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25-01-2006, 09.06.21 | #19 |
Ospite abituale
Data registrazione: 05-04-2002
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Ciò che ho scritto, accentuando un po’ i toni, è quanto esprime la teologia apofatica, la teologia negativa, che s’incardina intorno al concetto dell’impossibilità per l’uomo, finito ed imperfetto – così voluto dal suo Creatore (questo lo aggiungo io) -, di conoscere pienamente Dio. Espone non solo l’impossibilità per l’uomo di assistere, su questa terra e nel perdurare dell’unica vita terrena – io aggiungo per l’eternità –, ad una teofania compiuta di Dio, ma anche - e forse questo è il tratto saliente e più pertinente al thread, anche solo per contrapposizione - l’impossibilità per il Logos di Dio di giungere nella sua interezza e limpida, cristallina essenza e significanza all’orecchio dell’uomo ([1]In principio era il Verbo,/ il Verbo era presso Dio/ e il Verbo era Dio./ [2]Egli era in principio presso Dio:/ [3]tutto è stato fatto per mezzo di lui,/ e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste..). Ciò per cause ascrivibili alla volontà incommensurabile ed enigmatica del Creatore, ed anche per via dei limiti congeniti ed irredimibili della Creatura – ribadisco, così concepita dal Creatore stesso -.
Tale nozione apofatica, prende le mosse dai sacri libri ispirati dell’Antico Testamento, per svilupparsi in ambiti e contesti ambientali, cultuali e culturali diversi. Ha attraversato i tempi e la storia del cristianesimo e dell’ebraismo, fino a giungere ai nostri giorni, fra il suo alterno espandersi e contrarsi, fra il suo celarsi e manifestarsi fra le pieghe della vita, fino ad immergere il suo senso e nutrire il suo enigma nel e dell’orrore cruento dell’Olocausto: fra le baracche di Auschwitz, di Birkenau, di Buchenwald, e i tanti altri orrori di cui i nostri tempi sono stati e sono tuttora testimoni. In tal senso, emblematico è il buio che avvolge la ‘Notte’ di Simone Weil, una persona che di patire, di orrore, di abisso ne sapeva certo qualcosa. Val la pena rileggere un passo, solo uno <<Nella sventura Dio è assente, più assente di un morto, più assente della luce quando si è in un sotterraneo buio>>. Il sotterraneo, che strano termine per indicare l’abisso che ci abita, ma è un sostantivo che ben si accompagna con il sottosuolo dell’anima del mai dimentico Fedor D. Sottosuolo che evoca il buio, l’assenza di luce, il profondo di un abisso, di un orrido. Lo stesso buio che fa da sfondo alla ‘visione’ di Rilke, quando con un flebile filo di voce ci sussurra che <<L’abisso fra noi e Dio è pieno del buio di Dio. Dio è pieno di buio, e quando qualcuno lo prova, deve calarsi e ululare in quel baratro>>. Ancora l’orrido, l’abisso, il baratro a segnare e marcare la distanza incommensurabile che ci separa da Dio. Profondo fondo della nostra anima che geme con ululi che sono l’eco della lacerazione profonda dell’Origine. Fondo da cui non sortisce fuori una voce mielosa e compassionevole, ma solo l’eco di un’angoscia profonda che permea chiunque sia immerso e sommerso in e dalla vita. Fondo in cui anche la voce è solo un labile fiato che si confonde con l’urlio quotidiano che solo la nostra brama di celare all’anima il patimento ottunde e affievolisce. Ma è ancora l’imperiosa ammonizione che sortisce fuori dal Libro dei Libri ad avvertirci dell’incommensurabilità e ineffabilità del Creatore <<Non possiamo raggiungere l’Onnipotente>>. Di questo già era edotto e già ci faceva partecipi ‘l’Oscuro’ greco <<i confini dell’anima, per quanto lontano tu vada, non li scoprirai, neanche se percorri tutte le vie: così abissalmente si