Citazione:
Vorrei ragionare con voi....
Sono l'ultimo arrivato in famiglia, (3 sorelle piu' grandi di 10 anni circa)...mia hanno sempre trattato come un moccioso cretino, dandomi delle false libertà, false responsabilità, controllandomi su ogni mio respiro e giudicando ogni mio possibile comportamento...
Non sento il germe dell'uomo che dovrebbe divampare..e non posso fare altro che associare una colpa alla mia famiglia, che mi tiene ancora legato..
Ho paura dei loro giudizi, del loro modo di considerarmi, pensate che aspetto con timore-ansia quando chiudono-aprono una porta, quando aprono bocca, i loro movimenti...è assurdo...
Come faccio a "sviluppare" autostima e sicurezza se vengo trattato come un dodicenne che non è mai uscito di casa?? (brabale)
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Ciao a te. Preciso da subito che non sono uno psicologo e, quindi, tutto quello che esprimerò, riferendomi al tuo messaggio, è da considerarsi come l’opinione di un uomo comune.
Come tale vorrei che la leggessi, nella consapevolezza che ciò che commento è solo ciò che leggo - non ciò che si presuppone possa esserci “dietro” le parole – e, quindi, non commento né la tua persona, né la tua famiglia. In ogni caso le mie sono opinioni, tienilo a mente.
Che le dinamiche familiari siano centrali nello sviluppo psico-affettivo dell’individuo e nella sua maturazione emotiva (la c.d. “autostima” per dirla in termini generali e sintetici) è cosa oltremodo risaputa e, spesso, sin troppo evocata per giustificare una vasta gamma di stati di disagio giovanili, che vanno dalle difficoltà relazionali agli atteggiamenti ultratrasgressivi.
Quello che spesso non viene detto a completamento di questa teoria è che le difficoltà maggiori nascono in ambiti familiari nei quali la comunicazione tra i membri è, in qualche modo, distorta, incompleta o, in taluni rari casi, per fortuna, destrutturata e destrutturante.
Ci si limita, in genere, ad invocare la “necessità di più amore”, di maggiore affettività in astratto, ignorando che è anche e soprattutto il modo di esprimere l’affettività – il modo di comunicarla - che può avere, sì, valenza positiva ma, in altri casi, del tutto negativa. Dire “ti voglio bene” ossessivamente a qualcuno mentre si lavano i piatti non è esprimere affetto; è recitare un rituale psicologistico imparato dai rotocalchi e dai film americani. Come tale, ossia svuotato di senso effettivo e di piena autenticità, quel “ti voglio bene” sarà recepito, anche se la persona che lo esprime è sinceramente affezionata al destinatario delle sue attenzioni.
La capacità comunicativa, del resto, non è cosa facile perché essa coincide con quella corretta sintonia tra stato d’animo (stato emotivo) ed espressione personale che, comunicata in forme autenticamente sentite nel modo appropriato alla situazione, qualifica, a mio modo di vedere, la maggiore o minore “maturità” dell’individuo.
Ciò premesso, se a tutto questo si aggiunge una deformazione comunicativa della nostra cultura, quale quella che investe il mondo maschile in generale (a mio giudizio, bada bene), per la quale appare lecito e normale “giudicare” un ragazzo (un uomo) su parametri femminili ritenuti eticamente superiori (fenomeno del male-bashing), la questione si complica ancora di più.
Detto questo, in termini generali, non entro nel merito della tua situazione ma mi limito ad osservare che, anche laddove ricorressero i presupposti che ho sinteticamente descritto (cosa niente affatto scontata), essi non dovrebbero portarti a colpevolizzare le tue sorelle (di loro soprattutto parli) quanto, piuttosto, a comprenderne la possibile immaturità, che è un difetto tipicamente umano.
Il mio augurio, in conclusione, è prima di tutto quello di non averti confuso le idee e, in secondo luogo, che tu riesca a coltivare la tua maturità, invece, in modo sano, saldo e comprensivo.
Ti saluto.