La Riflessione Indice
Sciamanismo e psicoanalisi
di Antoine Fratini - Agosto 2017
In questo articolo ho volontariamente tralasciato alcuni collegamenti importanti tra sciamanismo e psicoanalisi, come per esempio la somiglianza tra trance e immaginazione attiva, perché oggetti di precedenti pubblicazioni tra cui il mio libro Psiche e Natura (Zephyro 2012) al quale rimando il lettore. Antoine Fratini
In questi ultimi decenni l’interesse del pubblico per lo sciamanismo è andato crescente. Sulla scia del successo ottenuto dai libri di Carlos Castaneda è nato e si è sviluppato dapprima in America, poi anche in altri continenti, il neo sciamanismo fino a diventare un ingrediente stabile ed immancabile della “dieta” New Age. In tutta Europa i laboratori sciamanici sono all’ordine gel giorno e le pubblicazioni sull’argomento abbondano. Antropologi, neurologi, medici, psicologi… da ogni punto di vista sembra si stia riscoprendo le antiche virtù conoscitive e terapeutiche legate allo sciamanismo. D’altro canto, dopo oltre cent’anni di vita e nonostante l’avvento delle neuroscienze e delle psicoterapie tecniche, la psicoanalisi continua a suscitare accesi dibattiti. Nessuna altra disciplina è riuscita ad addentrarsi con tanta efficacia nei meandri dell’animo umano quanto la scienza dell’inconscio. L’intento di questo articolo è di mettere in luce alcuni dei numerosi quanto insospettabili punti di incontro tra queste due discipline che, pur rispondendo alle stesse umane esigenze di conoscenza e di cura dell’anima, rimangono storicamente e culturalmente molto distanti.
Colui che sa
Il termine “sciamano” rimanda probabilmente al tunguso shaman che indica una persona dotata della capacità di entrare volontariamente in uno stato di trance. Si ritiene che quel termine potrebbe a sua volta derivare dal sanscrito sramana che significa “monaco”. In ogni caso lo sciamano designa una persona con doti taumaturgiche, capace di accedere volontariamente alla dimensione animica, nonché un cacciatore frequentatore dei luoghi selvaggi dove risiedono appunto gli spiriti. Per gli indios Yachui dell’amazzonia, gli sciamani sono “coloro che sanno”, che “conoscono perché hanno visto”(1), perché hanno cioè acquisito il potere di vedere le piante, gli animali, le persone ecc. oltre l’apparenza, nella loro vera essenza. Come non pensare a tale proposito alla famosa risposta “I know” data da C.G. Jung al giornalista della BBC che gli chiedeva se credeva in Dio? O ancora a quel passo della sua autobiografia in cui afferma di “avere l’imbarazzante facoltà di vedere gli altri per quello che sono veramente”? Inoltre, anche agli occhi dei profani lo psicoanalista è percepito inconsciamente, per via transferale, come soggetto supporto sapere. In virtù di questo transfert di sapere, l’analista rimanda in forma inversa le verità che l’analizzando presuppone in lui(2). Inoltre, se lo sciamano è stato iniziato alla trance e alla conoscenza dei mondi altri, lo psicoanalista freudiano usa l’atteggiamento fluttuante, quello junghiano accompagna l’analizzando nell’immaginazione attiva, e entrambi sono stati iniziati, seppur in maniera diversa, alla conoscenza dell’inconscio. È possibile che questo accostamento venga visto come una eresia dai rappresentanti accademici, ma abbiamo qui una prima caratteristica che avvicina la figura dello psicoanalista a quella dello sciamano.
Iniziazione e formazione
Un altro accostamento interessante riguarda il punto della formazione. Quella dello sciamano passa generalmente da un percorso di iniziazione con un altro sciamano che gli insegna a contattare e a riconoscere le entità dell’altro mondo, a comunicare con loro e a curare le malattie causate da loro. Quel percorso è vissuto intensamente e dura in genere svariati anni. Anche in ambito psicoanalitico la formazione è di tipo esperienziale e si riassume nella cosiddetta “analisi personale approfondita” (l’unica ad essere effettivamente didattica secondo J. Lacan). Anche questa richiede di norma parecchi anni, ma al posto dell’”altro mondo” troviamo l’inconscio, così come in luogo degli spiriti troviamo i “complessi personali” o/e “archetipici”.
