privilegia la certezza/verità da seguire; la seconda la possibilità di tentare: sono la Destra e Sinistra Universali, sono le due primarie primigenie primordiali primitive tendenze dell'uomo.
L'esclusività dell'una e dell'altra rispecchiano la dualità/ambivalenza paradigmatica del genere umano.
La forza dell'una e dell'altra rispecchiano altrettante esigenze/opportunità: certezza e libertà, perché non vi è certezza senza libertà; non vi è libertà senza certezza.


Perché Dio non ha predisposto dall'eternità una perfetta armonia, senza contrasti?
Si è forse annoiato di essere Lui la perfetta Armonia? Oppure ciò che esiste è proprio esso stesso armonia nel contrasto? O Dio stesso non è perfetta armonia?
E se fosse armonia la disarmonia del Creato?
Può essere che siano disarmonici sia Creatore che Creato? In questo caso sia Dio sia il Creato sarebbero sulla linea di tendenza verso l'armonia!
Ma ognuno per la propria strada o integrate tra loro?
E l'uomo, parte del Creato, verso quale armonia deve tendere? Quella di Dio, quella del Creato, contemporaneamente verso l'Uno e verso l'altro?
Sarà Dio perfetta armonia solo quando lo sarà anche il Creato? Ma, in questo caso, quale armonia dovrebbe essere del Creato per inverare quella di Dio? E quale dovrebbe essere quella dell'uomo per inserirsi in quella del Creato? Può l'uomo essere armonico in alternativa a quella del creato?

26 maggio
Al di là di tutte le verità religiose filosofiche culturali di ogni genere tempo e luogo permane ineludibile ineluttabile l'assoluta indifferenza delle azioni umane, degli eventi creativi creaturali allo sguardo di Dio, perché tutto il creato universo, essendo nato dalle mani di Dio perfettamente stabile nell'eterno mutamento, non ha alcun bisogno di essere vigilato regolato corretto salvato redento ulteriormente, di volta in volta..
La migliore onnipotenza di Dio si evidenzia proprio nell'istantaneità (eterna per Lui) del creare vedere ammirare l'opera sua perfetta, tanto perfetta che la stessa perfettibilità (trasformazione - mutamento - visibilità - esposizione …), a cui mirano inderogabilmente tutte le cose che vi fanno parte, sta perennemente come anelito insopprimibile alla vita, e tale rimane, perché ciò che appare morte diventa vita diversa.
L'universo Creato è l'immenso crogiolo perenne in cui si consuma e si rigenera ogni vitalità, ed ogni vitalità allo sguardo di Dio ha validità: ogni cosa del Creato, sezionata visitata analizzata suddivisa distinta dall'uomo (ed ulteriormente sezionabile visitabile analizzabile suddivisibile distinguibile) secondo il suo punto di vista limitato, non è la stessa cosa come appare o potrà apparire a qualunque altro essere dotato di un diverso punto di vista, di una diversa capacità. 
E quella di Dio è la sua esclusiva.
L'uomo ha vissuto per millenni maturando una progressiva (individuale/collettiva) inconsapevole illusione che la realtà sia visibile solamente nel suo modo; ritenendosi l'unico esclusivo eletto deputato (da se stesso o da Dio) a guardare il Creato, non si è accorto di essere la millesimale parte di esso, una piccolissima parte di esso, e ha costruito il suo dio a propria immagine, immaginando persino, e ritenendosene sicuro, che Dio stesso "veda" il Creato come lui lo vede: cose animate inanimate intelligenti sensitive; pesanti leggere, grandi piccole… e con tutta una variazione varietà proprietà di tipi caratterizzazioni caratteristiche distinte per livello grado di importanza; e continua a ingrandire rimpicciolire controllare verificare analizzare ricercare…; e continua a nominare fissare archiviare catalogare…
Ma, soprattutto continua ad illudersi:
che gli appartenga in esclusiva di essere immortale ed eterno come Dio:
che la moralità/eticità del mondo ricalchi esattamente la propria, perché solo la propria sarebbe di derivazione divina.
Invece, azioni pensieri effetti affetti desideri aspirazioni umani stanno soltanto ed unicamente entro l'orizzonte del Creato, senza alcuna invasiva pervasiva proiezione ulteriore ad altro orizzonte ultracreato, sovrannaturale, perché è già il Creato eterna vitalità operante nel cambiamento.
Questo che cosa significa?
Significa che:

- solo Dio è ETERNO IMMORTALE;

- la moralità/eticità di Dio non è quella dell'uomo:

- l'immortalità/eternità dell'uomo, intesa nel tradizionale modo delle religioni rivelate, è solamente un'aspirazione proficua educativa, atta soltanto a favorire una elevazione verso il sublime terreno, ma questo sublime terreno nella sua temporaneità cosciente rimane solo temporale, e nella sua incosciente modalità rimane in eterno come eterno è lo stesso Creato; indebita pretesa è invece qualunque altra certezza che la temporaneità cosciente individuale permanga eterna anche dopo la morte;

- l'aspirazione di cui sopra è solamente una condizione contingente per rendere la vita contingente una potenzialità viva unicamente entro lo stesso orizzonte temporale di ogni esistente in vita;

- la somma di tutte le azioni umane nefande e sublimi è uguale a zero allo sguardo di Dio: ciò che è vizioso e virtuoso agli occhi degli uomini non è considerato tale da Dio, per il quale tutto è solamente ed unicamente vita possibile, vitalità effimera e sublime insieme;

- la stessa somma di tutte le azioni possibili (sacre o profane - sante o empie) di tutti gli esistenti passati presenti futuri sono solo funzionali alla estemporanea contingente variazione dinamica della storia umana entro il limitato suo mondo circostante, anche se questo suo mondo circostante in continuo ampliamento dà all'umanità la sensazione di progresso inarrestabile:

- ciascun essere che sopravviene all'esistenza (in qualunque situazione ambientale culturale storica geografica…) è sì condizionato in vario modo a vivere partendo da essa, ma anche possibilitato a superarla o variarla temporaneamente, mentre invariabilmente essa continuerà perennemente a mutare vitalmente;

- nessun esistente ha un destino prefissato preconosciuto, tale che debba per forza solamente in quel modo svilupparsi: ogni pur minima vitalità casualmente e causalmente è potenzialmente aperta ad ogni evenienza possibile fra le infinite possibili contingenti: la sua temporaneità stessa, cioè la sua ininfluenza ontologica rispetto all'eterno complessivo esistere del Creato tutto, origina dalla stessa garanzia divina che nulla fra gli infiniti possibili possa prevaricare la sua specifica soglia temporale;

- nessuna fede religiosa filosofica culturale salva o danna l'esistente contingente per l'eternità, può soltanto variarne la possibilità di scelta, ma essendo tutte le scelte di vita contingenti contornate confinate nel possibile, non rimane alcun rischio agli occhi di Dio che qualcuna di esse sia privilegiata ed altre no;

- nessuna divinità ha vincolato con una legge universale eterna la vita degli esistenti di ogni tempo e luogo del Creato secondo una specifica ed omologa direzione, ma Dio ha permesso mirabilmente che fosse possibile tutto il possibile, rendendo impossibile solamente la sua detronizzazione: essendo impossibile la sua destituzione, tutto l'universo Creato rimane immune dall'annientamento e nullificazione, permanendo unicamente come Luogo senza tempo e senza spazio in cui si consumano sublimemente tutte le cose effimere, siano esse virtuose o viziose, sante o empie, sacre o profane (secondo il linguaggio degli uomini che non è quello di Dio);

- la riduzione del Creato alla visibilità solo umana, cioè alla sola pretesa degli uomini di coglierlo come traguardo della propria possessività conoscibilità usufruibilità e dominanza, insomma come unica questione irreversibile da giocarsi tra gli umani e Dio, è la più blasfema sacrilega empia pretesa di ridurre l'infinito alla miserevole condizione mortale di ogni uomo, di ridurre l'Infinito al meschino ruolo di finito: per assurdo ma per vero, in fondo, gli unici veri empi sono proprio i religiosi che hanno ridotto Dio ad immagine e somiglianza umana, ritenendo gli umani gli unici privilegiati eletti da Dio, mentre Dio ama in egual modo tutto l'Universo/Creato, ogni sua vitalità perdurante nel cambiamento;

