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Jung animista?
Omaggio a C.G. Jung in occasione del 50° anniversario della morte. (1)
di Antoine Fratini - Settembre 2011
Il 2011 è il 50° anniversario della scomparsa di C.G. Jung e oggi abbiamo voluto rendere omaggio a quel che viene considerato uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi. Sarà una occasione per tornare su alcuni punti particolarmente importanti del suo pensiero e tentare di attualizzarli, magari alla luce di considerazioni tratte dalla moderna antropologia.
Figura poliedrica, al contempo medico, psichiatra, psicoanalista, mistico, scienziato, scrittore e filosofo, Jung è stato l’autore di un significativo ampliamento dei confini della concezione dell’inconscio. A lui si deve la formulazione di teorie e concetti entrati di diritto nella cultura moderna. Oggi tutti utilizziamo termini inizialmente tecnici coniati da Jung, quali: inconscio collettivo (contrapposto all’inconscio personale studiato da Freud), archetipo, introversione/estroversione, sincronicità… In questa sede non potremo di certo considerare tutta la ricchezza del pensiero junghiano, e quindi ci concentreremo su di un aspetto in particolare. Personalmente, almeno fino a pochi anni fa, ho sempre privilegiato l’aspetto scientifico dell’opera di Jung, rispetto magari a quello “mistico” per lo più considerato nel filmato che vedrete (o ri-vedrete) dopo la mia introduzione. Questa mia preferenza si spiega facilmente: mentre l’autore del filmato è un noto studioso di esoterismo, la mia attività di psicoanalista mi ha spinto a ricercare strumenti efficaci per la comprensione delle dinamiche inconsce.
Esiste poi una attualità e validità di Jung dal punto di vista scientifico che va riaffermata: per esempio, egli fonda la sua concezione dell’inconscio collettivo sulla legge della cosiddetta “ricapitolazione” del biologo tedesco Ernst Haeckel. Ai tempi di Jung questa legge era solo una ipotesi, ma oggi la scienza che studia i rapporti tra l’evoluzione e sviluppo degli organismi, ha dimostrato che effettivamente “lo sviluppo degli organismi documenta l’evoluzione della loro specie” (2). Affermando che l’inconscio collettivo è ereditato filogeneticamente, Jung poggia la sua teoria su una base epistemologica tuttora impeccabile. Altrettanto impeccabile è la sua definizione di archetipo. La parola archetipo ha un significato preciso. Etimologicamente significa “impronta originaria”. Ereditarie non sono le rappresentazioni universali (le immagini e i motivi che formano i sogni, i deliri, le fantasie e i prodotti creativi), ma le tendenze a produrle. Infatti, già nella sua prima grande opera Simboli della trasformazione (1912), Jung parla di archetipi nel senso di “disposizioni innate a produrre idee e motivi di fantasia affini” (universali). Così, tanto più una problematica psicologica è inconscia e scollegata dalla coscienza, quanto più le sue modalità espressive saranno arcaiche, universali, mitiche. In questo senso, il mito, con le sue trame e le sue figure simboliche, può essere infatti considerato da sempre il ponte che permette alla coscienza dei popoli di avvicinarsi alla comprensione dell’inconscio.
Un altro concetto innovativo e importante è quello di “unilateralità” psicologica. Esso ha permesso di ampliare l’eziologia delle nevrosi. Il disagio psicologico non deriva più soltanto dalla sessualità rimossa (Freud), ma anche da potenzialità inespresse o/e represse che soffrono e chiedono, bussando alla porta dell’Io (a volte anche pesantemente!) di essere riconosciute ed integrate nella personalità. Quante volte capita di sentire persone pronunciare frasi del tipo: “io sono fatto così e basta” e portare agli estremi alcuni tratti del loro carattere. Ebbene, Jung ha avuto l’acutezza di mettere in relazione questo tipo di atteggiamento unilaterale con la comparsa di sintomi. Come potete capire, queste formulazioni rendono ancora meglio tutta la complessità della psiche umana e dell’inconscio. Modificano anche la pratica e l’impostazione analitica, nel senso che l’analisi per un junghiano non saprebbe limitarsi alla presa di coscienza del rimosso. L’attenzione in una analisi junghiana non va rivolta al passato soltanto, ma anche agli scogli del presente e a quelle spinte verso il futuro alle quali le manifestazioni inconsce alludono.