Presso i popoli tribali, alcuni bambini vengono scelti da sciamani, famigliari o altri al fine di essere iniziati. Altre volte, la vocazione sciamanica si manifesta da adulta attraverso una malattia iniziatica o più semplicemente con la volontà di comunicare con i defunti e di aumentare la propria conoscenza sul mondo. Proprio come in psicoanalisi, la conoscenza rappresenta la finalità principale dello sciamanismo, finalità rispetto alla quale la cura rappresenta una conseguenza diretta. Inoltre, di norma la persona scopre la sua vocazione di analista durante la sua analisi, vestendo cioè i panni dell’analizzando. E il disagio che lo porta in analisi è, come sostiene giustamente Henri F. Ellenberger(3), paragonabile alla malattia iniziatica dello sciamano.
Il cammino di apprendimento dello sciamano è generalmente molto duro. La conoscenza può essere mediata da un altro sciamano maestro o giungere direttamente dagli spiriti delle piante. Proprio a causa della difficoltà del cammino, molti apprendisti non vanno fino in fondo, ma smettono dopo avere imparato quel tanto che permette loro di risolvere i problemi più superficiali. Anche la maggiore parte degli analizzandi non spingono la loro analisi sino al punto da diventare a loro volta analisti, ma concludono quando ritengono di avere ottenuto quel giovamento cui necessitavano.
Possessione e inflazione
Se lo sciamano Yachui resiste alla tentazione di usare le sue conoscenze e i poteri dei propri spiriti ausiliari a fini offensivi, allora diventa un cusca yachai, uno sciamano che cura, e il suo potere può rafforzarsi al punto da non essere più attaccabile dagli sciamani malvagi (yanga yachai)(4). Questo passaggio ricorda la fase dell’analisi junghiana, finalizzata alla individuazione, caratterizzata dalla cosiddetta “inflazione dell’Io”. Il soggetto per esempio tende ad identificarsi al contenuto archetipico dei sogni e delle fantasie e quindi a “gonfiarsi”, confondendo il proprio ego con qualche fattore archetipico o con il regista più profondo della sua vita, il Sé. Egli può interpretare il fatto di essere in analisi come un segno di superiorità rispetto a chi non lo è, oppure tende ad usare teorie e concetti analitici per denigrare altri. Uno stato d’animo, questo, che lo sciamano definirebbe a giusto titolo una possessione.
Tendenze auto curative e nevrosi
Gli sciamani di solito curano le malattie cercando di seguire e anzi di esaltare le inclinazioni auto-curative dell’organismo con l’aiuto di preparati a base di erbe, di diete, canti e invocazioni. Di norma, solo quando tale sistema non funziona egli ricorre allora alla trance, con o senza ingestione di sostanze psicotrope, e all’aiuto diretto dei suoi animali di potere allo scopo di affrontare gli spiriti delle malattie. Allo stesso modo, la psicoanalisi considera la nevrosi come una sorta di stampella che è pur sempre un tentativo spontaneo benché inefficace di trovare una soluzione a conflitti psichici. Ad una conferenza Jung rispose ad una domanda posta da una persona del pubblico che occorreva “seguire sino in fondo il senso delle proprie nevrosi”. Inoltre, egli affermava che l’inconscio doveva essere convocato solo quando il lavoro sulla coscienza non bastava. Così, se in una analisi junghiana i sogni sono assenti o scarseggiano, vuole dire che ci si può limitare a lavorare sul materiale cosciente. L’inconscio, così come la dimensione animica, comportano dei pericoli da non sottovalutare per l’equilibrio della persona. Confrontarsi con entità malvagie o con complessi psichici, al di là della terminologia, non è mai una passeggiata. Sul versante freudiano, alcuni autori(5) sostengono che in molti casi è meglio limitarsi all’analisi del sistema preconscio, ovvero di quei vissuti che l’analizzando può effettivamente ricordare e valutare come derivanti dalla propria esperienza. Come se, appunto, convocare l’inconscio potesse in qualche modo recare complicazioni.
