Viviamo in un universo di in cui sensibilità, spontaneità e sincerità lasciano sempre più posto al pregiudizio, all'interesse, alla competitività. Quelli che un tempo erano valori nobilitanti per l'uomo lasciano ormai troppo spazio a nuovi (falsi) valori, e oggi concetti come quello di "ricchezza" assumono soltanto concetti materiali. Oggi ciò che conta di più è competere, senza mezze misure, in una concorrenza ai limiti, a volte, della dignità dell'individuo (pensiamo, ad esempio, a quanto accade spesso nel mondo del lavoro, agli inseguimenti delle carriere); prevale un gusto per l'estetica, dunque per l'apparire. Col passare del tempo, forse senza rendercene conto, reprimiamo sempre più quegli aliti di vita che fanno di noi qualcosa di più di semplici esseri pensanti, e anche i sentimenti perdono via via colore. Tendiamo a vestire panni che spesso non ci appartengono, il tutto per apparire agli occhi degli altri come pensiamo essi vorrebbero vederci. Apparire, dunque. E' quasi un imperativo, nella nostra società. Tutti recitiamo una parte. Siamo degli attori, alla fine...
"Essere" non ha più senso, al di fuori della nostra personalissima intimità, al di fuori di quell'universo di silenzio che ci circonda quando siamo soli e cui nessun altro può accedere. "Essere", "pienamente", realmente, può avere un senso soltanto nella solitudine. "Essere" e "solitudine": l'unico binomio realmente possibile. E non è detto che abbia senso sempre: spesso tendiamo a negare la realtà che ci circonda, a reprimere pensieri, sogni, ricordi, che ci fanno soffrire, illudendo e ingannando noi stessi molto più di quanto riusciremmo con gli altri.
E se non riusciamo ad essere spontanei, istintivi e sinceri con noi stessi, come potremmo ambire o pretendere di "essere noi stessi" con gli altri?
Anche vivere per me è una parola sempre più vuota, se dunque la vita ci impone di apparire. Per come intendo io la vita, più spesso di quanto immaginiamo "esistiamo" soltanto, e nulla più.
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