Possiamo distinguere storicamente, in linea di massima, tre principali tesi che lottano riguardo la questione *interpretazione* (vi sono poi tantissime varianti e sfumature ulteriori):
(A) MONISMO INTERPRETAZIONALISTA;
(B) DUALISMO FENOMENISTA;
(C) MONISMO VOLONTARISTICO-IRRAZIONALISTA.
(A) È la tesi dei fondatori dell'ermeneutica filosofica (Heidegger e Gadamer, secondo i più): interpretazione è una *esplicitazione* dell'*implicito* che è realizzata (questo è decisivo) *grazie a* e *solo entro* la *determinatezza storica* dell'orizzonte interpretante, determinatezza che apporta nuove determinazioni di senso ad un interpretato che non è mai se stesso.
Interpretare per Gadamer significa "incontrare un mondo nell'opera [interpretata] ed un'opera nel mondo [cioè nell'orizzonte categoriale interpretante]". Per questo autore l'interpretazione non è un qualcosa che ricopre la fredda nudità dei fatti bruti ma è il disvelamento e l'arricchimento dell'identità-mai-compiuta dell'*interpretato*. L'identità dell'interpretato è "in fieri" dice Gadamer: essa è storia degli effetti.
Parimenti Heidegger è convinto che interpretare non significhi colorare il dato con una qualche opinione: anche il c.d. "dato" per Heidegger è un interpretato. L'uomo non può accedere a qualcosa come "LA VERITÀ" ma non per una sua deficienza cognitiva. La verità non è un *qualcosa*, essa non è un dato o un oggetto di pura contemplazione situato in qualche cielo metafisico e sfuggente alla temporalità - ché proprio questa è l'interpretazione inautentica della *verità* che si è imposta all'Occidente dimentico del senso autentico dell'essere.
*Vero* per Heidegger è ciò che si trattiene entro un orizzonte luminoso: il manifesto, il disvelato. Diremo: ma allora Heidegger ammette alla fin fine l'esistenza di dati immediati!
E invece no, poiché se il vero è il disvelato, allora esso presuppone un disvelante - e l'Esserci è esattamente un disvelare: "L'Esserci è quell'ente nel cui essere ne va di quest'essere stesso" significa proprio questo. Si ché il *disvelato* per Heidegger è (identico a) il suo esser compreso entro l'orizzonte disvelante dell'Esserci ovvero entro la *storicità* e l'*esistenzialità* dell'uomo-interprete. Non è corretto affermare che il disvelato è l'immediato poiché ciò con cui noi abbiamo quotidianamente a che fare non manifesta nell'immediatezza ciò in relazione a cui esso si mantiene nella sua comprensibilità (ovvero il suo senso; ovvero la sua struttura relazionale; ovvero l'essere dell'Esserci come ciò che *dà senso* pur essendo insensato).
Problema: ma prima di formulare, ad esempio, quella comprensione di un certo settore del mondo denominata "Legge di gravità", la stessa non essendo manifesta, illuminata, vera, era *falsa*? Gli oggetti non cadevano per terra ma cadevano in cielo o cosa altro? Quando Heidegger risponde a questa possibile critica, la struttura di "Essere e tempo" inizia a scricchiolare.
(B) La tesi fondamentale di questa posizone è (chiarisco che per fenomenismo intendo una qualsiasi teoria che affermi la dipendenza della conoscenza da un qualche immediato, si tratti di sense data o di idee innate accessibili all'introspezione o altro): vi sono dati immediati provenienti dai nostri sensi; altri aggiungono: vi sono anche leggi logiche indubitabili. Ogni interpretazione è in quanto tale un procedere oltre il dato immediato. Il problema a questo punto sarà quello di stabilire, a partire da ciò che è manifesto, cosa in verità esista pur non manifestandosi (e questo è uno dei classici problemi della filosofia).
Per il fenomenista l'individuazione di un qualcosa è il suo manifestarsi, l'essere di un ente coincide con il suo apparire, cioè con la notizia che ne ha il soggetto.