Poteri e transfert
A certi sciamani vengono accordati poteri straordinari, come per esempio quello della metamorfosi in animali o della visione a distanza. L’esempio più noto in questo senso è rappresentato dalla figura storica di Rasputin, sciamano siberiano che nonostante la sua rozzezza e la sua umile provenienza entrò nelle stanze dello Zar di Russia per le sue doti taumaturgiche e acquistò presto una fama quasi sovrannaturale. Questi ”grandi sciamani” tuttavia, secondo le stesse testimonianze della gente del posto, sono sempre meno numerosi. Ovviamente, agli analisti nessuno penserebbe di attribuire poteri straordinari o paranormali, ma alcuni di loro hanno esercitato sul pubblico una forte fascinazione che perdura a distanza di molti decenni dalla loro scomparsa. Le loro opere sono continuamente oggetto di accesi dibattiti, i concetti da loro introdotti fanno ora parte del vocabolario popolare, continuano a produrre effetti di senso e vengono spessissimo utilizzati anche da non addetti ai lavori. In particolare Freud, Jung e Lacan hanno lasciato una impronta indelebile sul pensiero e sulla psicologia moderni e godono tuttora, in barba alle tante pubblicazioni critiche e denigratorie nel loro confronti, di una vera e propria aura di saggezza, vale a dire di un transfert generalizzato. Purtroppo, oggi molti commentatori lamentano la mancanza di analisti di questo spessore, mentre prolificano su Facebook e altri supporti addetti ai lavori in cerca di consensi facili ed immediati che si limitano a ripetere le frasi più famose dei padri della loro disciplina.
Prospettivismo e specchio dei sogni
Per i popoli amerindi il sogno è importante quanto la vita diurna. Esso permette di cambiare la prospettiva dell’Io a favore di quella dei personaggi onirici. Così, assumendo la prospettiva di tale o tal’altra entità comparsa in sogno si può arrivare a capire che cosa essa vuole dall’Io del sognatore ed agire di conseguenza. Tale scambio prospettico, che in antropologia va sotto il nome di prospettivismo amerindio (Viveiros de Castro), reca elasticità mentale e arricchimento interiore, due delle principali caratteristiche che risultano anche dal lavoro analitico. Il prospettivismo dei popoli amerindi ricorda l’affermazione di Jung secondo la quale l’inconscio nei sogni può mostrare il soggetto in una veste diversa rispetto a quella che le è famigliare. In questo senso il sogno è una sorta di specchio che però riflette una realtà altra rispetto a quella già nota all’Io. Ed è appunto facendo proprio quest’altro punto di vista che l’inconscio può essere capito ed integrato. Certe figure oniriche sono difficili da riconoscere come parti di sé, in particolare quando presentano forme animali o entità non umane. Ma per i popoli tribali questo non costituisce un problema particolare perché essi nutrono un sentimento empatico e di fratellanza con tutte le entità del cosmo.
Inoltre, similarmente alla pratica junghiana, i popoli amerindi ricorrono ai sogni o alle visioni solo nei momenti di difficoltà, per esempio quando devono prendere decisioni importanti e combattute. I sogni hanno nella loro concezione una funzione finalistica, sono cioè tesi verso accadimenti futuri e vengono addirittura considerati come la “primera realidad”. Secondo Anne Marie Losonczy(6) per i tribali il sogno è in generale una forma di mediazione tra ciò che è conosciuto e ciò che non lo è. In termini psicoanalitici diremmo: tra la Coscienza e l’Inconscio. Nella concezione junghiana succede proprio così. Tanto che molte interpretazioni tribali di sogni sarebbero perfettamente sottoscrivibili dallo stesso Jung! A secondo delle scuole di pensiero, gli antropologi sottolineano gli aspetti sociali, spirituali o intimistici del sogno presso i tribali, ma la maggioranza di loro concorda nel consideralo una continuazione, un complemento o una correzione di quanto accade nella vita diurna(7). Questo concorda perfettamente con la concezione dell’inconscio funzionale, di cui Jung tratta particolarmente in Tipi psicologici e Mysterium coniunctionis, cioè dell’inconscio come sistema psichico innato preposto a completare, rafforzare o compensare il sistema conscio.