Volendo, si potrebbero cogliere alcuni lievi punti di contatto anche con il comportamentismo. Potrei ricordare per esempio l’affermazione di Jung seconda la quale “il simbolo è sia immagine che comportamento”, sia rappresentazione che spinta dinamica, e che quindi i due aspetti si influenzano reciprocamente nella immaginazione. Jung inventò addirittura una tecnica, quella dell’immaginazione attiva (di cui riparleremo più avanti), che può ricordare in un certo senso il ricorso della terapia cognitivo-comportamentale alla immaginazione per favorire il superamento di sintomi, per esempio di fobie. Certo, le finalità differiscono: la prima lascia il commando all’inconscio e consiste in una esplorazione dello stesso; la seconda è guidata consapevolmente e ha uno scopo strettamente terapeutico.
La recentissima pubblicazione in Italia del Libro Rosso è un avvenimento importante dal punto di vista librario e culturale. L’opera illustra molto bene quella prima esplorazione dell’inconscio, quella vera e propria discesa ad inferos compiuta da Jung negli anni immediatamente successivi alla separazione da Freud e dal Movimento Psicoanalitico Internazionale, all’incirca dal 1914 al 1930. A quell’epoca Jung aveva già scritto e affrontato molti temi, come quello della energia psichica non sessuale, dei tipi psicologici (introverso/estroverso) e quindi dei vari orientamenti della stessa energia psichica, dell’inconscio collettivo, degli archetipi… Ma fu da questa lunga, intensa e anche sofferta esperienza interiore che scaturì quel che per molti autori è considerata la sua scoperta maggiore: il processo di individuazione. Molto sinteticamente, “individuarsi” significa, in senso junghiano, diventare sé stessi veramente e completamente. Si tratta quindi di un progressivo approfondimento e completamento della personalità che approda a quella unione dinamica tra conscio e inconscio che Jung chiama “Sé” e che descrive anche, da un punto di vista strutturale, come “uni-totalità psichica”. I mandala, come quelli riportati da Jung nel Libro Rosso, in quanto immagini di un centro armonicamente strutturato, sono delle raffigurazioni simboliche del Sé. E disegnare o dipingere mandala per lungo tempo favorisce la realizzazione del Sé.
Il processo di individuazione tuttavia, contrariamente a quanto molti hanno affermato, non inizia dal confronto con l’Ombra (la parte negativa di sé, costituita dalle debolezze, le mancanze, i difetti, i ricordi penosi, i pensieri immorali, i lati meno differenziati e le tendenze generiche al Male->pulsioni di morte - Freud), ma dalla disidentificazione dai modelli esteriori, quanto mai forti e diffusi nella moderna “società dell’informazione”. Molte persone oggi rimangono impigliate fino a tarda età a questi modelli esteriori. Il che preclude loro l’individuazione. Nella prima opera in cui Jung tratta in modo sistematico (con uno stile lineare, contrariamente al suo solito) dell’individuazione, L’Io e l’inconscio, troviamo tutto un capitolo dedicato al tema della disidentificazione dalla Maschera. Noi tutti abbiamo bisogno di maschere per inserirci nella società, e difatti ne usiamo molte, a volte senza rendercene conto; ci identifichiamo a ruoli e a modelli, seguiamo le mode… Per dirla con Heidegger, inseguiamo il principio del “si pensa, si dice, si fa, si deve…” lasciandoci surdeterminare dal sistema e affogando così la nostra individualità in una dimensione collettiva, la quale a prima vista parrebbe più simile ad un conscio che ad un inconscio collettivo. Ma per Jung quell’adeguamento ai modelli esteriori è reso pur sempre possibile da un archetipo: quello della Persona (3). In pratica, possiamo usare maschere diverse, più o meno appropriate, elaborate, ma l’atteggiamento psicologico fondamentale che sottende tutte le maschere è La Persona. Da lì si capisce meglio la contrapposizione junghiana tra persona e individuo e l’individuazione concepita come un percorso che porta necessariamente ad un allontanamento dai sentieri battuti.
