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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 21-06-2006, 03.07.04   #11
Weyl
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Data registrazione: 23-02-2005
Messaggi: 728
Cara Flavia

Citazione:
Messaggio originale inviato da Flaviacp
Beh credo che l'idea della natura Divina sia quanto di più enigmatico si possa concepire essendone in discussione la stessa esistenza.
Indubbiamente pensare un Dio Creatore come sostanza quieta, completa e perfetta pone la problematica questione di spiegare l'esistenza umana.
Anzitutto perchè un'Ente perfetto ed infinito avrebbe dovuto creare gli uomini?
L'idea stessa di Creazione sembra implicare un carattere di mancanza del creatore stesso...
Inoltre perchè il Sommo Essere avrebbe dovuto creare degli esseri tanto incommensurabilmente "piccoli" e finiti? Quasi degli aborti di divinità destinati alla sofferenza ed all'incompiutezza.
Destinati ,citando le tue parole, a vedere la cima verdeggiante, oggetto del proprio desiderio, senza possedere le facoltà necessarie a raggiungerla...
Sembrerebbe quasi un atto di sadismo: mostrare un bicchiere colmo d'acqua all'assetato impedendogli, però, di abbeverarsi...
Devo ammettere di non aver ancora trovato una risposta soddisfacente a questo interrogativo...

Tuttavia mi sembra di capire che la tua idea di Dio sia l'idea di una Sostanza talmente perfetta da comprendere in sè tutto ed il contrario di tutto...
Questa è un'immagine a dir poco affascinante.
Comprenderebbe quindi stasi e movimento, quiete ed inquietudine, felicità e disperazione, bene e male.
In questo caso gli uomini sarebbero il frutto di un parto, l'estrinsecazione della fusione dialettica tra i diversi poli contenuti nella Sostanza prima.
L'esplicazione di una forza, generata dal continuo attrito tra gli opposti, incontenibile al punto da generare naturalmente, non per atto libero della volontà divina.
Sarebbe appunto la generazione dell'uomo più che la sua creazione.
...questa teoria sembra piacermi...e sembra giustificare l'esistenza dell'uomo e le modalità attraverso cui questa si dipana.

Cosa ne dici?
grazie del prezioso spunto di riflessione!!


un penny valgono soltanto i tuoi pensieri...
Come quelli che la filosofia, nuda e povera, ispira.

Non è vero: non è la miseria che ispira la riflessione.
"Misero è colui che brama aver di più" (Seneca).

Hai colto un profilo ineludibile e sostanziale dell'esistenza umana: la sua intrinseca incompiutezza.
Essa è nutrita, in realtà, di un'esuberanza sostanziale, la quale si esplica, da un lato, nell'eccesso "biologico" del suo sostentarsi (noi abbiamo due reni, mentre ai nostri bisogni fisiologici ne basta la metà di uno, e centocinquanta miliardi di neuroni, mentre, per aderire al "Manifesto" ne bastano poche decine...).
Dall'altro, sussiste una più "inquietante" esuberanza esistenziale.
Essa raccoglie in una indistinta e vaga "unità" non soltanto le molteplici "intenzioni" in cui si articolano le attribuzioni di "senso" che investono gli enti "reificati" del nostro orientarci nel mondo attraverso il pensiero.
Ma anche, e questo è asai più problematico, le perturbazioni del "senso" degli enti del mondo, le quali caratterizzano la nostra possibilità di emanciparci, progettualmente, dal nostro "essere gettati nel mondo", facendoci liberi artefici del nostro stesso "pregettarci".

Sciocco sarebbe credere in un Dio artefice dei semplici mattoni, ed altrettanto vano affidarsi ad un Dio architetto, depositario dei "piani" delle nostre stesse esistenze.
Il Dio in cui credo è un Dio irrintracciabile, paradossale come nella battuta in calce.
Un Dio che ci determina, al di là dei nostri limiti concettuali, ovvi e finiti, come "enti" aperti alla libertà di autoprescriverci il nostro intento di dare corpo alla vita.
E il "corpo" è il senso, ma, ti prego, intendi la parola come "Stimmung", piuttosto che "Sinne": atmosfera di significato, non decrittazione.
Perchè il mondo non reca alcuna etichetta.
Weyl is offline  
Vecchio 21-06-2006, 10.14.30   #12
visechi
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Messaggi: 1,150
Ciao Van, interessanti le tue osservazioni, che potrebbero anche essere più coerenti alla realtà di quelle espresse da me, ma in queste, in qualche aspetto di esse, colgo qualcosa che stride e che mi lascia perplesso.

