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Vecchio 14-05-2008, 22.50.49   #1
Monica 3
Ospite abituale
 
Data registrazione: 08-06-2005
Messaggi: 697
Balcani 1995. Diario Di Viaggio

- Dove andate in vacanza?
Alla domanda rituale di Paola, da fine di anno scolastico, rispondo:
- Quest’anno torniamo nella ex-Jugoslavia, a Losinj.....Lussino, la conosci?
- Mio padre era di Lussino, ma io non ci sono mai stata.
- Per noi è molto comodo, ci rimane sulla strada. I bambini vanno col papà a trovare i nonni in Ungheria, poi ci ritroviamo al mare. - Aggiungo con aria quasi di scusa, enfatizzando i motivi di famiglia, per sviare eventuali domande sulle origini di mio marito che potrebbero provocare risentimento in chi ha lasciato quell’area di confine fra l’Italia e la Jugoslavia dopo la guerra.

In treno

- Alla stazione di Lubiana fra una settimana alle due e trentacinque!
Mi grida allegro e ansioso Goran chiudendo la portiera dell’auto in partenza per l’Ungheria con Luigi e Anna.
E’ ormai da quattro anni che incontriamo a Sopron sua madre che con il suo passaporto serbo non può viaggiare nell’Unione Europea, ma può andare da sua figlia in Ungheria. Goran invece ha il passaporto italiano che ci permetterà ora di trascorrere le vacanze in Croazia. Non aveva però voluto rinunciare alla cittadinanza jugoslava e all’inizio del conflitto nei Balcani l’esercito serbo l’aveva richiamato, provocandogli l’interdizione materna di rimettere piede nella sua città natale.

A Mestre cambio treno, inter-city Venezia-Budapest. Divido lo scompartimento con i giovani genitori di un bimbo d’un paio d’anni. Parlano sloveno e li capisco. Una signora bionda e asciutta intrattiene il bambino nella sua lingua. Accanto a lei, un’altra signora della stessa età, più pesante e scura di capelli tace, ma segue con occhi attenti ogni movimento. Una studentessa italiana è assorta nelle sue letture.

Sono contenta di tornare a Lubiana. A metà strada fra Belgrado e Milano, la Slovenia era destinazione di week-end lunghi che Goran e io cercavamo di moltiplicare per poterci incontrare nelle belle montagne in compagnia di Ivan e Metka i nostri amici
filosofi sloveni. Allora io non parlavo ancora serbo-croato e con loro parlavamo in Inglese, ma nelle pensioni e nei ristoranti che ci accoglievano sempre calorosamente Goran usava liberamente la sua lingua che era accettata semplicemente come Jugoslavo.

Il bambino è seduto in braccio alla mamma proprio di fronte a me. Mi guarda e cerca la mia attenzione.
Oso un “Kako se zoves?” (Come ti chiami? in serbo - o croato?)
“Kako se kljices?”, traduce in sloveno la mamma per lui, guardando fuori dal finestrino. Finché la famiglia non è scesa non oso più aprir bocca.
Solo allora la signora bionda chiede alla sua vicina dove è diretta in serbo (o croato?)
Questa bisbiglia cha va in Ungheria per poter tornare a Belgrado. Era stata a Milano alla laurea della figlia. Sempre sussurrando, riprovano la guerra.
Apprendono da me che trascorrerò le mie vacanze in Croazia, per la prima volta dopo la disintegrazione della Jugoslavia. - Sentirà che qualcosa è andato perso -, mi informa asciutta la signora bionda.