Il punto di partenza per capire sia l’elaborazione teorica che la ricerca interiore di Jung è lo stesso: il divario da Freud. Come è poi capitato a numerosi analisti, studiosi e semplici lettori, Jung non si riconosceva totalmente nella psicoanalisi classica. In poche parole, la concezione freudiana dell’inconscio gli risultava stretta. Di fronte alla posizione rigida di Freud che affermava la necessità di salvaguardare il “dogma” della teoria sessuale delle nevrosi, Jung tentò inizialmente di trovare delle mediazioni. La sua concezione dell’indipendenza funzionale, che afferma che sebbene in origine l’energia che ci muove è sessuale, una volta strutturatasi in funzione di uno scopo diverso (per esempio sociale o culturale), essa non può più essere considerata sessuale (4). Diversamente, aggiunge Jung, sarebbe come considerare la cattedrale di Colonia come un testo di mineralogia con il pretesto che è costituita in massima parte di pietre. Ciononostante, e probabilmente a causa anche di problematiche transferali non adeguatamente analizzate, Jung fu alla fine obbligato a rompere con il suo maestro. Jung iniziò quindi a compiere delle ricerche, per prima cosa su sé stesso. Queste ricerche costituirono l’avvio del suo personale processo di individuazione, ovvero della ricerca di ciò che egli era veramente e completamente, al di là delle maschere e delle proiezioni (dell’Ombra), ma anche delle proprie identificazioni ai modelli archetipici attivati nell’inconscio (l’Eroe, la Donna ideale, il Saggio…). Tutte quelle figure dell’inconscio sono indubbiamente istruttive e arricchenti, ma anche particolarmente possessive.
Si tratta della (ri) scoperta e della (ri) formulazione di un processo psicologico (narrato da molte tradizioni esoteriche e non (si pensi per esempio alla struttura e alle trame di tanti film e romanzi fantasy) che tende ad avvenire nell’inconscio di tutte le persone nell’arco di una intera esistenza, un confronto con le varie parti di sé stessi, una integrazione degli opposti che tende alla pace interiore e all’armonizzazione della personalità. L’inconscio acquisisce così in Jung una visione sistemica e dinamica più marcata che in Freud, visto che è presente sin dalla nascita e che proprio in quanto sistema funge da equilibratore della personalità, compensando o rafforzando (a secondo dei casi) l’atteggiamento conscio e indirizzando lo sviluppo della personalità.
Tuttavia, la visione di una individuazione come integrazione totale della personalità è stato anche criticata e rimessa in questione da alcuni brillanti seguaci di Jung, in particolare da J. Hillman. Quest’ultimo ha preso molto sul serio l’affermazione di Jung secondo la quale gli archetipi non sono del tutto integrabili nella coscienza. Essi sono piuttosto da concepire come presenze spirituali autonome (Hillman parla addirittura di “psicologia politeistica”) con cui confrontarsi costantemente. Si tratta allora di riconoscere le trame mitiche inconsce che si giocano nella vita di ciascuno, di lasciarsene ispirare senza tuttavia venirne posseduti.
Vorrei ora concentrare l’attenzione su di un altro aspetto del pensiero di Jung, finora tralasciato dai commentatori, ma che pure esiste. Mi riferisco al legame tra Jung e l’animismo. Nell’animismo l’inconscio risiede (per così dire) nella Natura, nei suoi luoghi e nei suoi rappresentanti animali, vegetali e minerali più suggestivi. Questi, infatti, da millenni fungono adeguatamente da contenitore dell’inconscio e dei suoi archetipi. Per questo l’Associazione Psiche e Natura propone dei percorsi formativi che si avvalgono di un certo tipo di rapporto con le entità e i luoghi naturali delle nostre zone appenniniche. Studiando i popoli tribali, si capisce che l’integrazione dell’inconscio non può essere concepita come un processo tutto interiore, come una semplice “interiorizzazione”, ma piuttosto come un rapporto costante con l’inconscio i cui archetipi sono simbolicamente legati al mondo naturale. Tutti i simboli maggiori dell’inconscio hanno infatti forme naturali. Si pensi per esempio al Serpente, alla Montagna o al Fiume sacri, alla Foresta, alla Caverna, agli animali mitici, alla Pietra, all’Albero filosofico, all’Uroboros… I membri tribali di tutto il mondo hanno totem e animali di potere ricevuti durante la loro iniziazione, la quale segna il passaggio alla condizione di membro maturo. Queste entità legate alla Natura visitano i loro sogni fornendo insegnamenti, ma si manifestano anche attraverso la presenza fisica dei loro rappresentanti, i quali sono normalmente convocati e interrogati con preghiere e pratiche rituali. Si pensi agli insegnamenti che Jung riceveva dal vecchio saggio Filemone le cui ali erano simili a quelle di un martin pescatore.
Nel periodo in cui era impegnato a dipingere la figura di Filemone, Jung trovò un martin pescatore morto sulle rive del lago nei pressi della propria abitazione. Per farla breve, esiste un legame proiettivo e simbolico atavico tra l’inconscio e la Natura che può (e a mio parere deve) essere recuperato. Non si tratta ben inteso di operare un ritorno puro e semplice all’animismo tribale, ma di lasciarsi ispirare da queste culture, tecnologicamente più indietro, ma psicologicamente e spiritualmente più evolute della nostra.