Affermi << che il movimento e la crescita siano attributi intrinseci nella vita.>>, poi prosegui, a parer mio con sufficiente coerenza, asserendo che << L’uomo non può stare fermo perché il movimento e la ricerca sono la sua natura.>> . Così argomentando definisci un parallelismo fra i due attori principali, li tieni coesi in un amalgama ove ciascuno dei due è significato dall’altro. Credo di poter interpretare che tu tenda ad affermare che l’uomo, essendo parte della Natura, non può mancare del medesimo attributo intrinseco che ascrivi alla Natura, per cui possiede anch’esso gli stessi germi del movimento rilevati in essa. Con questo parallelismo rendi un’immagine armoniosa del loro interagire.
Fin qui – sebbene non condivida questo tuo punto di vista – non trovo alcunché da obbiettare, trattandosi, infatti, di un’ottica sufficientemente verosimile e quindi anche credibile, seppur aliena dal mio modo di vedere e sentire.
Ciò che non riesco bene a comprendere è il passaggio successivo, allorché, poste le premesse, deduci da queste che << Ergo la vita è già perfetta in se, col suo alternarsi di bene e di male, col suo gioco di chiaroscuri, di tenebre ed ombre sullo sfondo della luce, l’urlo che rompe il silenzio immoto… tutto è, (era) già perfetto.>> . Al di là della bella immagine che delinei, non riesco a comprendere il perché, assunte per vere le premesse,la Vita sia da considerare <<già perfetta>>. Non riesco proprio a vedere alcunché la possa rendere logicamente conseguente rispetto alle considerazioni che la precedono. Non credo neppure tu voglia affermare che sia il movimento l’attributo precipuo della perfezione. Ma se così non è, perché è <<già perfetta>>, avendo tu evidenziato solo questa sua innegabile caratteristica?
Non comprendo neppure il prosieguo del tuo intervento: << Se il motore del movimento e dell’evoluzione è intrinseco nella vita, nella natura, la miseria che ci deriva dal confronto con un modello ideale, (e quindi ipotetico), di perfezione, non è un qualche cosa di meglio bensì risulta essere l’elemento dialogico che ci stacca dall’unità della vita, risulta cioè essere il male stesso.>>. Il concetto introdotto da questa proposizione sembra tenda a negare la nozione stessa di evoluzione, ossia del progressivo miglioramento che l’uomo può apportare alla propria condizione esistenziale facendo appunto leva sulla possibilità di confronto fra quel che si è e quel che potenzialmente si potrebbe essere. E’ la connessione con il flusso vivo della Vita che induce questo rapporto dialogico, da cui emergono la miseria e la nostra limitatezza e finitudine. Ma è un evento o circostanza ineluttabile, imprescindibile: il raffronto fra l’intrinseca debolezza umana con la forza maestosa della Natura determina proprio questa considerazione. Tu vedi l’uomo intento in un dialogo con la Natura, un rapporto simbiotico ove l’uno esalta le proprie caratteristiche attingendo dalle manifestazioni della Natura. Io, viceversa, percepisco l’esistenza di una continua competizione fra forze contrapposte, che non sfocia in un abbraccio serafico. Il dialogo fra vivente e Vita, che sono terzi l’uno rispetto all’altra, è un continuo ed incessante contendersi opportunità e possibilità, non un porgersi vicendevolmente una mano ricolma di caritatevole amore. La Vita, la Natura non conoscono compassione, commiserazione e carità. Esse svolgono l’unico ruolo che sono chiamate a svolgere, ossia non possono fare a meno di scorrere per il verso che loro stesse tracciano nel loro fluire (ciclico, direbbero i greci, lineare i cristiani). Ed è così che noi non siamo gentilmente introdotti al centro di una cavalleresca danza, ove l’abbraccio con la Vita sia affine all’abbraccio con una gentile e graziosa fanciulla; si tratta piuttosto di un vorticare impetuoso che spesso, nel suo roteare, s’impossessa del nostro equilibrio e del nostro senso d’orientamento. E’ per questo motivo che si vagola incerti: erranti senza meta, abitatori d’inospitali lidi che fanno di ciascuno di noi un apolide senza radici. E’ il senso e il significato dell’esistenza che radica l’uomo, ma l’inconsistenza del nostro essere, l’insignificanza del nostro essere al mondo, fanno sì che ciascuno di noi sia un ospite transeunte privo di radici e di senso, perché la Vita stessa è priva di senso. Le uniche radici che affondiamo ed insinuiamo entro un friabile terreno, sono le vane certezze che ci costruiamo per recar sollievo e refrigerio ad un animo in subbuglio, assetato ed arso dalla brama di conoscere, ed intimamente atterrito dall’inconscia percezione di quel buco nero che tutti noi attende. Noi viviamo per poter morire, perché Vita e Morte hanno stretto un sodalizio che prevede la celebrazione della loro ineffabile gloria attraverso la consumazione del loro naturale pasto. Il fastigio della loro gloria si celebra, perpetuandosi, nel momento in cui ciascun vivente esala l’ ultimo sospiro, che vita e morte rubano a questi per donarlo alla nuova vita che sulla carcassa del morente affonda le proprie periture e transeunti radici.
La Vita non discrimina <<il timido coniglio dal goffo zampettare>>, ed accoglie in sé tanto l’eroico Icaro nell’atto vano di stendere al sole le proprie inique ali, quanto <<il tacchino che cerca di volare>>.