- tutto ciò che succede, avviene contemporaneamente in due diversi modi: in quello perfettamente temporale naturale per quanto riguarda gli individui partecipanti all'evento limitato, in quello precipuamente atemporale universale per quanto riguarda l'Universo/Creato eterno; cioè, in altre parole, la storia effimera/sublime di ogni ente e cosa mortale del Creato si iscrive nella storia eterna del Creato stesso: in questo modo, ciò che è eterno è solo il perenne mutamento del Creato, la sua vitalità generale complessiva; così Dio non è mai solo, ma Solo Unico è eternamente presente all'individua mortale sorte di ogni suo ente cosa esistente temporaneamente;

- tutto quanto è fattibile avvenibile nell'orizzonte dei temporanei esistenti è ricollegabile semplicemente alla naturalità perenne del tutto quanto possibile, perché tutto, proprio tutto è esposto dispiegato offerto donato da Dio dall'eternità: in questo senso lo stesso ordine Creato/Universo è un unico eterno ciclo vitale di mutamento; tutto questo possibile è disvelabile usufruibile trasformabile applicabile; in questo senso, Dio ha già fatto tutto quanto dall'eternità, la sua parte è compiuta; per questo motivo non ha mai più avuto bisogno di correggere salvare redimere, in quanto ogni cosa ed ente apparendo nel Creato entro esso vive relativamente libero, ma circonstanziato contornato confinato condizionato …"Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio Creato…":

- tutto ciò significa che è vero e non vero contemporaneamente che Dio è Provvidente: è vero, perché tutto è stato da Lui predisposto per rendere possibile tutto il possibile; non è vero, perché Dio non ha bisogno di rendere possibile tutto il possibile di volta in volta a seconda di come vanno le cose, né secondo le richieste (preghiere) degli esistenti;

- ne consegue che ognuno può sentirsi in giusto diritto di attribuire comunque a Dio qualunque cosa avvenga faccia nel Creato, in quanto Autore del medesimo; ma al tempo stesso chiunque può pensare (con lo stesso diritto) di attribuire a sé qualcosa realizzata volontariamente liberamente, pur nel contorno intrecciato di mille condizioni situazioni costrizioni…ed è in questo stesso intreccio che sta la condizione garanzia perenne dell'universale armonia di opposti/concordi; e questa stessa universale armonia di opposti/concordi è la dolce/tragica culla di ogni temporanea cosa possibile, senza alcuno sbocco in merito/demerito (beatitudine/dannazione) eterni oltre il tempo e luogo del Creato stesso, perché è il Creato stesso l'ambito di un unico tempo e spazio infinito;

- è in questo senso che tutto è profano e sacro insieme: non vi è alcuna distinzione ontologica agli occhi di Dio, come pure non c'è distinzione per Lui tra bene e male, tra santità ed empietà, tra virtù e vizio, tra effimero e sublime, tra giusto e ingiusto, tra umano ed estraumano, tra cose animate e inanimate, tra minerali e vegetali, tra vegetali e animali, tra animali e umani… ; l'uomo ha creato queste distinzioni, perché creandole gli dava potenza privilegio elezione divina, ed ha recitato così bene questa parte che ha creato a sua somiglianza anche dio stesso, affinchè fosse raggiungibile svelabile abbordabile fruibile…

- l'istanza umana più profonda ed insopprimibile rimane ugualmente per tutti gli esistenti, enti transeunti quella della FELICITA', però la percezione che ciascuno ha di essa è misteriosamente indecifrabile e le diverse vie per raggiungerla giustificano agli occhi di Dio qualunque scelta decisione azione possibile;

- è l'insieme culturale degli esistenti che giustamente pone il problema di come conformare le vie alla felicità di ciascuno;

- ciò significa che la costruzione di un'etica umana collettiva, sotto cui debbano stare tutti gli individui, è un'opportuna ma variabile forma di costrizione all'istintiva e primigenia libertà;

