Il problema, a mio parere, è un po' più articolato e richiede non tanto l'intervento della religione, i cui dettami possono facilmente essere non accettati dai non credenti, quanto dell'etica, di quel ramo della conoscenza cioè che si occupa della vita sociale e civile.
La vita, sia essa considerata un dono o un puro prodotto dell'istinto di sopravvivenza/riproduzione, merita in ogni caso di essere vissuta, esperita e, anche nelle circostanze più dolorose e negative essa può insegnarci qualcosa, può spingerci a cambiare e migliorare. E' troppo facile vivere quando va tutto bene. Sicuramente il gesto di togliersi la vita è del tutto libero e volontario a patto di riuscirci; pone invece una serie di riserve la richiesta, fatta a terze persone, di sospendere cure e agevolare una morte comunque vicina. Il diritto di decidere della vita o morte degli altri non spetta a nessuno, perché siamo tutti uomini e vincolati a mantenere e tramandare la vita. Il pietoso e comprensibile gesto di rispettare la volontà di un nostro caro malato trova un profondissimo ostacolo prima di tutto nella morale e poi nella legge civile.
Secondo me, tuttavia, sarebbe giusto ricorrere alla morte dolce in caso di "accanimento terapeutico" che consiste nel mantenere artificialmente in vita un soggetto che, privato delle nuove tecnologie mediche, sarebbe morto. In tal caso penso che la vita vissuta da questo malato non sia autentica, ma solo il risultato del comprensibile egoismo dei familiari che non si arrendono all'evidenza della morte.
In sostanza la vita ritengo sia un valore, indipendentemente dal credere o no in una forma di trascendenza, il nostro compito è quello di imparare da essa, di darle un senso. Nel caso in cui un individuo malato sia però nelle condizioni di non potere vivere una vita che consenta di esplicare questa finalità ( soggetti non coscienti, per i quali non vi è alcuna possibilità di ripresa, vincolati a macchinari che svolgono al suo posto le funzioni vitali, ) allora la morte dolce dovrebbe essere accettata.
Baci