La Vita prescinde dalle nostre miserie, trascendendole, perché anche queste sono cibo che la vivifica e la rende perpetua.
Citazione:
Tuttavia mi sembra di capire che la tua idea di Dio sia l'idea di una Sostanza talmente perfetta da comprendere in sè tutto ed il contrario di tutto...
Questa è un'immagine a dir poco affascinante.
Comprenderebbe quindi stasi e movimento, quiete ed inquietudine, felicità e disperazione, bene e male.

Se Dio è infinito, ciò significa che il pensiero di questa illimitatezza non può sostenere alcun limite, in quanto ciò rappresenterebbe un’antinomia insanabile. Dio è così essere illimitato, per cui Egli dovrà pur contenere ogni possibile possibilità immaginabile dalla nostra finitezza, ma ancor più anche ciò che trascende le nostre finite e limitate capacità speculative. Egli è così essere e al tempo stesso non-essere, o, in altre parole, Ni-Ente (cioè non Ente), come lo definiva un mistico medioevale. Ecco perché ritengo che Dio sia Vita e Morte, dolore e gioia, amore e odio. Questa dilaniante dicotomia, che in Lui tale non è e che è essenza del Deus Absconditus di Giobbe, è rinvenibile nella Creazione, e in maggior misura, nella sua creatura più bella, ossia l’uomo. Questo strano e complesso amalgama di particolarissime e contrastanti pulsioni che collidono spesso con un altro dei suoi costituenti più che mai stupefacenti, ossia la ratio, pur nella sua finitezza, è l’immagine del proprio creatore. L’uomo vive in sé il dramma originario del creatore, e la Natura, la Creazione tutta avvertono, come un sospiro, questa lacerante condizione, che la storia - cioè il dipanarsi degli eventi e il significarsi dello scorrere del Tempo entro una linearità che rompe e spezza la manifestazione ciclica delle forze della Natura – non può redimere. Gesù ha lasciato all’umanità una promessa di redenzione, che è la composizione dell’eterna disputa fra Vita e Morte, con la vittoria definitiva dell’una sull’altra. Questa promessa, che si compirà nell’ultimo giorno, ha ridisegnato il movimento del tempo e il suo manifestarsi, dispiegandolo su un piano orizzontale, determinando così l’insorgere della speranza escatologica che è orizzonte ed apertura di senso esistenziale. Quell’esuberanza esistenziale ben colta da Weyl è il prodotto di questo voler spiccar la vista oltre la siepe che tien discoste Vita e Morte, che ne delimita i campi, che separa essere dal non–essere, il nulla dal contingente. E’ un suo effetto, ma paradossalmente ne è anche una causa, in forza della quale esuberanza, l’uomo ricrea in sé immagini che proietta in un futuro di là da venire e, quindi, anche da conseguire. Da lì provengono le istanze morali che informano la nostra esistenza, pietra angolare su cui basiamo e poggiamo il nostro essere nel mondo: il nostro agire, il nostro pensiero, la nostra incredibile ed affascinante architettura culturale. Ma su tutto ciò si erge l’ammonizione di un saggio che ci esorta a considerare che in fin dei conti <tutto è vanità>.
visechi is offline  
Vecchio 21-06-2006, 13.13.57   #13
VanLag
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Citazione:
Messaggio originale inviato da visechi
Ciao Van,

Ave a te vecchio saggio..... Soprattutto vecchio..... No dai scherzo.... soprattutto saggio....

L’ERGO è una mia imperfezione di esposizione….. nel senso che l’affermazione che la vita è perfetta non è consequenziale a quanto esprimo prima. La giusta esposizione doveva essere: “Facciamo finta” che il movimento e la crescita siano attributi intrinseci nella vita e “facciamo finta” che la vita sia perfetta nella sua completezza.