Mondi altri e scenari onirici
Per i tribali il sogno rappresenta spesso la via maggiore di relazione con i mondi altri, proprio come l’interpretazione dei sogni fu considerata da Freud la via regia per l’inconscio. Le altre vie tradizionali, come il ricorso alle piante maestre e alla trance, sono invece di prerogativa specifica dello sciamano che M. Eliade non esita a definire un “esperto nelle tecniche dell’estasi”(8). Secondo Anne Marie Lesonczy, per gli Emborà “quando l’insolito, il non conosciuto, il non quotidiano sorgono nella vita diurna, provocano una apertura alla discontinuità portatrice di infortuni o di elezione sciamanica nella misura in cui il soggetto perde in parte il controllo del proprio corpo e della propria vita”. Se sostituiamo i termini “insolito”, “non conosciuto” e “non quotidiano” con la parola “inconscio” vediamo che tale discorso diviene perfettamente comprensibile e sottoscrivibile dal punto di vista psicoanalitico. Il ritorno del rimosso angoscia e inibisce, e la scoperta dell’inconscio impedisce di vivere come prima. Di nuovo viene in mente il punto di vista di Jung secondo cui l’inconscio in analisi deve essere tirato in ballo solo quando è necessario. Ai membri tribali, del resto, non verrebbe mai in mente di ricorrere a qualche rituale o di invocare gli spiriti in assenza di una reale necessità.
Nella esperienza onirica dei Runas dell’Amazzonia esiste un doppio processo: il sogno influisce sulla psicologia e le scelte del sognatore, e questi influisce sul sogno attraverso riti e canti propiziatori. Tale dinamica “a doppio senso” descrive quel che la scienza dei sistemi chiama una “cinta di retroazione” e si ritrova in quel che Jung chiama “dialettica con l’inconscio”. Questa inizia quando si tenta di interpretare i sogni e poi di rispondervi nella vita con scelte e azioni concrete. Trattasi di uno dei passi più importanti e difficili dell’insegnamento junghiano. E. Galli(9) riporta un esempio di interpretazione di sogno in cui il soggetto, un giovane runa che aveva litigato con la fidanzata, incontra un boa che si arrotola attorno al suo braccio e poi scivola via percorrendo tutto il corpo. L’interpretazione del soggetto fu che se fosse andato a trovare la sua fidanzata, questa lo avrebbe perdonato. È quello che fece ed effettivamente l’amata lo perdonò. Potrebbe ovviamente trattarsi di un semplice caso, ma questa modalità di interpretazione dei sogni che fa affidamento alle facoltà irrazionali è una costante antropologica e si ritrova anche nei popoli dell’Antichità. Marie Louise Von Franz(10) riporta diverse interpretazioni di personaggi antichi che si basano sulla stesso metodo, diremmo “intuitivo”, metodo che sembra accordare maggiore importanza all’istinto, al registro emotivo e al “fiuto” rispetto al pensiero razionale. Lo stesso Jung nelle sue opere cita diverse interpretazioni del genere date dai suoi analizzandi. Egli tuttavia non manca mai di aggiungervi un complemento razionale, ricorrendo in particolare all’analisi della simbologia. Un chiaro esempio in questo senso è quello del giovane studente disorientato nell’accorgersi che la Facoltà di filosofia alla quale si era iscritto non faceva per lui(11). Una notte costui ebbe un sogno in cui stava camminando lungo un sentiero in un bosco che si faceva sempre più selvaggio finché fu attratto da una luce fioca, madreperlacea in lontananza. Vi si avvicinò e scorse uno stagno rotondo con al centro una idromedusa brillante di notevoli dimensioni. A quel punto fu preso da violenta emozione, si svegliò e decise immediatamente di orientarsi verso le scienze naturali. La medusa rimanda certamente al mondo della Natura, ma difficilmente questa sola associazione di idee può produrre una tale convinzione. Occorre assumere un atteggiamento recettivo che permette di lasciarsi cogliere dal senso e dall’energia dei simboli. Jung non manca infatti di notare la struttura mandalica dello stagno rotondo con la medusa nel mezzo e quindi il collegamento simbolico con il Sé, la bussola interiore che orienta il viandante in caso di smarrimento. Per i tribali, questo tipo di atteggiamento recettivo rimanda al “pensiero del cuore” ed è considerato più prezioso dell’intelletto. Si tratta quindi, per i tribali come per Jung, di fare posto all’irrazionale nella vita.