Arrivare in treno a Trieste è per me sempre emozionante. Ritagliata nell’ampio golfo fra il verde del Carso e il blù del mare, evoca momenti intensi della mia vita affettiva. Credevo che fosse una cosa tutta mia, ma la bellezza del paesaggio scioglie anche anche la studentessa in un elogio del fascino di questa città che sembra sopravvissuta quasi per caso alla politica e alla speculazione edilizia dell’Italia, alla rigidezza asburgica, e all’asprezza dei Balcani. Sembra che ognuno dei tre paesi abbia voluto tenere a bada le debolezze degli altri in un equilibrio perenne e precario.
Alla stazione c’è il solito rimescolamento di passeggeri. I controlli abusivi sulla signora di Belgrado da parte della polizia slovena al confine provocano una reazione animata nel mio nuovo vicino di posto. E’ un neo-laureato di Palermo. A Lubiana incontrerà la sua ragazza. Si sono conosciuti grazie al programma Erasmus dell’Unione Europea. Il luogo di nascita indicato nel suo passaporto ha provocato anche a lui controlli umilianti in diverse occasioni. Il bisogno di sfogare la sua rabbia lo spinge a raccontarmi il suo impegno di lotta contro la mafia, le delusioni, l’indifferenza dei coetanei, il desiderio di lasciar per sempre la Sicilia, l’amarezza di scoprire che il suo futuro suocero nutre nei confronti di quelli che sono rimasti gli “Slavi del Sud” pregiudizi a lui ben noti.

La pensione “***”

A Lussingrande arriviamo che ormai è buio. N. ci viene incontro all’entrata della pensione “***” e ci offre la cena. E’ un bel ragazzo. Deve aver passato da poco i trent’anni. Ha sistemato questa vecchia casa l’anno scorso insieme alla moglie, graziosa e tedesca che parla in perfetto Croato. Si son dati da fare per creare un angolo di paradiso mediterraneo. Colazione e cena sono servite in un bel giardino di palme, pini marittimi, fichi e aranci e fiorito di bouganvilles, calle e oleandri. Abbiamo per noi un’enorme terrazza di pietra di fronte a una torre saracena che domina il paesaggio degradante sul porticciolo. In altri posti del Mediterraneo sopravvissuti al turismo devastante la nostra vacanza avrebbe prezzi inaccessibili.
Nella pensione “***” non accettano la nostra carta di credito. - Non importa - ci rassicura N. accomodante - Ci mettiamo d’accordo. Lasciateci i passaporti intanto che scaricate!
Quando torniamo N. ci riconsegna i passaporti e non ci rivolge più la parola per tutto il nostro soggiorno.

Il cameriere Branko finge di ricevere ordini da quelli che ai suoi occhi non possono essere altro che i suoi padroncini. Con una professionalità da grand’hotel muove il suo fisico atletico con passo elastico e felpato fra i tavoli e tiene tutto sotto controllo. Il viso, lo sguardo e i colori di questo slavone di mezz’età sono da zingaro. Chiama Luigi per nome, si informa sulla nostra giornata al mare e risponde cortesemente alle nostre domande. E’ lui che ci racconta che la villa Carolina nella stupenda baia di Cikat, che ora lo Stato croato cerca di vendere a un privato, era stata fatta costruire da Francesco Giuseppe per la sua amante.
Per il bene del piccolo Christian e delle gemelline neonate lui sa che gli ospiti vanno trattati tutti bene, anche se sono nati a Belgrado.

Staka

- Chissà se c’è Staka?
Lasciandoci perdere nel labirinto di callette e di muretti di sassi che si sforzano di contenere giardini esuberanti e ricevendo risposte in veneto-triestino alle nostre domande se poste in croato e vice-versa, troviamo finalmente Staka.
Avevamo preso il caffé nel suo giardino dieci anni prima insieme a sua sorella Natasha e ci eravamo incontrati qualche volta a Milano. I ragazzi erano allora bambini. Sono molto diverse fra loro Staka a Natasha. Bionda e più attenta al suo aspetto l’una, scura e più intellettuale l’altra. Sono le figlie della vicina di casa di Belgrado. Staka si è stabilita a Milano con un Croato di Dalmazia, Natasha, ora vedova da un ingegnere serbo, ricopriva un incarico governativo a Belgrado.
Dopo una prima esitazione, Staka sembra contenta di poter raccontare le sue peripezie per ottenere un passaporto italiano per i figli in età di leva e le sue avventure per poter vedere la madre anziana.
- E Saša? Il figlio di Natasha?
- Sta prendendo il “master” in America. Mi hanno venduto la loro parte di casa. Loro non possono più venire qui. Se tornasse sarebbe in guerra contro di noi. Così invece mantiene i contatti fra gli amici di Belgrado e Zagabria. Le linee telefoniche passano da New York, - aggiunge ridendo.