Il resto del mio discorso si rifà alla presunta perfezione della natura che io contrappongo all’ideale di perfezione forgiato dall’uomo. In quella presunta perfezione i tempi dello sviluppo sono intrinseci e non vi è necessità della miseria per crescere. Detto in metafora, una pianta è nata per dare frutti ed a tempo e luogo darà i suoi frutti. Vessare il fico dicendogli che il ciliegio è più bravo di lui perché ha già fruttificato può sembrare una bella cosa nell’ottica umana che ha come metro di misura l’u-su-frutto, ma può essere una maledizione in un’ottica dove il frutto è incidentale mentre il vivere è il fine.

Per altro nessuno di noi, (almeno credo), conosce il fine dell’evoluzione che per quanto ne sappiamo potrebbe essere di tutt’altra forma e colore di quello che pensiamo, al punto che per l’intelletto umano potrebbe non essere riconosciuto come un fine, con la conseguenza che l’unico dato certo che ci rimarrebbe è il movimento.

Neppure contrapporrei la finitudine umana con la completezza della natura perché quella finitudine può essere una volta ancora determinata dal modello. Certamente siamo una goccia nell’oceano, ma come goccia siamo anche oceano. Ancora una volta è il modello di goccia perfetta che esaspera la nostra identificazione come piccolo ente separato, ma la nostra esseità è la stessa dell’oceano.
Siamo oceano non perché la nostra natura è identica ed uguale a quella dell’oceano, ma perché l’oceano stesso non è altro che infinite gocce.

Non so se ti ho risposto…. Mi sa che ho fatto un po’ rebelotto come sempre…. Ma al momento non riesco a fare di meglio…..

VanLag is offline  
Vecchio 21-06-2006, 13.58.26   #14
S.B.
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No, non disapprovo, anzi concordo.
Un blocco totale del movimento è impossibile, concordo. Forse, diciamo, ci si può spingere molto in là, verso uno stato di quiete, almeno apparente, come alcune tecniche orientali che tendono a far confluire tutti i desideri in uno solo, potrebbe essere quello di conoscenza, dando l'impressione della quiete di queste persone, ma è una quiete solo apparente, in realtà un desiderio rimarrà sempre, anche se fosse il desiderio di non avere desideri...

S.B. is offline  
Vecchio 21-06-2006, 15.32.54   #15
epicurus
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Re: la miseria umana come ricchezza

Citazione:
Messaggio originale inviato da Flaviacp
La miseria dell’uomo ne costituisce la più florida fonte di ricchezza.
L’uomo è , secondo i più eminenti filoni di pensiero, un ente imperfetto,finito, costitutivamente incompiuto in quanto creato e non autopoietico;
[...]
Il carattere dell’uomo, in quanto ente finito, è quello della carenza: l’essere umano, per quanto potrà affannarsi nella ricerca di qualcosa, non riuscirà mai, per natura, a giungere a compimento.

di tutto il lungo intervento di flaviacp, voglio concentrarmi su questa proposizione: l'uomo è imperfetto.

che significa affermare che l'uomo è imperfetto? ok, l'uomo nasce e muore, ma è questo che ci legittima a etichettarci come 'imperfetti'? è una contraddizione dire "quel tizio era perfetto, ma ora è morto"? no, perchè il concetto di pefezione è ben distinto dal fatto che noi viviamo per tempo finito o infinito. anche l'idea che per essere perfetti dovremo esserci autocreati, lascia il tempo che trova. sembra infatti ancora coerente poter dire "il figlio di mario e lucia, era proprio perfetto" oppure "oggi ho creato una sfera perfetta".

"ma perfetto secondo quali criteri?" ci si potrebbe chiedere. ed in effetti la nostra idea sommaria di perfezione (cioè l'uso che soggiace nelle nostre pratiche linguistiche ordinaria di tale termine) è più o meno questa: prendiamo una proprietà di un oggetto (o di un evento, o di una situazione) e un criterio, e se tale oggetto soddisfa al massimo grado tale criterio, allora tale oggetto è perfetto (secondo tale criterio).

quindi il concetto di 'perfezione' è un concetto relazionale, cioè che è sempre e comunque relativo ai nostri criteri/interessi, proprio come il concetto di 'più alto di' è relativo sempre e comunque ad una lunghezza assunta momentaneamente come standard. così il concetto di 'perfezione' è utilizzato per esprimere l'appropriatezza rispetto ad una funzione. esempio: "questo cacciavite è perfetto per sistemare le cose".

un'altro uso, più filosofico, è quello che vuole che la perfezione sia un attributo di un ente al quale non manca nulla. quindi se io dicessi "io non sono un pappagallo", mi si potrebbe anche dire che sono imperfetto, perchè manco della proprietà della pappagallità.