Lo scettico, in genere, con i suoi tropi tenta di scavare un solco tra l'essere e l'apparire: il ramo immerso nell'acqua appare spezzato ma non lo è. Per il fenomenista questo è verissimo ma non è vera la generalizzazione della conclusione scettica: lo scettico non si avvede di concedere, proprio attraverso il suo dubbio concreto, l'indubitabilità del piano dell'apparire. Detto in soldoni con una esemplificazione:
posso sbagliarmi nel *giudicare* che le forme geometriche e le forme colorate che occupano il mio campo visivo testimonino la presenza di un libro; ma posso sbagliarmi *se e solo se* io giudico erroneamente a partire dalle mie evidenze sensibili: queste ultime sottratte al giudizio inferenziale saranno anche sottratte alla possibilità dell'errore. Vale a dire: è insensato distinguere l'essere e l'apparire dal versante dell'apparire.
Generalmente il fenomenista elimina in RAA i dubbi dello scettico sul rapporto essere-apparire.
Tirando le somme, per i fenomenisti l'interpretazione è una inferenza incerta (non necessaria) o, come dice Perissinotto riguardo la questione, uno sporgere oltre il dato. Possiamo stabilire quante polpette mangia Renzo ne "I promessi sposi" ma non quanti figli abbiano avuto Renzo e Lucia.
Uno dei tantissimi esponenti di questa posizione è Russell.
Questione: ma quali sono le regole per poter stabilire di volta in volta cosa è realmente *immediato* e cosa *interpretato*? Si direbbe: ciò che appare immediatamente nella misura in cui appare è l'immediato. Ok, ma ad esempio in
(4) L'umanità si divide in 10 categorie
il significato del numerale "10" è un immediato? Osservate il contrasto di sensi nella espressione
(5) L'umanità si divide in 10 categorie: quelli che conoscono il codice binario e quelli che non lo conoscono.
Non sembra poi così certo che i contesti non contribuiscano a stabilire cosa, di volta in volta, è dato e cosa è interpretato in quanto possono darsi casi in cui un qualcosa considerato come dato in un determinato contesto, in un altro contesto risulti essere un interpretato.
(C) Tesi nietzscheana per eccellenza: l'interpretazione è una *creazione* umana. L'uomo *crea* il senso (dal nulla del senso) e lo impone a quel tremendo flusso perenne ed inoggettivabile che è la *vita*; poi, dimentico della sua "forza interpretativa" si relaziona al *senso* come ad un qualcosa da ritrovare e decodificare in un mondo che (illusoriamente) appare *totalmente sensato*, un mondo dominato da una razionalità interna o esterna ad esso. Si ché l'interpretare è attività *necessaria* per l'esistenza, nello stesso senso in cui sono *necessari* alcuni decisivi *errori umani* come dio o la libertà.
Una domanda forse banale ma sensatissima da fare ai sostenitori di questa tesi è: la vostra tesi occupa una metaposizione o è una interpretazione accanto alle altre? (Fermo restando che Nietzsche ha già risposto - ed anche in maniera penetrante - alla questione.... ma tralascio per *alleggerire* il post.... parlo a danno fatto, direte!
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La tesi (C) è sicuramente quella più lontana dal senso comune (soprattutto quando le cose si complicano con l'affermazione per cui il soggetto non è condizione dell'interpretazione ma prodotto di questa) ma anche la più affascinante. Personalmente sono vicino ad una versione indebolita della tesi (B), che mi pare molto più versatile e concreta: il distinguo dato-interpretato è relativo alle circostanze contestuali. Mi pare innegabile quello che, con estrema chiarezza, fa notare Nozick: la strategia fondamentale dello scettico consiste nel far immaginare all’avversario mondi doxasticamente identici al nostro (mondi in cui noi possediamo le medesime credenze che attualmente abbiamo) con la sola variante costituita dal fatto che tutte le nostre credenze, in questi mondi possibili, risultano false. L’esperimento è possibile (= non è incoerente), osserva Nozick, poiché la maggior parte dei rapporti che noi intratteniamo col mondo sono prodotto di mediazioni concettuali. Ma per adesso mi fermo qui, chiedendo perdono per la prolissità
Un saluto
A