Da Staka apprendiamo che la pensione “***” era una colonia per i figli degli addetti all’elettricità di Belgrado.

Ragazzi

I nostri costumi e accappatoi, dovutamente stesi sulle sedie di plastica bianca al ritorno dal mare, sono ammucchiati in disordine sul tavolino davanti alla nostra camera, le sedie occupate da sei o sette ragazzi ventenni sull’altro lato del terrazzo, di fronte alla camera dei bambini. Sul tavolino in mezzo a loro qualche bottiglia di vino.
Passo davanti al gruppo per accompagnare i bambini a dormire e per la consueta buonanotte. Mi stendo insieme a loro stasera, un po’ inquieta per la confusione, e ascolto. Quattro o cinque voci si accavallano e si coprono a vicenda. Non è possibile seguire un solo discorso. Le stesse voci che parlano sono quelle che ridono a commento delle proprie parole. Nessuno ascolta. Riesco ad afferrare qualche parola isolata: Benkovac, Vukovar, e se non torno a casa?
Dentro di me gonfia il desiderio di uscire, sedermi con loro, farmi ascoltare, chiedere:
- E sei voi e i vostri cugini serbi vi rifiutaste di ammazzare e farvi ammazzare, cosa succederebbe? Chi avrebbe qualcosa da perdere se non i commercianti d’armi?
Esco e passo davanti a loro senza neanche dire buonanotte. Goran mi aspetta. Nelle sue braccia mi sciolgo in un pianto che non mi sforzo di trattenere.

L’indomani i ragazzi si scusano per aver parlato fino a tardi disturbando forse il sonno dei bambini. Parliamo un po’. Nikola, che studia musicologia a Zagabria, mi dice che è importante combattere per la libertà del suo paese perché possa fiorire poi. Marko ne dubita.

Da Staka sapremo che l’esercito è arrivato al porticciolo a rastrellare i ragazzi durante la loro uscita da sera d’estate al mare.
Monica 3 is offline  
Vecchio 14-05-2008, 22.56.38   #2
Monica 3
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Italiani

La chiesa parrocchale di Lussino è nella rocca che limita a destra il porticciolo. Dietro, staccato dalla chiesa, il campanile ricorda quello di San Marco, a Venezia. La rocca degrada verso il mare con il piccolo cimitero. Sulle lapidi si legge Giovanna e Augusto Baricevich, Anna Premuda, Matteo Budininch....
- Chissà se c’è anche il nonno di Paola? –chedo ad Anna

Le campane suonano a festa, capannelli di gente discutono animati in veneto-triestino sul sagrato della chiesa dopo la messa domenicale, ricordano la provincia italiana.
- La messa è in Italiano? -
- E’ in Croato. - Ci risponde un esuberante signore sulla sessantina, e subito dopo:
- Da dove venite?
- Da Brescia. - Rispondiamo ormai smaliziati.
Pare che aspettino solo noi, l’elemento sorpresa che aggiunge brio alla festa, e siamo investiti da un torrente di parole.
- Noi veniamo da Torino, da Genova, da Seattle - continua allegramente - ma siamo di qui e torniamo sempre qui. E -, cingendo una coetanea alla vita e facendole fare un giro di danza, - questa è mia cugina. Qui è bellissimo. Il mare ma anche l’interno sapete? Non ci sono vipere ma bisogna sempre portarsi una borraccia d’acqua.
- E le altre isole?
- Son belle, ma non andateci da soli. Bisogna conoscere. Il mare può cambiare da bonaccia a tempesta in mezz’ora. Lo vedete il ramo di quel pino? Da ragazzo mi tuffavo di lì per andare sempre più in alto.
Oltre quel ramo ragazzi croati sfidano la paura con tuffi sempre più arditi e pericolosi nel mare di smeraldo.