veniamo al primo uso. essendo l'uso di pefezione relativizzato ai nostri interessi cognitivi del momento, dire che l'uomo non è perfetto, senza specificare secondo quali parametri, diventa un non-senso. ed è quindi banale osservare che possiamo dire:
"quel tizio è l'uomo perfetto per risolvere questo problema"; oppure "gli esseri umani sono perfetti" avendo come interesse cognitivo momentaneo la capacità da parte dell'uomo di padroneggiare un linguaggio.

veniamo al secondo uso. ma che razza di uomo sarebbe un uomo al quale non manca nulla? e, soprattutto, cosa stiamo dicendo che ad x non manca nulla? è sensato parlare in quel modo? il nostro linguaggio è estremamente flessibile e creativo, e si inventano sempre nuove parole: vogliamo credere che v'è un ente che soddisfa ogni possibile concetto? ma ha senso parlare di ogni possibile concetto creabile? mah... il problema è che si pensano le proprietà come cose metafisicamente e ontologicamente date e fisse una volta per tutte, mentre in realtà il linguaggio è in continua modificazione, e nascono sempre nuove proprieta.
l'altro problema, spinoso, è la possibilità di ammettere un ente che esiste e che anche non esiste (oltre a tutte le altre contraddizioni): è ovvio che dire che x esiste e non esiste, al contempo, senza spiegare null'altro (senza cioè creare una cornice concettuale ed esplicativa di fondo dove inserire tale proposizione), non ha proprio senso.

ma noi vogliamo proprio essere individui perfetti in tale senso? cioè, assumento che il concetto di 'Perfezione' non relativizzata abbia senso, la Perfezione è davvero perfetta? ossia è auspicabile? d'altra parte che cosa ce ne faremo di una Perfezione non auspicabile, cioè non conforme ai nostri interessi e scopi?

se noi fossimo Perfetti, allora saremo noi e anche non-noi? inoltre se fossimo Pefetti, allora non saremo Imprefetti, quindi saremo Imperfetti perchè ci manca la 'imprefettibilità'. ma questo è una contraddizione, cioè non sappiamo come interpretare tali parole... d'altro canto se la Perfezione implica l'assoluta immobilità, e se ciò che è immobile è morto, allora noi saremo morti se fossimo Perfetti. in effetti, la staticità assoluta (e consequenziale immutabilità) è l'esatto opposto di una mente. la mente è una cosa altamente dinamica e creativa... una biblioteca può essere concepita (idealizzando) come un ente immutabile e statico, ma noi non siamo una biblioteca, bensì una mente. ed una biblioteca senza una mente, è inutile.

quindi sembra proprio che la Perfezione (in senso filosofico) sia senza senso o, nel caso migliore, sia non auspicabile e quindi imperfetta.


epicurus
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Vecchio 21-06-2006, 15.34.28   #16
visechi
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Citazione:
Messaggio originale inviato da VanLag
Ave a te vecchio saggio..... Soprattutto vecchio..... No dai scherzo.... soprattutto saggio....

[...]

Non so se ti ho risposto…. Mi sa che ho fatto un po’ rebelotto come sempre…. Ma al momento non riesco a fare di meglio…..

Più che chiaro ed esaustivo, oltre che condivisibile sotto molti punti di vista. Non ricordo più che ruolo assumesti nella divertentissima discussione <Io sono nato matita>, ma, ora, con atto d’imperio, ti attribuisco io il ruolo del foglio bianco. Essendo il foglio sulla cui pelle la matita traccia i propri segni, e facendo ciò pian piano si consuma, smarrendo la memoria di se stessa e dei suoi segreti, sei anche il depositario dei segreti più reconditi che detto oggetto (frutto della cultura ed evoluzione dell’uomo) consegna ai posteri. Se così è, e così appunto è – decreto imperiale (insomma, privilegio di anzianità d’iscrizione al forum ) -, se ben comprendo l’ignoranza tua circa lo sbocco dell’evoluzione, tu, Foglio, sei sicuramente la storia vivente del tratto che separa l’attimo attuale da quello dell’esordire del cammino umano. Posto tutto ciò, accidenti, almeno un’idea ti sarai pur fatto se l’evoluzione sia mai un fine o solo un mezzo. In quest’ultima evenienza, mezzo per raggiungere che fine, posto che un fine trascendente sarebbe l’incipit di se stesso. Ma che gioco assurdo questo gioco.