L’interesse di Jung per l’animismo era talmente forte da portarlo più volte ad improvvisarsi antropologo e ad organizzare spedizioni in Africa e in Messico per intrattenersi di persona con i membri tribali. Una volta rischiò addirittura di perdersi seriamente nella jungla africana, ma a discapito del parere dei suoi accompagnatori e del pericolo, volle proseguire a tutti i costi l’itinerario intrapreso. Tornò da queste esperienze con la convinzione che la psicologia di questi popoli era profondamente diversa da quella occidentale moderna. Essa poggia in primis sul registro della percezione, sui sensi e sull’intuizione. I tribali “vedono”, “percepiscono”, “sentono” là dove noi pensiamo, ragioniamo, calcoliamo. L’animismo, quindi, non è propriamente una “concezione del mondo” basata su credenze ingenue (Tylor), ma piuttosto una “percezione del mondo” che poi si cristallizza in una cultura specifica, la quale di ritorno influenza la stessa percezione (questo costituisce appunto un aspetto della “partecipazione mistica” descritta da Levy Brulh).
Nell’animismo esiste un legame intenso e vitale con la Natura, e Jung confessa nella propria autobiografia di avere intrattenuto fin da piccolo una “sorta di comunione segreta” con il mondo della Natura. Egli era solito compiere delle passeggiate solitarie lungo sentieri di montagna, amava immergersi nella Natura. Probabilmente questo lo aiutava a percepire il suo Sé (la sua “personalità numero 2”, come la chiamava allora). Questo tipo di passatempo è abbastanza insolito nei bambini che sono generalmente più inclini a giocare in compagnia, e presso i popoli tribali viene facilmente considerato un segno elettivo di una vocazione sciamanica. Lo sciamano è infatti colui che sin dall’origine frequenta la Natura e intrattiene rapporti con le sue entità spirituali. Anche da noi, nelle nostre zone montane, esisteva fino a pochissimo tempo fa la credenza, o dovremmo piuttosto dire la “percezione”, di esseri sovrannaturali, streghe, folletti, gnomi… Di questi retaggi di percezione animistica tratta per esempio il bellissimo documentario di Mario Ferraguti (5).
Interessante è anche il paragone tra trance e immaginazione attiva. Presso i popoli tribali le pratiche rituali possono mirare l’armonia con il cosmo oppure avere finalità più circoscritte legate per esempio al ritrovamento dell’anima smarrita o rapita di una persona o alla caccia di spiriti negativi cause di malattie. Tuttavia, tutti i riti trovano un denominatore comune nel fatto che lo sciamano accede alla dimensione spirituale allo scopo di ripristinare un equilibrio andato perso. E’ in quella dimensione che tutto si gioca. Sappiamo che in questi popoli la spiritualità è fortemente caratterizzata da uno stato di trance immaginativa. Questa ultima non è però assimilabile all’immaginazione dei moderni determinata dall’ego e dal dio Economia, ma bensì a quella esperienza che Jung chiamò prima immaginazione mitopoietica e poi, quando ne fece una tecnica esplorativa dell’inconscio, immaginazione attiva. Quest’ultima si distingue dal semplice fantasticare essenzialmente per il livello di profondità psichica al quale si giunge e in cui le figure dell’inconscio si comportano autonomamente dando l’impressione al soggetto di avere a che fare con delle vere e proprie presenze, ovvero con quel che i membri tribali chiamano spiriti (o anime). A tale proposito bisogna supporre che l’accesso a queste frequenze dell’immaginazione sia più agevole per i popoli tribali di quanto non lo sia per i moderni, vista e considerata l’assoluta diffusione di quelle pratiche. Anche se questa facoltà potrebbe essere in parte innata, pare evidente il ruolo determinante della cultura e della educazione. Da noi, per esempio, è quasi proibito “andare in oca”, soprattutto per i bambini in quanto si ritiene che disturbi la concentrazione negli studi e nella vita. Per cui non siamo culturalmente predisposti alla trance e alla immaginazione profonda. A partire dalla propria esperienza clinica Jung giunse alla stessa considerazione. Egli denunciò la forte difficoltà nel fare capire l’autonomia delle immagini interiori ai suoi pazienti. Ma rilevò anche che, una volta le difficoltà superate, questi pazienti riuscivano ad impadronirsi della tecnica e a vivere queste esperienze immaginative a volontà. Il che costituiva per loro un notevole arricchimento interiore. Una cosa del genere capita ai membri tribali che ricevono una iniziazione che non soltanto li rende maturi come persone, ma instaura anche in loro un asse sempre ripercorribile tra la realtà terrena e il mondo degli spiriti, tra stati ordinari e alterati di coscienza o, in termini junghiani, tra Io e Sé. Specialista di questo tipo di viaggi è, come afferma Eliade, lo sciamano. Questi