- gli effetti della Sapienza infinita sono tutti dispiegati ed esposti nel creato universale (umano extraumano cosmico); anche le religioni e le filosofie, e qualunque atto di pensiero, ne sono una derivazione; vi si sono ispirate e continuano ad ispirarvisi; e tutto ciò è possibile perché per Dio non esiste alcun privilegiato ed esclusivo "sentire"; in questo senso, anche il pensiero religioso, pur potendo avere agli occhi degli uomini una sua particolare eccellenza, entro la Sapienza infinita di Dio è semplicemente una delle opportunità creative-ricreative;

- il male e il bene intesi tradizionalmente non avranno mai fine, perché semplicemente agli occhi di Dio non sono né bene né male: sono un'eterna vitalità indifferenziata; ciò comporta che Dio non attribuisce a nessuna azione di qualunque esistente, ente del creato una valutazione aggiuntiva, che rispecchi quella stessa degli uomini; l'ambito eterno della Sapienza infinita è tale da comportare l'assoluta a-moralità di Dio, cioè Lui non ha alcun bisogno né desiderio che le cose debbano avvenire in un modo per il quale soltanto si possa acquisire la sua approvazione: la sua infinita a-moralità è contemporaneamente infinita libertà e l'infinita sua libertà è conseguentemente l'universale salvezza da sempre e per sempre presente operante;

- non v'è alcuna contraddizione né cesura tra l'infinita libertà/a-moralità di Dio e l'infinita gamma armonica di tutti i possibili, perché l'armonia di ciascun ente non deriva da un unico esclusivo parametro di conformazione ad legge convenzionale COMPLETARE APPROFONDIRE …………….

- la coscienza di esistere in questa vita terrena si esaurisce con la morte; questa, ponendo fine alla libertà/vitalità (l'unico ambito entro cui si conforma la singola temporanea propria specifica armonia), esaurisce anche la responsabilità delle proprie azioni, quindi esaurisce l'espiabilità, già scontata in vita: per questo non esiste alcuna destinazione ultraterrena che comporti eterna condanna/pena o eterna assoluzione/beatitudine.