Ossero

- Stanotte ha piovuto ed è ancora nuvolo, non è giornata da mare. - Mi stiracchio ancora intorpidita dal sonno aprendo la porta sul terrazzo.
- Perché non andiamo a Osor? Ossero in Italiano. Suggerisce Vlado sempre pronto a andare a zonzo. - La guida la chiama città museo. Battistero esagonale del secoloV-VI...resti del periodo paleo-cristiano...cattedrale del 1400. Ospita serate musicali.

Ossero è situata sull’isola di Cherso, dove il ponte girevole la collega a Lussino. I resti delle mura che si ergono dal mare sono invasi dal fico, dal mirto e dal rovo. In questa giornata grigia di mare agitato ispirerebbero ai romantici tedeschi appassionate elegie.
Il centro è un campo veneziano con qualche albero nel mezzo e cinto dalla facciata della cattedrale, dal palazzo municipale del XV secolo su cui sventola la bandiera croata, e da altri palazzotti in pietra di Dalmazia. Su un tavolo all'entrata della cattedrale, al posto dei messali, alcuni volantini esaltano le glorie dei missionari croati nel mondo e esortano a pregare per la liberazione della Croazia. Uscendo notiamo sulla facciata est del palazzo municipale lo stemma a schacchiera scolpito nella pietra in mezzo a due lastre di bronzo ancora lucido su cui si legge la storia del sito in Croato e in Inglese:

"La città di Osor fu fondata dalla tribù Illirica dei Liburi all'inizio del I secolo A.C. A metà del IV secolo D.C. è menzionata del cronista greco Pseudo-Skylatos. A partire dal I secolo D.C. fece parte dell'Impero Romano e dal V al IX secolo fu sutto la giurisdizione di Bisanzio. Appartenne allo stato croato a partire dal secolo X. Distrutta dai Genovesi fece parte della Repubblica Veneta dal 1409 al 1797, quando passò alla giurisdizione Napoleonica fino al 1813. Dal 1813 al 1918 fece parte dell’impero austo-ungarico. Appartenne all'Italia dal 1919 al 1943. Il 20 Aprile 1945 fu incorporata nella sua madre patria: la Croazia”

In silenzio proseguiamo per la calletta che porta veso il mare. Sotto un arco una pietra sporge dalle altre: è il bassorilievo del leone di San Marco.

L’isola di sabbia

- Vale la pena di andare a Susak?
- A Sansego quando piove bisogna rifare gli scalini perché la pioggia li ha sciolti.
Ci avevano informato gli Italiani. La guida la reclamizza per la lingua arcaica, il costume tradizionale, l’abbazia benedettina dell’XI secolo e il buon vino.
Quattro vecchi sdentati vendono il vino dell’isola, mentre le vecchie si mettono in posa per farsi fotografare con le loro sudicie gonne ampie e il corpetto bianco e sdrucito. Porte aperte nelle casupole di pietra lasciano intravedere cucine sporche e buie.
- 600 case, 200 abitanti e 3000 emigrati in America -, mi informa Goran. - E’ l’isola più vicino all’Italia e la più anticomunista. Tito non ha mai potuto mettere la bandiera della Jugoslavia qui.
La bandiera croata sventola vicino a un radar girato verso l’Italia. L’isola, coperta di canne e vite selvatica, sembra un fortino di quelli che costruivamo da bambini con la sabbia dell’opposta sponda dell’Adriatico.