è generalmente dotato di particolare inclinazione alla trance, abbinata però ad una preparazione tecnica specifica (la quale mancò a Jung all’inizio delle sue ricerche). E’ fondamentale capire a tale riguardo che, a differenza dell’immaginazione più superficiale imperniata su di una logica di desiderio e di rafforzamento della posizione cosciente, nell’immaginazione attiva l’Io si trova a confrontarsi attivamente con figure e situazioni che non ha scelto né creato, all’incirca come farebbe se si trovasse a vivere situazioni fortuite nella vita reale (nella vita reale quando si incontra una persona, anche di sfuggita, non ci verrebbe in mente di dire “non ho incontrato nessuno”; stessa cosa si deve fare con le figure della fantasia. Trattasi quindi di un significativo ampliamento del concetto freudiano di realismo psichico). Jung parla di una presa di posizione necessaria del soggetto coinvolto in quella esperienza. Senza questa presa di posizione, quindi limitandosi ad un ruolo più passivo di spettatore, non succede nulla di particolarmente rilevante da questo punto di vista. Nuovamente, possiamo cogliere la similitudine con l’atteggiamento notoriamente attivo, energico, dello sciamano in stato di trance immaginativa; atteggiamento altamente significativo dell’impegno (e della fatica) con cui queste pratiche vengono compiute. Lo stesso impegno veniva chiesto da Jung ai suoi pazienti di fronte alle fantasie e ai sogni. Ora, nel commento al Libro Rosso Sonu Shamdasani elenca alcune particolarità caratteriali di Jung particolarmente significative dal punto di vista animistico. In particolare si dice che sin da piccolo Jung avesse preso l’abitudine di fissare la figura di suo nonno ritratta in un quadro finché non vedeva quest’ultimo scendere le scale. Si tratta di una esperienza “numinosa” precoce che prefigura in qualche modo la tecnica della immaginazione attiva. Ma quella esperienza precoce indica anche che Jung doveva avere una particolare inclinazione alla trance simile a quella che caratterizza la vocazione sciamanica.
Sui temi della “perdita dell’anima” e del “doppio animale” Jung si esprime in questi termini:
"Come hanno osservato gli antropologi una delle più comuni forme di alienazione mentale che si manifesta tra i popoli primitivi è quella che essi chiamano la perdita dell'anima. Fra questi popoli in cui la coscienza ha un livello di sviluppo diverso dal nostro (6), l'anima non è concepita come unità. Molti primitivi, infatti, sostengono che l'uomo possiede un’anima della foresta oltre alla propria e che quest'anima è incarnata in un animale selvaggio o in un albero, con i quali l'essere umano ha una sorte d'identità psichica. Questo è un fenomeno realmente accertato che il celebre etnologo francese Lucien Lévy-Bruhl ha definito partecipazione mistica. E' risaputo, infatti, che dal punto di vista strettamente psicologico, l'individuo può possedere un'identità inconscia di questo stesso tipo con un'altra persona, un animale e persino un oggetto."
Quella condizione alla quale si riferisce Jung, che sarebbe meglio chiamare “partecipazione animistica”, è per noi moderni un vero mistero. In realtà non si tratta di una identità, nel senso che l’Io non si confonde con l’Altro, ma di un legame molto profondo e vitale. Il concetto di “doppio animale” è estremamente importante nell’animismo. L’antropologo P. Vitebsky cita l’esempio della sciamana mazateca che afferma, dopo essere entrata in trance tramite assunzione di psilocibe, che per la sua paziente purtroppo non potrà fare nulla in quanto il suo “doppio puma” è stato divorato (7). L’autore precisa che quel doppio consiste sia in uno spirito che in un animale vero. Esso rappresenta probabilmente l’impressione che lo stato psicofisico globale della paziente ha suscitato prima nell’inconscio e poi nella coscienza della sciamana. E’ appunto grazie alla trance che gli sciamani acquisiscono i loro poteri, compreso quel che potremmo chiamare il loro “occhio clinico”. Incontrare una persona in totale deprivazione della propria energia vitale è come vedere un albero mezzo rinsecchito ormai lasciato al proprio destino. Qui l’interpertazione psicoanimistica si discosta diametralmente dall’idea che aveva il primo Jung sui simboli animali ch’egli collegava alla Grande Madre terribile dalla quale l’Io doveva emanciparsi (8). Questi “doppi animali” in qualche modo rappresentano l’energia vitale delle persone e per questo vanno costantemente considerati e “curati”. Per esempio attraverso oblazioni o preghiere rivolte all’animale vero o nel mantenere vivo il rapporto dialettico con il suo spirito nei sogni. A questo punto sorge una domanda: potrebbe la partecipazione animistica rappresentare una antica modalità di realizzazione del Sé?