Ciaoooooo

visechi is offline  
Vecchio 21-06-2006, 16.13.50   #17
visechi
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No! Non credo che il concetto di perfezione possa essere desumibile dal fatto che uno muoia oppure no. Piuttosto credo sia assimilabile alla percezione della pienezza o, in caso di imperfezione, delle assenze o mancanze. Una concezione che preveda un rapporto di reciproca dipendenza fra morte e vita da una parte e perfezione dall’altra non terrebbe in alcun conto le eventuali assenze e mancanze, che sono appunto il suggerimento necessitante all’assenza di pienezza, cioè all’essere dell’imperfezione. La perfezione è così pienezza assoluta, che prescinde dall’essere o meno in vita, per come noi concepiamo questi due status del corpo o dell’anima stessa (psiche) – posto che la nozione di vita ultraterrena è proprio un concetto fondativo dell’unico (Ni)Ente a cui è riconosciuto questo attributo -. In quest’ottica, e credo solo in questa, la perfezione non assume i connotati che tu tendi ad attribuirle, assurgendo a concetto trascendente ed assoluto, non più relazionale e relativo – tale sarebbe solo nell’ambito della limitata dimensione umana, e solo in un ambito interumano, non mai quando ci si confronta con la nozione di divinità -. Il concetto di perfezione non è dunque un paradigma funzionale a qualcosa, non un mezzo, ma un essente trascendente ogni e qualsiasi manifestazione fenomenica o di altrotipo: tale è a prescindere!

Affermare che l’uomo è imperfetto o perfetto senza riferirsi ad un paradigma d’immotilità ed indefettibilità trascendente, ha il significato intrinsecamente rilevabile nei soli termini utilizzati (cioè il mero suono prodotto dalla pronuncia dei termini utilizzati), irrelato rispetto all’esterno, e conchiuso in se stesso, senza alcun rapporto con alcunché che gli offra sostentamento, avendo necessità di altri termini di raffronto che lo possano sostanziare e qualificare. Diversa e di ben maggior rilevanza sarebbe l’espressione Dio è perfetto, non necessitando quest’enunciato di altri termini che sostanzino e qualifichino il suo essere perfetto, perché – trattandosi di Dio -, ogni qualificazione sarebbe contenuta proprio nell’affermazione stessa.
Che poi il concetto di perfezione sia o meno indispensabile non saprei dirti, alcuni affermano con forza di sì – non senza ragioni che sostengano questo loro pretendere -, altri, viceversa, sono più propensi a ritenerlo ridondante, desueto ed ingombrante – anche questa posizione non è del tutto priva di intelligente razionalità -. Credo che il tutto sia riconducibile alla necessità che ciascuno di noi avverte d’avere o meno un termine di relazione più o meno stabile ed imperituro: c’è chi sia affida ad un’ideologia dalla quale adesione non arretrerebbe di un solo passo, chi, invece, ad una fede vissuta genuinamente. Ma questa particolarità, trattandosi di intimità, attiene più che altro alla sfera personale, non al campo d’indagine della filosofia. Ossia, non comprendo bene cosa la filosofia possa andare ad indagare quando s’insinua nelle segrete stanze del cuore di ciascuno di noi. I concetti d’utilità ed inutilità, o auspicabilità o non auspicabilità in rapporto alla perfezione - a Dio – ed alla sua necessità personale ed individuale, non dovrebbero riguardare questo campo del sapere… credo… ciaooooo
visechi is offline  
Vecchio 21-06-2006, 17.13.50   #18
epicurus
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vogliamo essere menti o biblioteche?

Citazione:
Messaggio originale inviato da visechi
No! Non credo che il concetto di perfezione possa essere desumibile dal fatto che uno muoia oppure no.

su questo siamo d'accordo.

Citazione:
Piuttosto credo sia assimilabile alla percezione della pienezza o, in caso di imperfezione, delle assenze o mancanze. [...] La perfezione è così pienezza assoluta, che prescinde dall’essere o meno in vita [...]. In quest’ottica, e credo solo in questa, la perfezione non assume i connotati che tu tendi ad attribuirle, assurgendo a concetto trascendente ed assoluto, non più relazionale e relativo – tale sarebbe solo nell’ambito della limitata dimensione umana, e solo in un ambito interumano, non mai quando ci si confronta con la nozione di divinità -. Il concetto di perfezione non è dunque un paradigma funzionale a qualcosa, non un mezzo, ma un essente trascendente ogni e qualsiasi manifestazione fenomenica o di altrotipo: tale è a prescindere!

ma che significa 'pienezza assoluta'? se intendi dire che un ente E è perfetto se (e solo se) ha tutte le proprietà possibili, allora (a) ciò non ha senso, e (b) ciò è contraddittorio.