31 MAGGIO 1997
Un Creato meraviglioso si espone disvelabile agli esistenti di tutti i mondi, per essere vissuto armonizzato con la loro attività intelligente razionale ed istintiva.
Il tutto progressivamente disvelabile, il tutto dinamicamente armonizzabile, mentre Dio senza volerlo ogni volta chiama tutto e tutti dall'eternità ad integrarsi sopportarsi rispettarsi difendersi: in questo modo è sempre attiva l'armonia di tutti gli infiniti possibili.
L'innumerevole serie di contrapposizioni enuncia la libera predisposizione di ciascuno a comporsi ricomporsi, per la propria felicità integrata con quella degli altri: 
contrapposizioni mai definitive;
ricomposizioni mai risolutive.
E' un eterno fluire proporzionato alle une e alle altre, perentoria conseguenza della contemporanea vicinanza-lontananza di Dio dal suo Creato.
Lui riafferma continuamente, in questo modo, sia la sua perentoria e liberale supremazia, sia la irremissibile libera sottomissione degli esistenti. Non vi è altra via d'uscita: o nell'afflizione o nella soddisfazione ogni cosa e ente del Creato partecipa a questo perenne dinamismo indefettibile dell'armonia universale in cammino; così, mentre da un lato può sembrare che maggiore sia l'arrendevolezza (impotenza) di Dio, migliore invece è dall'altro la sua inflessibilità nell'esigere la nostra ricomposizione rispettosa di tutto e di tutti.
In questo modo mai nessuno è completamente vincente, perché o con la vita o con la morte tutti i viventi del Creato debbono subire la frattura del loro esporsi esclusivo di fronte alla sua coerenza (terrestre extraterrestre cosmica): esso infatti è programmato per reggere eternamente alle continue trasformazioni e modifiche di tutti i suoi viventi transeunti, senza soccombere, senza annientarsi.
Ciò che soccombe e s'annulla continuamente è solo ogni sua parte, in continua rigenerazione. Ogni esistente ha la sua autocoscienza a termine, anche se aspira a mantenerla il più a lungo possibile o a pensare che essa si possa prolungare perennemente.
Nell'ordine universale del Creato, ciascuno per sé, ciascuno per gli altri, tutti per sé, tutti per gli altri, vicendevolmente siamo portati ad autodichiararci necessari, ci identifichiamo e con ciò ci "poniamo": ciascuno vuole essere, vuole farsi riconoscere per sempre.
Questo auto/etero riconoscimento reciproco, che gli uomini ostentano nella storia individuale o collettiva, è ciò che proviene e sospinge ad un tempo dalla/verso presunta indispensabilità di ciascuno. Ed è la forza di questa presunzione individuale e collettiva che porta a confondere l'"immortalità" del Creato con la specifica immortalità di ognuno: non è ciascuna parte del Creato ad essere eterna, ma solo l'universale Creato entro cui perennemente tutto si trasforma, e l'uomo non ne fa eccezione.
Ognuno di noi vuole, in un certo senso, consapevolmente o meno, occupare la stessa posizione di Dio: l'eternità dell'esserci, ma ciò è unicamente la sua prerogativa, irreversibile inderogabile; solo CHI è da sempre può mantenere la propria sussistenza permanente (IO SONO).
LUI vive dall'eternità Ente Sussistente da Se Stesso;
è purissima straripante Energia Inconsumabile;
non ha luogo, non ha tempo; è spontaneamente e liberamente effusivo pervasivo diffusivo creativo.
La sua effusività spontanea irresistibile ed irreversibile si autoalimento continuamente, senza fine: entro tutto ciò noi esistenti dell'autocoscienza a termine ci poniamo come lo specchio opaco di questa infinita trasparenza, ove tutto si consuma e si rigenera senza infingimenti pentimenti e pretese.
La nostra debolezza limitatezza di esistenti sta proprio in questa effimera e sublime pretesa di non voler partecipare a questo immane perpetuo crogiolo infinito emanativo e spontaneo di Dio; cioè non vogliamo esserne compresi, perché ci ripugna pensare di seguire la stessa sorte di tutte le cose ed enti del Creato; ci ripugna scomparire dalla visibilità superba del gran teatro eterno dell'opera divina: non vogliamo praticamente partecipare all'autoconsumazione-rigenerazione infinita; pretendiamo (inanemente) una nostra perpetua consistenza.
Ma nonostante questa pretesa, avviata sorretta reclamata dalle religioni, questo apparire/scomparire imperterrito continua: noi infinitesimali esistenze provvisorie, mentre perdiamo l'occasione della nostra stessa possibile felice provvisorietà non vergognosa, smarriamo anche l'opportunità di vederla come una grazia divina, anzi pretendiamo che tale grazia già grande della vita esistente diventi ancora più grande, addirittura infinita… immortalità!
Le religioni fanno nutrire ancora l'idea di questa immortalità dovuta, perché sarebbe specifica eletta privilegiata la stessa umana stirpe nell'infinito Creato.
Questa è propriamente una delle situazioni in cui è davvero adatta l'espressione che la "fede" è la certezza delle cose impossibili! 
Pertanto, è del tutto opinabile se sia meglio avere questo tipo di fede nell'impossibile vita ultraterrena eterna
o quella più realistica nella vita terrena temporanea conclusa.
Un incalcolabile stuolo di religiosi fidenti ha sacrificato la propria vita terrena, ritenendola un semplice preliminare a quella più eccelsa ultraterrena; un innumerevole stuolo di religiosi fidenti ha squalificato la vita terrena, paragonandola ad una "valle di lacrime"; uno stuolo incalcolabile ed innumerevole di uomini pii ha preteso che tutti dovessero optare per questa visione; una casta di puri invasati ha reso ripugnante la vita mortale, grazia suprema di Dio, nell'apocalittica attesa della presunta vita immortale.

