Ospite abituale
Data registrazione: 15-07-2003
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La procedura del processo era semplice: l'accusato veniva interrogato nel palazzo vescovile o nel monastero da una commissione composta da inquisitore, notaio e due esperti in diritto, uno dei quali poteva essere anche laico. L'inquisitore sedeva su un seggio molto più alto e spesso scendeva e si avvicinava all'accusato alternando frasi in latino e in volgare. L'argomento veniva preso alla larga: prima si parlava della vita, del lavoro, della famiglia, poi si arrivava al tema dell'accusa. La tecnica psicologica era piuttosto raffinata: si cercava di far cadere in contraddizione l'interrogato e di spingerlo alla confessione rapidamente. Un difensore d'ufficio (di solito un avvocato laico) assisteva l'imputato. Spesso l'inquisitore era così esperto da vantarsi di saper riconoscere un eretico anche solo dall'abbigliamento, dalla postura e dallo sguardo. Per i più ostinati però si ricorreva al carcere duro o alla tortura. Durante il periodo medievale fu poco usata, e iniziò a istituzionalizzarsi all'inizio del XIV secolo, con l'affermarsi del diritto romano. La si applicava dietro approvazione del vescovo, quando vi erano contraddizioni sulle confessioni dell'imputato. I manuali raccomandavano che venisse fatta in maniera limitata, senza menomare la vittima in modo permanente; un medico assisteva alle sessioni di tortura per valutare che l'imputato fosse in grado di sopportarle. Nel 1253 l'accusato spagnolo Bernardo Borrel fu messo in libertà provvisoria per la durata di 15 giorni, perché ammalato, prima di riprendere gli interrogatori.
Anziani, bambini, donne incinte e malati non potevano essere torturati. Molti evitarono i supplizi simulando attacchi di mal di testa o sciatica. Come fece il domenicano Tommaso Campanella, inquisito a Roma nel 1599: finse a varie riprese di essere pazzo o di avere impellenti bisogni, per rinviare più volte la tortura.
Nelle indicazioni dei manuali, nessun tipo di tortura doveva durare più di 10 minuti, e se l'imputato non si decideva a confessare, lo si rilasciava libero e innocente. Per formulare la sentenza l'inquisitore doveva consultare una giuria di esperti di diritto che, avendo assistito al processo, avendo ascoltato la difesa, e visti gli atti processuali, davano un parere e proponevano il tipo di pena. E di solito venivano ascoltati. La sentenza quindi veniva letta pubblicamente.
A quel punto il condannato, se nel frattempo non era fuggito come succedeva spesso, doveva innanzitutto chiedere perdono della propria colpa: quindi abiurava, cioè ammetteva la sua colpa, davanti a tutti nella cattedrale e chiedeva di rientrare nella fede cattolica. In portoghese si chiamava autos da fé (atto di fede), ed è illustrato in molti dipinti dell'epoca. L'autos da fé, con la sua teatrale scenografia, serviva a impressionare la gente: i condannati vestivano sai neri privi di cappuccio e alti copricapi, spesso a forma di cono, che dovevano sottolineare la loro colpa (efficaci in questo al punto da essere ripresi, nell'Ottocento, per additare al pubblico disprezzo gli studenti svogliati). A quel punto, in un atmosfera grave e terrorizzante, veniva letta la pena: nei casi più lievi bastava il pagamento di un'ammenda in denaro, versata come elemosina, o vestire un saio con cucite sopra delle croci, come monito alla popolazione. Un'alternativa poteva essere anche l'obbligo di un pellegrinaggio in Terrasanta.
Spesso però si passava alle maniere forti: il carcere a vita, per esempio, è una pena introdotta proprio dall'Inquisizione, anche se la maggior parte delle volte non veniva scontata, e il prigioniero veniva liberato per motivi di salute, famigliari oppure di buona condotta. Come successe a Ludovico Domenichi, traduttore italiano, nel XVI secolo, di un libro di Calvino, che fu condannato all'esilio perpetuo dall'Inquisizione romana, ma di fatto si fece solamente un anno di ritiro in convento, con la libertà di entrare e uscire senza limitazioni!
Infine il famigerato rogo, pena riservata solamente agli eretici RECIDIVI non pentiti. In questo caso l'Inquisizione consegnava i condannati al potere laico che si incaricava di eseguire la sentenza.
L'eresia protratta, infatti, turbava anche l'ordine statale e nei codici (di diritto romano, su cui si basava la giustizia medievale) veniva classificata tra i delitti di lesa maestà e come tale punibile con il rogo. Il reato era ritenuto così grave che perfino i sovrani medievali considerati più "moderni" e tolleranti come Enrico II d'Inghilterra, Federico I e II di Germania, furono feroci persecutori d'eretici, anticipando in questo anche i tribunali inquisitoriali. Anzi, fu proprio un sovrano, Federico II di Svevia, l'inventore del rogo per gli eretici nella prima metà del XIII secolo.
Quante furono le vittime dell'Inquisizione? Non è possibile avere cifre assolute, ma vediamo qualche esempio: nella Francia meridionale tra 1308 e 1323 l'inquisitore pronunciò 930 sentenze di cui 139 assoluzioni, 132 pene che prevedevano la cucitura di croci rosse sulle vesti, 152 pellegrinaggi in Terrasanta, 307 imprigionamenti, 42 consegne al potere secolare, 2 esposti sulla scala per un mese, 1 esilio, 22 distruzioni di case di eretici.
In Spagna invece, nell'arco di 200 anni (dal 1500 al 1700) bel 44 mila persone vennero processate: di queste, 820 (cioè meno del 2 %!) furono condannate alla pena capitale. L'Inquisizione romana tra il 1542 e il 1761 mandò al rogo 97 persone. Cifre impressionanti? Niente al confronto con quelle prodotte nel nostro secolo da un'altra persecuzione per reati d'opinione: quella di Stalin in Unione Sovietica. Tra il 1936 e il 1938 (Due anni!!!) mandò a morte più di tre milioni di oppositori!
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