(a) non ha senso perchè le proprietà non sono radicalmente indipendenti dal linguaggio. come ho già scritto, " il nostro linguaggio è estremamente flessibile e creativo, e si inventano sempre nuove parole: vogliamo credere che v'è un ente che soddisfa ogni possibile concetto? ma ha senso parlare di ogni possibile concetto creabile? mah... il problema è che si pensano le proprietà come cose metafisicamente e ontologicamente date e fisse una volta per tutte, mentre in realtà il linguaggio è in continua modificazione, e nascono sempre nuove proprieta". ma se non ha senso parlare di una completa totalità di proprietà, allora non ha senso parlare di un ente che le possegga tutte.

(b) è autocontraddittorio perchè: E è perfetto se e solo se ha tutte le proprietà --> E è p e E è non-p --> contraddizione. d'altra parte non so che senso abbia parlare di tale ente... inoltre E sarebbe (per ipotesi) imperfetto, inesistente, indescrivibile, etc... ma tutto questo è autocontraddittorio.

d'altro canto sembra che tu distingua nettamente il concetto di perfezione umanda, dal concetto di Perfezione Divina. ma, per quanto ne sappiamo, (almeno per ora) di concetti vi sono quelli umani, e non sapremo che stiamo dicendo se parliamo di 'concetti divini'. d'altra parte noi stiamo parlando un linguaggio umano, e non divino, quindi necessariamente stiamo parlando della 'perfezione' in senso relazionale, da me illustrata.

Citazione:
Che poi il concetto di perfezione sia o meno indispensabile non saprei dirti, alcuni affermano con forza di sì – non senza ragioni che sostengano questo loro pretendere -, altri, viceversa, sono più propensi a ritenerlo ridondante, desueto ed ingombrante – anche questa posizione non è del tutto priva di intelligente razionalità -.
[...]
Ma questa particolarità, trattandosi di intimità, attiene più che altro alla sfera personale, non al campo d’indagine della filosofia.

è ovvio che quando si parla di 'auspicabilità' si parla di emozioni umane, e che quindi si esce dal dominio della filosofia. però dimmi: che senso ha continuare a parlare di 'perfezione' se tale stato non è auspicabile? non perderebbe il suo fascino, che è l'elemento centrale del suo stesso significato? ossia: se la perfezione non è più meta ideale a cui giungere, non abbiamo già rinunciato al concetto di perfezione?


epicurus
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Vecchio 21-06-2006, 18.29.29   #19
visechi
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Il linguaggio è un improprio marcatore d’identità, e già affermando questo, con i termini che il linguaggio mi costringe ad utilizzare, stò già affermando ed identificando un qualcosa in maniera impropria. Che il linguaggio abbia i propri eterni ed invalicabili limiti è una concezione da me assolutamente condivisa (thread <un venditore di parole>). Ma ciò non esclude che riferirsi al divino o al soprannaturale rappresenti solo una mera attività dialettica e speculativa – mi pare tu tenda a relegarlo in questi angusti ambiti -. Sebbene il rapporto intimistico che coniuga profondità dell’anima al sacro e Numinoso attraverso l’uso di termini impropri, limitati e limitanti, non sia mai compiutamente esplicabile attraverso la dizione o la grafia, ha un senso parlare di perfezione e (Ni)Ente perfetto, nella misura in cui questo discorrere conduce a confrontare, seppure in maniera limitata, i cui limiti sono imposti proprio dal linguaggio, un proprio intimo sentire o anche solo l’emergere dell’intelligenza altrui. Ma questo senso è interelazionale, tu, invece, mi pare alluda ad un senso e significato di carattere ontologico o metafisico. Anche in questo caso avrebbe senso, nella misura in cui questo discorrere offre occasione di verificare che l’auspicabilità o meno di una data nozione è sempre sospesa in bilico fra aneliti intimistici e razionalità della mente. Là dove l’una nega, gli altri tendono ad invocare ed evocare. Il concetto di perfezione non è un orpello o un abbellimento dell’anima, ma un vero e proprio anelito che suggerisce alla mente l’illiceità della propria vocazione razionale tendente ad escludere ciò che non riesce a racchiudere entro le ferree maglie del principio di non contraddizione (per esempio). Eppure l’illimitatezza e l’infinità di Dio, anche così come concepito, fosse pure frainteso, dalla tradizione occidentale, sono lì a testimoniare quanto questo principio, essenziale nel discorrere logico e nella strutturazione della logica dialettica, sia quanto mai a Lui inapplicabile. Tu, infatti, appellandoti al marcatore improprio d’identità, ossia al linguaggio, cogli una contraddizione che in quella misura e in quell’ottica o ambito è assolutamente sacrosanto ed irreversibile, mentre tale non è se inserito in un contesto simbolico (symballo – metto insieme). Tant’è che la spiritualità, per trasmettere il proprio messaggio nel modo più genuino possibile, non si affida totalmente al linguaggio grafico o verbale, assolutamente inadatto, ancor meno alla logica formale; piuttosto affida se stessa al simbolo, il cui etimo tradisce proprio l’originalità della forma d’espressione che questo metalinguaggio predilige; oppure al mito. Entrambi non discorrono con la mente, avendo come interlocutore privilegiato ciò che profondamente e dal profondo informa ciascuno di noi.
Però ammetto che cogli proprio una crepa di questo nostro parlare, ma che è tale solo nell’ambito del discorrere dialogico improntato sulla logica formale e sulla costruzione semantica e lessicale d’ogni proposizione che utilizziamo nel discorrere. Noi parliamo di significanti ineffabili utilizzando metri e misure improprie, cioè le parole. Ma pur costretti in quest’ambito angusto e forse fuorviante – perché non potremmo fare altrimenti -, sebbene limitati dall’improprietà del mezzo di scambio utilizzato, si riesce abbastanza spesso a cogliere o intuire, a livello di sensazione, a sua volta inesprimibile, quel barlume di luce che squarcia tenebre o che proietta un cono luminoso entro un antro buio. La perfezione non è così solo una congettura utile per l’esercizio della mente, ma diventa un paradigma a cui tendere, anche se poi in questa infinità <il cor non si spaura>, <Così tra questa immensità s’annega il pensier mio>, ma nonostante ciò, è pur sempre vero che <il naufragar m’è dolce in questo mare>.