2 giugno 1997
I religiosi hanno "scoperto" a storia umana inoltrata il problema della salvezza/redenzione dell'anima: non riuscivano a rendersi conto che era già in atto fin dai primordi del Creato.
Non si accontentavano dell'evidenza della struttura permanente della vita creata e creativa già in corso, come vitalità permanente in continuo mutamento, che conteneva liberamente spontaneamente istintivamente razionalmente tutto quanto bastava.
Indagando tale problema dopo la speculazione greco-ellenistica, che concepiva l'immortalità dell'anima quale condizione per il suo ritorno a Dio, i religiosi dei monoteismi assoluti ed esclusivi hanno teorizzato dogmaticamente e perentoriamente che tale salvezza/redenzione poteva provenire soltanto dal loro dio salvifico, dopo un profetico annuncio della sua venuta e dopo un portentoso evento che Lo collocasse entro la storia: per essere "visibile" doveva essere UOMO-DIO.
L'immaginario teologico di questa casta di speculatori esclusivi era così imbrigliato nella superba pretesa che la propria divinità fosse l'unica vera, che non riuscivano neppure ad immaginare l'esistenza del Dio Vero Unico Universale Eterno già armonicamente operante dall'eternità, e rispetto a tutto il Creato universo.
La spontanea intolleranza reciproca nei tempi passati dei fautori/fruitori delle diverse religioni induceva ad esclusivizzare la propria divinità, quale fonte della salvezza possibile, unica possibile; tutti contemporaneamente avevano ragione, tutti contemporaneamente avevano torto: il Dio Unico Vero Universale Eterno era da sempre Assente/Presente, era da sempre l'Autore della salvezza attuale/attuativa per il suo Creato: Assente per l'impossibilità stessa di vederLo, Presente per l'impossibilità stessa che qualcosa esistesse senza il suo Autore.
Tutto il Creato stava e consisteva, tutto il Creato sta e consiste nella salvezza: tutto il Creato sta e consiste in redenzione, perché nulla di quanto avviene è fuori dell'ambito degli infiniti possibili; ogni cosa che accade sta sempre entro l'ordine eterno infinito dell'armonia universale, il regno della perenne vita in continua trasformazione.
Dio Vero non ha mai fallito, Dio Unico non ha mai avuto bisogno di introdurre surrettiziamente nel suo Creato un elemento specifico di salvezza aggiuntiva, quasi ci fosse stato bisogno ad un certo punto di un correttivo.
Pensare che Dio Eterno durante la vita del Creato sostasse a valutarne l'andamento per un intervento correttivo ("Non è buono quanto ho fatto" - "Non è bene che …") è di tale gravità sacrilega, che non ha paragoni. 
Eppure, ancora molti attendono la salvezza come qualcosa da venire! Molti reclamano un proprio momento di salvezza, una grazia, una elargizione gratuita che … li faccia emergere da una situazione verso un'altra nuova: sono gli stessi che stanno ad annusare dove ci sia possibilità di miracolo, evento portentoso di cui possano fruire direttamente.
Ancora troppi uomini pii fanno della preghiera un tipico atteggiamento di richiesta, di pretesa; richiesta e pretesa di ottenere; ne sentono quasi un diritto: "Sto con Te, dio della mia religione! Proprio perché sto con Te, ho diritto ad avere quanto Ti chiedo…! 
Altrimenti mi cerco un altro dio."
Ed ogni santo è buono; ogni santo è santo, purché provvido di miracolo…!
Anche il cristianesimo cattolico suffraga questa concezione: un santo è veramente santo quando gli si può attribuire la paternità del miracolo… ed esso è sempre, deve sempre essere, una guarigione!? Il miracolato non può che esserne grato; conseguentemente quel fortunato non potrà che rimanere fedele a quella religione: non c'è più il pericolo di apostasia. La veridicità di quella religione è salva.