dispiega>>. L’anima: anche lui pare riferirsi all’anima apofatica; l’anima: lo stesso luogo che ospita Dio <<Che il Regno di Dio è dentro di voi>>, racconta Luca; <<Voi siete il tempio di Dio>>, concorda Paolo. Un’anima che geme e ulula, urla ed emette grida, ci ricorda Giobbe. Un’anima che non incontra il Logos di Dio che spieghi e che risponda alle sue invocazioni, alle sue proteste, alla sua sete di giustizia. La teofania, in Giobbe, non è esplicativa; Dio nella sua possente e reboante manifestazione che chiude il dramma non spiega, non risponde… sovverte le parti, calando l’accusatore, Giobbe, colui che chiama in giudizio il Numinoso, l’accusato, nelle scomode vesti dell’imputato <<[2]Chi è costui che oscura il consiglio /con parole insipienti? /[3]Cingiti i fianchi come un prode, /io t'interrogherò e tu mi istruirai. /[4]Dov'eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra? /Dillo, se hai tanta intelligenza!>>. Le parole dell’uomo, della Creatura, sono afasia, non esprimono nulla, egli –Giobbe – si sperde, prostrato dalla possanza della teofania – direi anche protervia -. Di ciò è testimone anche Maurizio Ciampa nel suo insuperato saggio, confronto e raccolta di opinioni sul silenzio di Dio, così come desumibile da un’attenta lettura esegetica del Libro di Giobbe: “Domande a Giobbe”: <<Dio non esce dal silenzio per giustificarsi di fronte a Giobbe. Né il suo dolore, né la sua angoscia, né il suo lamento, né il suo grido, vengono raccolti. Nessun elemento della sua vicenda trova spiegazione. Dio si manifesta solo per mostrare le “sue vie”, esibendo la potenza dell’atto creatore, la vastità del suo disegno [inesplicabile, insondabile… commento mio] e l’ordine che intimamente lo compenetra. Il Dio rimasto fino a questo punto silenzioso e nascosto, ora non tace la sua potenza. Il Dio appartato, irraggiungibile, appena emerso dal silenzio, a sua volta, lo segna a dito:”il censore vuole discutere con l’Onnipotente? Risponda chi sta criticando Dio.>> <<Dov’è il buon Dio? Dov’è?… Dov’è dunque Dio?>>, si domanda Simone Wiesel, facendo da eco al salmo 44 <<[18]Tutto questo ci è accaduto /e non ti avevamo dimenticato,/non avevamo tradito la tua alleanza. / [19]Non si era volto indietro il nostro cuore, /i nostri passi non avevano lasciato il tuo sentiero; / [20]ma tu ci hai abbattuti in un luogo di sciacalli /e ci hai avvolti di ombre tenebrose. /[21]Se avessimo dimenticato il nome del nostro Dio /e teso le mani verso un dio straniero, /[22]forse che Dio non lo avrebbe scoperto, /lui che conosce i segreti del cuore? /[23]Per te ogni giorno siamo messi a morte, /stimati come pecore da macello. /[24]Svègliati, perché dormi, Signore? /Dèstati, non ci respingere per sempre. /[25]Perché nascondi il tuo volto, /dimentichi la nostra miseria e oppressione? /[26]Poiché siamo prostrati nella polvere, /il nostro corpo è steso a terra. /Sorgi, vieni in nostro aiuto; /[27]salvaci per la tua misericordia.>>. Questo filo, il filo dell’ordito che deve instillare in noi almeno il dubbio di un’impossibilità di colloquio con l’ineffabile, riverbera la propria luce (OMBRA) nel dispiegarsi della storia e della cultura dell’Occidente. Ora, direi io, definire da poco queste parole e sentire è veramente cosa da poco, anche perché a smentire tale preconcetta obnubilazione della mente e dell’anima – qualora ve ne fosse davvero una, io attendo di scoprirla, almeno quella a cui spesso impropriamente ci si riferisce qui dentro – basterebbe una veloce lettura o rilettura del sentimento che permeava un mistico iberico del XVI° secolo: tale Giovanni della Croce. Questa ‘visione’ (apofatica) – e definirla tale è già un’aporia, per una concezione che nega