Mistero, sublimazione e reincanto del mondo
Wakan Tanka, il Grande Padre degli Sioux, è una parola che si riferisce al Creatore, ma anche al Grande Mistero al quale ogni creatura è sottoposta. In effetti, si può dire che la psicologia degli indiani d’America riserva uno spazio importante al mistero della vita, degli incontri, delle coincidenze… di tutto ciò che trascende la volontà e la comprensione delle persone pur determinandone la storia. Il Grande Mistero è per loro come una via in un certo senso invisibile eppure molto concreta, da percorrere fiducia e coraggio. Risulta qui evidente la stretta parentela con la concezione junghiana del processo di individuazione e del Sé, quel ”attrattore strano” che Jung paragona certe volte ad una bussola interiore. Trattasi di un disporsi delle cose indipendente e spesso contrastante con la volontà dell’Io. Il Sé ricorda anche il Tao cinese, che può essere tradotto con “via” o “senso” e che la figura a metà leggendaria di Lao-Tzu avrebbe rinunciato a definire in quanto realtà sfuggente ad ogni tentativo di descrizione razionale. Scorgere il Grande Mistero insito in ogni cosa era anche l’intento degli alchimisti che facevano coincidere la loro sublime meta con la più banale delle pietre. A tale proposito Leonardo da Vinci scrisse che vi era altrettanto mistero in una pietra che nell’intero universo. Anche l’inconscio è un territorio ancora in parte misterioso che rimanda a fattori che non possono essere colti nella loro essenza, ma soltanto sublimati. Sia che si vuole parlare di sublimazione delle pulsioni o di integrazione di fattori archetipici che sono già di per sé sublimi, in ogni caso trattasi di dinamiche propriamente atte a reincantare il mondo.
Modello olistico e conoscenza partecipativa
Il tipo di concezione del mondo che emerge dai nativi americani, così come da tutte le civiltà tribali più antiche, trova oggi un corrispettivo nella concezione sistemica (o olistica) del mondo. Come ha molto ben descritto Ana Maria Llamazares nel suo libro Del reloj a la flor de loto(12) l’uomo moderno sta attraversando un periodo di transizione in cui l’immagine di un mondo chiuso su sé stesso, in cui tutte le parti possono essere scomposte e indagate isolatamente attraverso l’unico principio di causalità lineare della fisica classica, è destinata a lasciare posto ad un nuovo modello in cui tutto è in ogni momento in relazione con tutto. Non sentirsi più parte integrante di un Tutto trascendente può essere preso come punto di partenza onde riflettere su numerose problematiche. Al livello biologico, per esempio, gli organismi andrebbero in disgregazione se le cellule che li compongono si dimenticassero della loro appartenenza al tutto e smettessero di funzionare in maniera olistica. Un altro chiaro esempio è rappresentato dal sistema immunitario dotato di un Sé capace di riconoscere le proprie cellule e di non confonderle con agenti esterni e nemici.