Questo circuito chiuso di preghiera per la salvezza, a quale tipo di salvezza mira?
Essere salvati dalle pene eterne dell'inferno? E' persino sacrilego concepire che Dio, l'osmosi assoluta di Sapienza Potenza Amore e Giustizia, possa destinare alle fiamme infernali eterne un esistente-esistito del suo Creato, seppure si desse per scontato che tale mondo ultraterreno possa esistere. Ma è perfettamente altrettanto sacrilego pensare che Dio renda immortale ogni ente del Creato, quando solo a Lui appartiene questa prerogativa impartecipe: la possibilità che esista l'immortalità di milioni miliardi di individui contigui attigui a Dio è di tale sacrilega superbia che soltanto gli uomini pii possono avere.
Ma, dato e non concesso, che ciò sia verosimile, è altrettanto inverecondo ritenere che una parte di questi immortali abbia diritto a godere la beatitudine eterna, l'altra a soffrire la pena perenne: l'immensa sproporzione tra merito e beatitudine e tra demerito e condanna dimostra già da sola l'irrazionalità estrema d'una tale teoria religiosa.
Eliminato questo tipo di salvezza ultraterrena (la salvezza dell'anima in proiezione eterna?!), quale altro tipo di salvezza rimane? Unicamente quella più opportuna e reale durante la vita di ogni mortale.
L'immaginario religioso ha voluto intravedere il privilegio d'una salvezza eterna e nel frattempo smarriva la vera salvezza terrena, e questa tutta consisteva nella stessa condizione mortale di ogni elemento del Creato: nessuna cosa esistente aveva bisogno di salvezza eterna legata all'immortalità; tutte le cose esistenti invece avevano bisogno di approdare più coscientemente all'universalità dell'armonia.
Ed ognuna in effetti tende ad essa, ciascuna a partire dalla situazione in cui si trova e seguendo vie differentemente efficaci, diversamente possibili, tutte giustificabili: nell'eterno ambito degli infiniti possibili ogni scelta, anche la più assurda, la più nefanda, è già in anticipo giustificata e tollerata da Dio, perché ciascuna è contemporaneamente una ricerca, un tentativo, una speranza, una volontà, una tendenza: la salvezza (cioè giustificazione di Dio) non sta dopo l'azione, sta prima, sta da sempre, sta dall'eternità.
Ecco perché il bene ed il male, la sofferenza e la gioia, il tormento e la serenità, la guerra e la pace, l'odio e l'amore, e le mille altre dualità oppositive/compositive concordi/discordi non hanno alcun senso morale allo sguardo di Dio: per Lui, erano/esistevano, sono/esistono, saranno/esisteranno, normalmente, assolutamente non condannabili, eternamente valevoli, perennemente efficaci proprio nella loro dualità in continuo interscambio vitale.
Non è nel corso della storia umana che s'incarna il Dio salvifico; Egli lo è dall'eternità, dal suo primo atto primordiale creante/creativo: il CREATO è l'immenso eterno infinito orizzonte divino, entro cui sta tutta la dinamica armonia di tutti gli infiniti possibili.
Storica è solamente l'apparizione entro le religioni dell'idea di salvezza ad opera di Dio; antistorica è invece la pia idea che tale salvezza debba/dovesse avvenire solo dal tempo della concezione religiosa di un Dio salvifico, esclusivo d'una specifica religione.
Ciò che ha diviso tra loro filosofia e religione consiste proprio, in generale, nella diversa prospettiva verso questa questione: chi ci salva, come ci si salva, da che cosa ci si salva?
La religione ha dettato le sue risposte: ci salva Dio, ci si salva ascoltandoLo, ci si salva dalla sua condanna eterna.
La filosofia ha proposto le sue: ognuno salva se stesso, ci si salva agendo e pensando, ci si salva dalla propria infelicità sperando che sia prossima la felicità.