Pero

La colazione alla pensione “***” è di per se stessa una vacanza. All’ombra del fico ce la serve Rita che mescola caffè e latte, italiano e croato, sguardi imbronciati e sorrisi luminosi. Il gattino grigio della casa vicina ci viene a dare il buongiorno e a chiederci il suo boccone del mattino. Pero innaffia il giardino, sistema le piante e ci saluta cordialmente.
- Lei è dell’isola? - Gli chiede Goran quando ormai si è stabilita un po’ di confidenza.
- Di Vukovar -, risponde Pero allontanandosi per poi riavvicinarsi subito dopo : - Da quattro anni aspetto di tornare. - E va a sistemare la canna. Ritorna e sussurra a Vlado:
- Mia sorella e suo marito sono stati ammazzati e gettati nelle fosse biologiche. Mi è toccato dirlo a mia nipote che studia medicina a Zagabria. Ne erano così orgogliosi... Il giardino l’ho sistemato io qui.
Io e Goran ci aggrappiamo al nuovo argomento e gli facciamo i complimenti per il buon lavoro.
Pero va a sistemare i vasi ai piedi della scala. Rimettiamo in movimento il coltello che era rimasto a mezz’aria per imburrarci il pane fresco e morbidissimo.
- Nella mia casa ci sono i Serbi adesso. Trattori e tutto si sono presi. - Ci sentiamo colpire alle spalle. - Ma è meglio che la casa sia abitata così non va in rovina. Adesso i nostri li cacceranno via come i conigli. Faremo presto a risistemare tutto, siamo lavoratori noi.

Nel centro di Lussino, dietro un palazzotto asburgico, un enorme giardino produce un ombra buia e fresca anche a mezzogiorno con una grande varientà di piante. Tavoli da ping-pong, altalene a altri giochi da bambini hanno l’aria abbandonata. I profughi della Slavonia giocano a carte vicino alla porta di ingresso, sprofondati in una lunga vacanza mediterranea che non sembrano aver fretta di terminare. Doda ci informa che in tempi non lontani quella era una colonia per i bambini della Germania dell’Est che soffrivano di malattie polmonari. Ci racconta anche che il palazzotto vicino apparteneva a un ristoratore di Belgrado e che una famiglia croata ci si è installata. Casa, ristorante e tutto.
- Fanno come il cuculo. - Ci sorprende ridendo Luigi che se ne era stato zitto fino a allora.

All’indomani è Pero che ci viene a dare il buongiorno. Ha l’aria contenta. Ci racconta che ogni giorno fra le due e le tre scende al mare ed esalta i benefici del salso e del sole che lo proteggeranno dai reumatismi per tutto l’inverno.

***


La mattina del quattro agosto non sono i gabbiani a svegliarci, ma il rombo sinistro di un aereo da guerra. A seguito della mancanza di conclusione dell’ennesima conferenza di pace a Ginevra, i combattimenti sono ripresi. I giornali stranieri invitano i pochi turisti a lasciare le coste più meridionali della Croazia.

Il cormorano pesca vicino al porto sulla superficie liscia del mare che stamane non è solcato dalle barche. Oltre l’isola di Rab le Alpi dinariche tagliano con una linea più scura il confine tra il blu del mare e l’azzurro del cielo. Non ci sono i ragazzi a tuffarsi dagli scogli. Le radio accese trasmettono bollettini di guerra, marce militari e apologie del presidente.

Con nostra sorpresa N. ci rivolge la parola per gridarci un vivace “come va oggi?” dall’altra parte del giardino e comunicarci con euforia: - I nostri avanzano e fra qualche giorno tutto sarà a posto!

Mentre preparo le valige ascoltando una sinfonia di Beethoven per coprire l’audio della televisione di N. che trasmette la guerra in diretta, sento salire il desiderio recondito e assurdo che i collegamenti con la terra ferma siano interrotti costringendomi così a prolungare il soggiorno, nella speranza forse di avere il tempo di trovare risposta alla domanda primordiale: “Perché?”.
Monica 3 is offline  

 



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