1 giugno 2006
“serenità come movimento armonico”
Stasera ho voglia di scrivere; è da un po’ che mi sembra di avvertire quel formicolio che dal centro della fronte si spande fino a pervadere le mie dita inducendole a scivolare sinuosamente sulla tastiera.
Non ho ben chiaro cosa sia a scuotere la mia mente, sembra che l’oggetto della mia ispirazione si stia divertendo a giocare a nascondino: mi stuzzica per poi nascondersi nelle pieghe dei miei pensieri più reconditi, per poi continuare a solleticarmi da lì, dove non posso vederlo.
Diverse sono le parole che mi danzano in testa da qualche giorno, incalzando al punto che mi sono sorpresa a ripeterle ad alta voce, con la fronte corrugata e lo sguardo serio, perso nel vuoto.
“Serenità” prima di tutto.
Questo concetto è ormai il motore che muove ogni mia riflessione; “motore immobile verso cui ogni cosa tende”, risuona anche questa frase. E’ lei, è l’ispirazione che si diverte ancora a giocare con me, mi sussurra questa frase -ripescata nelle mie reminiscenze di Aristotele- quasi a volermi suggerire qualcosa, ma non lo fa apertamente, vuole che ci arrivi io…
Il motore immobile che tutto muove e verso cui tutto tende è per Aristotele Dio, e per me ora sembra essere la serenità: il motore immobile dei miei pensieri.
L’idea di serenità è ricondotta a diversi concetti; scandendo questa parola il collegamento sarà immediato: equilibrio, stabilità, armonia.
La condizione di serenità sembra rappresentare lo stadio finale degli sforzi dell’uomo; stadio in cui l’uomo si ferma, cessa di agitarsi convulsamente, cessa ogni ricerca semplicemente perché pienamente soddisfatto, perché in possesso,ormai, di tutto ciò che ha sempre cercato.
Nell’immaginario collettivo la serenità è erroneamente accomunata ad un concetto di stasi, al piacere catastematico epicureo costituito dall’aponia e dall’atarassia,cioè dall’assenza totale di sforzo e turbamento.
Mi sembra, però, evidente che sforzo e turbamento siano i motori dell’agire umano stesso; il turbamento indica, infatti, una privazione, e lo sforzo è il movimento dell’uomo volto a colmare la mancanza che genera sofferenza.
“La vita è un pendolo” affermò Shopenauer; la nostra vita oscilla tra il dolore della privazione e la voluttà del soddisfacimento.
Una vita priva di turbamento è una vita priva di desideri; una vita priva di desideri è una vita immobile, statica, improduttiva. Come può, dunque, un’esistenza sterile ed improduttiva essere un’esistenza serena, felice?
Ecco,quindi, chiaro che la serenità non corrisponde affatto all’assenza di turbamento e sforzo perché una tale condizione preclude le basi stesse della pienezza d’animo e coincide piuttosto con l’abulia.
Non è l’assenza di dolore a determinare la serenità in quanto, secondo un antico pensiero, nulla è concepibile se non in relazione al proprio opposto, ed annullando l’opposto si annullerebbe l’oggetto stesso della ricerca. Se ,per assurdo, si potesse eliminare l’oscurità della notte si cancellerebbe simultaneamente anche la luminosità del giorno, perché la luce non è tale se non in relazione al buio.
La serenità si discosta dalla felicità e dalla gioia perché ,a differenza di queste sue “sorelle minori”, è uno stato d’animo che non è determinato da contingenze esterne ma conquistato dall’individuo e dipendente esclusivamente dall’individuo stesso; per questo motivo, se felicità e gioia sono caratterizzate dall’ineludibile caducità, la serenità non necessariamente è destinata a finire.
Non per questo, però, si può considerare la serenità come qualcosa di statico ed immutabile; è uno stato d’animo che va quotidianamente riconquistato, rinnovato; non è dato dall’immobilità che porta invece l’incancrenirsi e l’avvizzirsi dell’uomo; è dato dal dinamismo.
Dinamismo, non caos.
La serenità si conquista nell’acquisizione della distinzione tra mero caos e movimento.
Anzitutto il movimento tende a qualcosa mentre il caos è agitazione fine a se stessa; inoltre il movimento produttivo richiede come principio l’individuazione del proprio sé, la consapevolezza.
Solo un individuo consapevole del proprio sé, della propria soggettività, sarà in grado di muoversi senza perdersi; in caso contrario potrà muoversi nel caos rischiando di smarrire sé stesso, o restare immobile nell’illusione perversa di aver trovato la propria identità, fissa, rigida, statica…
Una tale illusione nasconde, invece, la paura del nuovo, paura di destrutturazione derivante, appunto, dall’instabilità di un sé non ancora individuato, non ancora compreso, non ancora trovato.
Il vero carattere, la vera identità –dice Nietzsche- non è mai meno che quintuplice. Con questo si intende che un’identità irrigidita è sterile e forzata; la produttività necessita movimento, flessibilità.
E’ necessario tenere viva la dialettica tra l’uno ed il molteplice (“uno, nessuno, centomila” sussurra ancora la vocina beffarda nella mia testa), rispettare, quindi, l’irripetibilità del proprio sé senza tentare di ingabbiarlo o di legarlo.
Bisogna conoscere sé stessi a fondo per consentire al proprio sé di indagare il mondo senza smarrirsi.
Ecco, dunque, la serenità : un pendolo,la cui forma si staglia netta e decisa,che ruota a 360° senza però staccarsi dal fulcro che ne costituisce l’essenza (ed ancora questa visione appare troppo statica; bisognerebbe immaginare un pendolo in grado di allungarsi a piacimento restando però legato al fulcro.).
Appare ora chiaro quanto poco abbia a che fare la serenità con la stasi; è piuttosto un movimento armonico, non convulso e caotico ma armonioso, coinvolgente.
La serenità non esclude il movimento impresso alla vita dalle emozioni, anzi non potrebbe sussistere senza di esse (nulla potrebbe sussistere in assenza di stimoli) ma è il modo giusto di viverle: cavalcare l’onda senza esserne travolti.
Spesso la vita ci ferisce e ,nel tentativo di difenderci, ci raggomitoliamo su noi stessi, ci appigliamo a convinzioni convenzionali e rigide perché la rigidità suggerisce sicurezza. Capita addirittura che riusciamo a convincerci di aver trovato la serenità ma, ovviamente, non è che un mero inganno della coscienza impaurita ed irrigidita dal timore.
“ogni barca anela il mare eppure lo teme” mi suggerisce la giocosa vocina ,che ha ripescato questa frase da un remoto ricordo di una splendida poesia. E’ così con la vita: ciascuno la desidera e la teme ma la paura non deve paralizzarci.
Dobbiamo concentrarci su noi stessi ed individuare quel cardine essenziale che è la nostra identità, ma non dobbiamo fermarci a questo, dopo viene il compito più arduo: vivere, assaporare la vita in ogni sfumatura, concedendo al nostro sé di arricchirsi e di mutare, di evolversi restando però fedele a sé stesso.
La serenità consegue sempre dalla consapevolezza di sé che ci dà la possibilità di vivere tutte le emozioni, positive o negative che siano, senza però rischiare di essere risucchiati in un vortice ingestibile.
-cosa ne pensate?-
grazie,
Flavia