Evoluzione e/o storia
Non so se il tema che io introduco venga riconosciuto d’interesse per la sezione “storia”, data l’ampiezza delle dimensioni che esso prospetta, e che abbraccia umanità e natura: d’altra parte scienze storiche e scienze naturali si sono affrontate da tempo, spronando a domandarci che cosa unisca e che cosa differenzi queste due forme del divenire – l’evoluzione e la storia - e mi pare che la soluzione non sia stata raggiunta se si discute tuttora sulla possibilità di interpretare gli eventi psicologici e storici usando parametri, schemi, metodi di misura uguali o per lo meno paragonabili a quelli delle scienze fisiche: un’operazione che sarà giudicata un ideale o un’ubbia a seconda della scala di valori che usiamo nell’argomentazione, e che può pendere dall’una o dall’altra parte, come si è verificato attraverso le grandi correnti del positivismo e dell’idealismo, dello storicismo, dello strutturalismo, ora dell’ermeneutica, con riflessi evidenti sul compito dello storico e la conseguente spinosa questione, affrontata da Max Weber, se badare solamente ai fatti o accettare il principio che lo storico è uomo e non può rinunciare ai propri valori, anche se il suo dovere è quello di non farsene condizionare.
A stare alla canonica separazione di scienze fisiche e umane, che ha dominato per oltre un secolo la filosofia europea, evoluzione e storia non si svolgono su un’unica linea, perché, come le scienze fisiche sono basate su obiettivi e metodi differenti da quelli delle scienze umane, così la storia – che è l’oggetto fondamentale di queste – è qualcosa di ben diverso dall’evoluzione. Le scienze fisiche – affermavano già neokantiani e storicisti – generalizzano (fino ad arrivare, possiamo aggiungere, a quell’ultima generalizzazione che è la teoria evoluzionistica); le scienze umane – dette anche scienze sociali o storiche - anche se possono inglobare strutture e misure di tipo fisico, hanno come loro oggetto individui e vicende che non sono mai uguali…..E’ come se scienze fisiche e umane si intrecciassero le une alle altre ma consentendo di individuare due piani o due livelli diversi, come se l’avvento dell’uomo abbia determinato non un’interruzione ma una nuova fase nello sviluppo della natura, in cui la tendenza alla variabilità, sancita dall’evoluzionismo, diviene sempre più intraspecifica, cioè individualizzata e nello stesso tempo spinta a trascendere confini di razze e nazioni, per indagare una storia del genere umano che rappresenta un nuovo tipo di evoluzione. E’ come se lo sviluppo fosse destinato a superare il concetto di speciazione o meglio a far uscire da questo concetto eminentemente fisico ciò che chiamiamo storia, interpretata talvolta come rottura delle leggi fisiche, altre volte come uno sviluppo di esse, fino a trasformarle in un ampliamento della coscienza e in un aprirsi ad eventi perfino utopici e rivoluzionari.
E mi pare che solo questo possa rappresentare per lo storico un inalienabile obbligo – cioè quello di aprirsi a ciò che è avvenuto senza assoggettarsi a schemi precostituiti, riconoscendo che l’orizzonte in cui egli si pone è un orizzonte che supera i limiti del dna e dell’adattamento – che sono i cardini dell’evoluzione – oltre che i diktat imposti dalla politica al suo modo di cercare la verità delle cose – cioè la possibilità per gli individui di riprogettare continuamente la propria natura – fino a riconoscere che il rapporto fra natura e umanità non possa essere interpretato in termini di alleanza ma, se non in termini conflittuali, in termini dialettici, perché la storia può superare i limiti imposti da tiranni e da cromosomi, cioè di pietrificati confini, aprendosi, attraverso più che a specie a individui, in una prospettiva così aperta alla comprensione da superare barriere di discriminazione: ciò che diviene per lo storico il solo valore a cui non può rinunciare perché è l’essenza stessa del suo lavoro (Weber direbbe della sua professione).
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