A proposito del bellissimo film L’orso del regista J.J. Anaud, mi sono spesso chiesto cosa sarà passato per la mente, quali emozioni avrà provato il cacciatore che si è improvvisamente ritrovato a tu per tu con il gigantesco animale con cui aveva ingaggiato una caccia spietata? Trovatosi del tutto privo di difesa, il cacciatore avrebbe potuto facilmente lasciarci le penne, ma l’orso si accontentò di spaventarlo. Una volta l’animale allontanato, il cacciatore riprese il fucile con il chiaro intento di ammazzare l’animale, ma ne fu impedito da un tipo di emozione nuova per lui, per cui sparò in alto e rinunciò definitivamente a proseguire la partita di caccia. Ritengo che l’autore della storia abbia percepito inconsciamente che quell’orso era inestricabilmente legato, per via animistica, al cacciatore, proprio come un indigeno è legato ai propri animali di potere. La cultura animista insegna che le parti psichiche più profonde non si presentano solo sotto forma di immagini, ma anche nelle veste di entità naturali vere e quindi che per il nostro inconscio Anima e Natura sono indissociabili. Nelle cerimonie rituali, chi si addobba di pelle di animale selvatico o di altri elementi simbolici naturali ricompone per un attimo la propria totalità psichica, si riconnette con la propria essenza più profonda che è spirituale (qui l’apporto di Eliade è essenziale). Infine, vi sono notevoli rassomiglianze tra i dipinti del Libro Rosso e quelli di sciamani in trance che descrivono la dimensione animistica: colori vividissimi, geometrie mandaliche, forme mostruose (gli spiriti maligni da affrontare), motivi archetipici come quello a p. 55 della barca che simboleggia il veicolo dell’immaginazione che traghetta l’Io sui flutti dell’inconscio.
Antoine Fratini
Antoine Fratini lavora da oltre quindici anni come psicoanalista, è Vice Presidente dell'Associazione Psicoanalisti Europei e membro attivo dell’Accademia Europea Interdisciplinare delle Scienze. Egli ha scritto nel 1991 il saggio Vivere di fumo (Book Editore, Bologna) sul rapporto tra adolescenza e uso di stupefacenti leggeri, nel 1999 il saggio Parola e Psiche (Armando, Roma) sul collegamento tra gli indirizzi linguistico e archetipico in psicodinamica e decine di articoli su riviste e siti italiani e stranieri. Poeta e artista, egli ha fondato assieme all’Associazione Culturale C.G. Jung di Fidenza il Movimento per l’Arte Naturale, corrente artistica basata sul pensiero junghiano, e le sue poesie compaiono sui maggiori siti del settore. La sua ultima pubblicazione: Psiche e Natura, fondamenti dell'approccio psicoanimistico, Zephyro Edizioni, 2012.
NOTE
1) Parziale trascrizione della conferenza tenutasi il 3 Settembre 2011 a Villa Ferrari, Bore (PR) e organizzata dall’Associazione Psiche e Natura.
2) B.David, Bollettino de l’Académie Européenne Interdisciplinaire des Sciences N° 131.
3) Personae era il nome latino dato alle maschere degli attori ai tempi della Commedia dell’arte.
4) C.G.Jung, La teoria della psicoanalisi, Newton Compton.
5) M. Ferraguti, Folletti, streghe, magia. Il lungo viaggio della tradizione dell’Appennino, Digital Squad 2007.
6) Oggi gli antropologi preferirebbero parlare giustamente di un diverso tipo di sviluppo.
7) P.Vitebsky, Les chamanes, Albin Michel p.87.
8) C.G.Jung, Simboli della trasformazione, Op. Complete, Boringhieri p.320/321.
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