Il paradigma olistico ha una portata rivoluzionaria anche sul pensiero. La conoscenza che ne deriva è di tipo partecipativo. Il mondo non può più essere studiato dal di fuori come se fosse oggettivo e separato da chi lo indaga. La conoscenza è concepita invece come un incontro tra due o più entità che si influenzano reciprocamente. Come non ricordare a tale proposito la concezione junghiana del transfert che propone l’immagine delle due sostanze chimiche che vengono a contatto ed interagiscono sino a trasformarsi reciprocamente? In Jung il modello classico, razionalistico, della conoscenza psicologica lascia posto ad un altro incentrato sull’anima. Egli parla addirittura di una forma di comunicazione “da inconscio a inconscio”. Questa dipende dalle impressioni inconsce che si ricevono dagli incontri con altre persone e con le cose e dai loro effetti sullo psichismo.
Perdita dell'anima
Il razionalismo, il riduzionismo e la rivoluzione scientifica (o piuttosto lo scientismo), togliendo di mezzo il fattore soggettivo e spiegando il mondo in termini strettamente causali lo hanno nella stessa occasione disincantato. Queste corrente combinate hanno cioè portato ad una scissione i mondi della physis e della psyché. Disincantata, la Natura ha smesso di fungere da contenitore efficace dell’inconscio, il quale tornerà d’ora in avanti nella psicopatologia con particolare evidenza nei rituali degli ossessivi, nelle dinamiche possessive dell’isterica, nei deliri e le allucinazioni dello schizofrenico così come nelle varie forme di disagio causate dalla possessione ad opera del daimon economico.
Gli indiani d’America in generale non gradivano essere fotografati perché temevano di essere in quel modo derubati della loro anima. E in un certo senso essi avevano ragione. Il discorso andrebbe anzi esteso all’intero rapporto dell’uomo con la tecnologia. Quel che chiamiamo “anima”, ovvero il mondo interiore degli esseri viventi, è una realtà dinamica che evolve assieme al corpo e alle esperienze della vita. Non a caso il termine psyché in greco significa sia anima che farfalla. Quest’ultima infatti è uno dei pochi esseri a passare durante la sua breve vita attraverso una metamorfosi completa. L’immagine sulla foto rimane identica a sé stessa col passare del tempo. Il volere fissare sulla pellicola come su qualsiasi altro supporto certi momenti di vita può rendere più difficile l’integrazione di quegli stessi momenti nella memoria viva. Ci si concentra totalmente sull’atto di scattare fotografie o sulla messa in posa e non si vive appieno il momento presente. Così come, per esempio, l’isteria della connessione al web è a mio avviso spesso di impedimento allo sviluppo della percezione dell’intima connessione con gli altri. In altri termini, ci si sbilancia attraverso il web verso i collegamenti esteriori e ci si dimentica della percezione animica di unione con gli altri. Ritroviamo qui il concetto junghiano di comunicazione da inconscio a inconscio cui abbiamo già accennato. Per questo motivo, quanto meno si è connessi intimamente, nell’anima, tanto più si rischia di diventare dipendenti dalle connessioni esterne e in particolare da internet.
Gli indiani d’America affermano che per essere in equilibrio occorre camminare con un piede nell’al di là e l’altro sulla Terra, e che in questo modo si hanno molti sogni. Questa semplice spiegazione dell’equilibrio interiore calza a pennello con quel che Jung chiama processo di individuazione e che passa appunto attraverso il confronto/integrazione con le figure oniriche.
Anima del mondo e individuazione
Una definizione dell’individuazione estremamente semplice, precisa e quindi bella come si potrebbe dire di una formula matematica ci viene da Alce Nero(13) per il quale “lo scopo di chi cerca la visione è uno e uno soltanto: capire la propria individualità, capire l’affinità esistente tra sé stessi e il mondo che ci circonda e riconoscere in Wakan Tanka il creatore dell’universo”. In effetti, secondo Jung individuarsi significa semplicemente diventare sé stessi il più completamente possibile, realizzare quella individualità che rende al contempo integri e unici, cogliere la propria posizione nel mondo e il senso della propria vita.