Ciao
visechi is offline  
Vecchio 21-06-2006, 19.11.51   #20
epicurus
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Re: vogliamo essere menti o biblioteche?

quando io dico: "d'altro canto sembra che tu distingua nettamente il concetto di perfezione umanda, dal concetto di Perfezione Divina. ma, per quanto ne sappiamo, (almeno per ora) di concetti vi sono quelli umani, e non sapremo che stiamo dicendo se parliamo di 'concetti divini'. d'altra parte noi stiamo parlando un linguaggio umano, e non divino, quindi necessariamente stiamo parlando della 'perfezione' in senso relazionale, da me illustrata."

tu, se ho capito bene, eviti la difficoltà che io pongo tirando in ballo i simboli. ma non ho compreso come questo risolva la questione. d'altra parte, neppure il riferimento ad un linguaggio privato dell'anima può far uscire da questo problema, infatti già wittgenstein ha dimostrato l'impossibilità di un linguaggio privato.

comunque non hai ancora risposto alle miei obiezioni (qui sotto riportate). queste di seguito, a differenza della precedente, non sono eludibili semplicemente accettando il carattere umano del linguaggio.

Citazione:
Messaggio originale inviato da epicurus
ma che significa 'pienezza assoluta'? se intendi dire che un ente E è perfetto se (e solo se) ha tutte le proprietà possibili, allora (a) ciò non ha senso, e (b) ciò è contraddittorio.

(a) non ha senso perchè le proprietà non sono radicalmente indipendenti dal linguaggio. come ho già scritto, " il nostro linguaggio è estremamente flessibile e creativo, e si inventano sempre nuove parole: vogliamo credere che v'è un ente che soddisfa ogni possibile concetto? ma ha senso parlare di ogni possibile concetto creabile? mah... il problema è che si pensano le proprietà come cose metafisicamente e ontologicamente date e fisse una volta per tutte, mentre in realtà il linguaggio è in continua modificazione, e nascono sempre nuove proprieta". ma se non ha senso parlare di una completa totalità di proprietà, allora non ha senso parlare di un ente che le possegga tutte.

(b) è autocontraddittorio perchè: E è perfetto se e solo se ha tutte le proprietà --> E è p e E è non-p --> contraddizione. d'altra parte non so che senso abbia parlare di tale ente... inoltre E sarebbe (per ipotesi) imperfetto, inesistente, indescrivibile, etc... ma tutto questo è autocontraddittorio.

[...]

è ovvio che quando si parla di 'auspicabilità' si parla di emozioni umane, e che quindi si esce dal dominio della filosofia. però dimmi: che senso ha continuare a parlare di 'perfezione' se tale stato non è auspicabile? non perderebbe il suo fascino, che è l'elemento centrale del suo stesso significato? ossia: se la perfezione non è più meta ideale a cui giungere, non abbiamo già rinunciato al concetto di perfezione?

cioè rimangono attive le mie critiche:

1) che significa 'avere tutte le proprietà' e come può aver senso (o come possiamo dargliene uno)?

2) che ce ne facciamo di una perfezione contraddittoria? o meglio: di una perfezione imperfetta?

3) che ce ne facciamo di una perfezione che non è più un paradigma a cui tendere?
epicurus is offline  

 



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