L'intolleranza ed il dogmatismo delle religioni rivelate si evidenziano proprio da questa pretesa: che la salvezza dell'umanità sia operante solamente a partire dal "disvelamento" del loro Dio. Una volta concepita tale possibilità di salvezza/redenzione a partire dal loro Dio storico, i teologi religiosi non hanno potuto far altro che ricomporre le varie aporie derivanti da tale affermazione, ricorrendo a metafore allegorie forme retoriche amplificative del potere del loro Dio: Lui solo aveva il diritto di essere il più vero, il più grande, il più potente, il più sapiente; Lui solo bastava a riassumere non solo tutte le divinità precedenti ma anche tutte quelle successive; Lui solo aveva il diritto di sostituire le divinità passate presenti e future.

3 giugno 1997
Dio non ha mai avuto bisogno di rivelare direttamente agli uomini (ad alcuni uomini) la verità assoluta indefettibile, per mezzo di qualche atto straordinario provvidenziale, perché "era giunta l'ora": l'ora di Dio è l'infinita durata della sua stessa Essenza/Esistenza; l'ora di Dio è la permanenza di questa sua Essenza/Esistenza; l'ora di Dio è la perpetua catena di istanti vivi e pulsanti di vita creata e creativa.
"Il regno di Dio" non è quello proclamato dalle religioni; è anche quello, ma molto di più, oltre quello; "il regno di Dio" non è quello instaurato dalle religioni con i loro esclusivi dogmatismi; è anche quello, ma molto di più, oltre quello: il regno di Dio è l'eterna vita creata in cambiamento senza fine; ed è questa eterna durata del mutamento che rende il suo regno sempre perfettamente operante e redento: dal primo istante primordiale tutto ciò che è, tutto ciò che avviene, ha motivo di essere ed avvenire; tutto ciò che sarà, tutto ciò che avverrà, avrà motivo di essere e avvenire. 
Solo questa è l'eterna salvezza agli occhi di Dio: che niente e nessuno è costretto da Lui ad essere/esistere in un unico modo, e proprio perché non ha voluto fin dal principio nessun modo esclusivo omologato di vita/esistenza/azione/pensiero.
In questo modo nessuna cosa è nulla, e contemporaneamente nessuna cosa è immortale: troppi uomini religiosi e pii tentano di sfuggire a questo tipo di salvezza, per costruirsene una privilegiata; ma per renderla credibile, hanno dovuto tentare di convincersi, cercando di convincere la stessa umanità di avere ricevuto il messaggio della salvezza direttamente da Dio stesso. E questa stessa superba aristocratica autocratica pretesa ha motivo di esistere, ma non lo può in modo esclusivo e privilegiato, perché nessuna omologazione è possibile, proprio perchè Dio stesso non l'ha pretesa; e non avendola pretesa, perché non era necessaria, ogni vita ogni esistenza ogni azione ogni pensiero ogni effetto è al tempo stesso privo di ritorno e rimando immortali: Lui solo è l'IMMORTALE, entro cui tutto può avvenire senza condanna. 
Dio, avviando il creato, ha predisposto tutto quanto era necessario affinchè si evolvesse autonomamente, senza bisogno di aggiuntiva opera straordinaria di protezione o correzione, senza bisogno di rinnovamento nel tempo della sua esistenza: tutto il Creato contiene dall'inizio lo straordinario meraviglioso panorama di tutte le possibilità future, compatibili con tutte le variazioni possibili.
Anche per quanto riguarda l'ambito degli esistenti terrestri Dio non ha fatto eccezione: la loro evoluzione causale/casuale non doveva avere bisogno di straordinarie correzioni, di interventi specifici per mutarne l'andamento; l'evoluzione per successivi ininterrotti mutamenti casuali/causali sarebbe stata senza alcun pericolo alla sua Sovranità, quindi senza bisogno d'una specifica temporale assistenza provvidenziale miracolosa.
In questo senso anche la stessa verità non avrebbe potuto essere mai di tipo definitivo assoluto: sarebbe germogliata proporzionalmente alle capacità progressive di ogni tempo e luogo, in modo che fosse sempre efficace di volta in volta, e non soltanto in relazione ai tempi e luoghi, ma anche rispetto ai soggetti ricercanti, di tutti i soggetti conoscenti. 
Una verità assoluta irreversibile visibile, contemporaneamente trasparente e verificabile da parte di tutti i conoscenti è incompatibile sia con la multiforme potenza infinita di Dio che non tollera alcuna omologazione, sia con la limitatezza delle creature che non possono sopportare il rigore di un'unica verità.
La verità assoluta irreversibile richiederebbe: l'immortalità dei conoscenti, l'annullamento del libero arbitrio, un'imperante teocrazia costrittiva omologativa, una forma di selezione guidata a livello mondiale. 
La vistosa propensione di tante religioni a pretendere l'instaurazione della verità assoluta, colta come la sola capace di stabilire un'armonia (asettica e artificiosa) e relativa felicità/beatitudine virtuosa è di più che un miraggio: è la pretesa assurda, anzi blasfema, di voler riprodurre un unico tipo di felicità che nemmeno Dio ha voluto.

Francesco Gheza


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