la visione di Dio – è, infatti, ben presente oltre che nell’esperienza mistica cristiana del XIV° secolo (mistica Tedesca), anche in quella di Giovanni della Croce - e ciò forse potrebbe sorprendere qualche mistico della domenica o qualche cultore dell’illuminazione a buon mercato -. Io mi sono arrogato la libertà di condirla con mie personalissime e particolarissime espressioni e locuzioni, peraltro ben sostenute dal sentire di tantissima altra gente – qui starebbe il libero arbitrio dell’uomo, altra invenzione divina, nessuno ci sputi sopra -. <<Fai benissimo, o anima, a cercarlo sempre nell’occulto, perché esalti molto Dio e ti avvicini molto a lui, se lo stimi più alto e più profondo di tutto quanto tu possa raggiungere. Quindi non badare né poco né molto a ciò che le tue facoltà possono comprendere. Voglio dire, non ti accontentare mai di ciò che capirai di Dio, ma di ciò che di lui non capirai; e non indugiare mai ad amare e godere ciò che comprendi o senti di Dio, ama invece e godi quanto di lui non puoi comprendere o sentire; questo, come abbiamo detto, significa cercarlo nella fede. Dio è inaccessibile e nascosto, sebbene ti possa sembrare di trovarlo e sentirlo e di capirlo; dovrai perciò ritenerlo sempre nascosto, e come nascosto dovrai servirlo di nascosto.>> Questo è parte del commento di Giovanni della Croce ad una strofe del meraviglioso Cantico Spirituale, la strofe è la I^ Dov'è che ti celasti, Amato, che al lamento mi lasciasti? Come il cervo fuggisti E mi avevi ferito. Gridando t'inseguii, ma eri partito |
25-01-2006, 09.08.02 | #20 |
Ospite abituale
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<<Ma al di là della piaga che mi infliggono queste creature nelle mille grazie che mi fanno capire di te, c’è non so che, qualcosa che si sente resta ancora da dire, qualcosa che si riconosce ancora inespresso; è una sublime impronta di Dio che si svela all’anima e nello stesso tempo resta da rintracciare; è un’altissima comprensione di Dio che non sappiamo dire – quindi la chiama un non so che -; e se quello che capisco mi piaga e mi ferisce d’amore, quello che non riesco a comprendere, e che suscita in me un sentimento così alto, mi uccide. Talvolta ciò avviene nelle anime ormai avviate verso Dio: Dio le favorisce concedendo loro una sublime conoscenza in quanto ascoltano o vedono o percepiscono, a volte anche senza l’una o l’altra percezione; una conoscenza in cui possono comprendere o sentire l’altezza di Dio e la sua grandezza; in tale situazione l’anima ha una sensazione così eccelsa di Dio, da riconoscere chiaramente che le resta tutto da comprendere; e questo capire che la divinità è così immensa da non poterla afferrare per intero, è una forma di conoscenza molto elevata.
Così uno dei grandi favori transitori concessi da Dio all’anima in questa vita è la chiara comprensione unita all’alto sentimento di Dio, tali da capire con chiarezza che non lo si può comprendere né sentire per intero; e questo è in una certa misura simile alla visione di Dio in cielo, dove coloro che lo conoscono meglio capiscono più distintamente di quelli che più lo vedono ciò che resta loro da vedere>>. E’ sempre Giovanni che ci sussurra nell’orecchio queste belle parole…. Parte del commento alla VII^ strofe. E tutti quanti vagano Di te dicono mille gentilezze, E tutti più mi piagano, Mentre muoio mi lasciano Un non so che vanno balbettando. Che altro aggiungere se non limitarmi a rispondere al gradito saluto di Freedom, evitando di addentrarmi sul concetto di bellezza dell’anima – la mia poi la sto ancora cercando… speleologia surreale -. Bye P.S.: Sunday, mi prendo un attimo di tempo per leggere attentamente… ciao |