La concezione junghiana del Sé può essere giustamente definita sistemica nella misura in cui Jung ne parla spesso come di un principio organizzatore della psiche, dell’archetipo di una psiche in cerca dell’unione consapevole delle sue parti. Nella sua rielaborazione de concetto di Sé, l’approccio psicoanimistico convoca tre grandi principi della scienza dei sistemi: auto-organizzazione, struttura olografica e finalismo. In quanto meta e sovra-ordinamento globale, il Sé è in qualche modo presente di riflesso, tale un ologramma, in ciascuna delle parti che lo compongono. “Essere nel Sé” o “realizzare il Sé” implica anzitutto un decentramento. La personalità non si percepisce né concepisce unicamente come Io, come un sistema isolato dal mondo in cui vive. Da lì si capisce tutta l’importanza che nell’approccio psicoanimistico riveste la Natura come via di realizzazione della completezza psicologica. Se il Sé è, come si diceva, una sovra-organizzazione globale, si capisce che possa incidere in ogni istante e in maniera determinante sulla persona. Esso si riflette anche nei sogni, con particolare evidenza nei cosiddetti “sogni iniziali”, cioè in quei sogni che emergono all’inizio di una analisi e che presentano in forma sintetica un piano del processo evolutivo che aspetta il soggetto. In conformità con i principi della sistemica, il Sé va concepito come l’emergenza nella coscienza di una organizzazione di livello superiore reso possibile e anzi necessario dal grado di complessità raggiunto dalla psiche. In altre parole, Coscienza e Inconscio devono trovare un equilibrio dinamico. Ora, come ho già affermato in altre pubblicazioni, quell’equilibrio dinamico e di livello superiore rispetto a quello dell’Io è stato evidentemente raggiunto dai popoli tribali che da decine di migliaia di anni vivono la loro totalità psichica grazie ad una cultura animistica che unisce sapientemente Psiche e Natura e della quale si tratterebbe, forse, di ispirarci.
Antoine Fratini
Antoine Fratini lavora da oltre quindici anni come psicoanalista, è Vice Presidente dell'Associazione Psicoanalisti Europei e membro attivo dell’Accademia Europea Interdisciplinare delle Scienze. Egli ha scritto nel 1991 il saggio Vivere di fumo (Book Editore, Bologna) sul rapporto tra adolescenza e uso di stupefacenti leggeri, nel 1999 il saggio Parola e Psiche (Armando, Roma) sul collegamento tra gli indirizzi linguistico e archetipico in psicodinamica e decine di articoli su riviste e siti italiani e stranieri. Poeta e artista, egli ha fondato assieme all’Associazione Culturale C.G. Jung di Fidenza il Movimento per l’Arte Naturale, corrente artistica basata sul pensiero junghiano, e le sue poesie compaiono sui maggiori siti del settore. La sua ultima pubblicazione: Psiche e Natura, fondamenti dell'approccio psicoanimistico, Zephyro Edizioni, 2012.
NOTE
1) E. Galli, Migrar trasformandose, Abya.Yala, Quito 2012
2) J. Lacan, Ecrits, Seuil 1966
3) H.F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio, Boringhieri 1976 p. 44
4) E. Galli, Ibidem
5) Guy Darcourt, La psychanalyse peut-elle être encore utile à la psychiatrie?, Odile Jacob 2006
6) In E. Galli Ibidem
7) Ibidem p. 256
8) M. Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Mediterranee 1974
9) E. Galli, Ibidem p. 259
10) M.L. Von Franz Rêves d’hier et d’aujourd’hui, Jacqueline Renard 1990
11) C.G. Jung, Aion, Boringhieri Op. Complete 1982
12) A.M. Llamazarez, Del reloj a la flor de loto, Del nuevo extremo, Buenos Aires 2013
13) K. Recheis e G. Bydlinski, Figli del grande spirito, Il punto di incontro 1997
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