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Filosofia - Forum filosofico sulla ricerca del senso dell’essere.
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Vecchio 26-01-2004, 20.51.57   #1
Apocatastasi
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senso ed ermaneutica

Salve a tutti, filosofi! Mi sono iscritto da poco e vorrei dare il mio (primo) contributo rifacendomi al post di Lord Enrico intitolato "L'uomo e il senso delle cose" - spero di non andare fuori thread

Si tratta di considerazioni che ho già postato non molto tempo addietro e che, con piacere, vi propongo.

Un saluto
A
Apocatastasi is offline  
Vecchio 26-01-2004, 20.54.26   #2
Apocatastasi
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Cosa è una interpretazione? Cosa facciamo esattamente quando diciamo di interpretare un qualcosa (una poesia, delle parole che ci sono state dette, un testo di filosofia...)?

Premetto di non possedere una *mia posizione* teorica riguardo al problema: non ho affatto la soluzione in tasca. Credo però che già sia tanto riuscire ad inquadrare una questione o almeno provarci; così il senso di questo post è nel domandare vostri pareri e sollevare discussioni inerenti all'argomento.

Nel loro uso quotidiano la parola 'interpretazione' ed il verbo 'interpretare' si presentano in sfumature di significato assai limitate e perlopiù relegate all'ambito dell'*opinabile*:

(1) Ma questa è solo una *tua interpretazione*!

diciamo a colui il quale non si attiene ai *fatti* (o a ciò che noi *riteniamo* essere i *fatti*... eheh, la cosa si annuncia problematica...) o magari spaccia come *fatto* qualcosa che non lo è come

(2) È un fatto che Berlusconi sia il più grande premier che l'Italia abbia mai avuto

Palesemente (2) è *solo una interpretazione* se non di meno...

Tuttavia non mancano situazioni in cui il termine "interpretazione" è usato in una accezione diciamo meno dispregiativa (sebbene sia da stabilire se questo significato sia in quanto tale la negazione dell'opinabilità dell'interpretazione). Molti di noi, ad esempio dinanzi ad una lezione magistrale di un qualche professore (ma anche leggendo un libro etc...), avranno almeno una volta pensato o detto qualcosa come

(3) Che ottima interpretazione!

Il prof. (o il libro o altro) con la sua *interpretazione* ci ha dischiuso un mondo di senso (relativamente ad una certa problematica o ad un certo autore etc...) fino a quel momento a noi sconosciuto: ci rendiamo conto di aver *compreso il nocciolo della questione*.

Così sembra che il nostro parlare quotidiano, quando interrogato sul "che cosa è l'interpretazione", risponda oscillando tra due poli: la chiarezza e determinatezza del caso (1) in cui "interpretazione"="opinion e" e l'indeterminatezza del caso (3) in cui l'interpretazione è sì veicolo di *senso* (di *nuovo senso*?) ma nulla è detto se poi questo *senso* sia un qualcosa di soggettivo, opinabile, sostituibile, non necessario oppure no.
È certo tuttavia che i significati in cui *interpretazione* occorre in (1) e (3) non pongono per nulla l'*ineludibilità* e l'*onnipervasività* dell'interpretare - caratteristiche, queste ultime, rivendicate all'interpretazione dagli ermeneuti contemporanei: "L'interpretazione è costituitiva dell'essere dell'Esserci" dicono questi signori, ma noi potremmo dire in maniera più semplice "Ogni rapporto con il mondo è un rapporto interpretante" o "In ogni nostra attività teorica e pratica noi interpretiamo sempre e comunque", o ancora "Non abbiamo accesso a meri dati di fatto", se non "Non esistono per nulla dati di fatto". Questo è il cuore teorico dell'ermeneutica filosofica.

[continua...]
Apocatastasi is offline  
Vecchio 26-01-2004, 20.55.50   #3
Apocatastasi
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senso ed ermeneutica (parte terza)

Possiamo distinguere storicamente, in linea di massima, tre principali tesi che lottano riguardo la questione *interpretazione* (vi sono poi tantissime varianti e sfumature ulteriori):

(A) MONISMO INTERPRETAZIONALISTA;
(B) DUALISMO FENOMENISTA;
(C) MONISMO VOLONTARISTICO-IRRAZIONALISTA.

(A) È la tesi dei fondatori dell'ermeneutica filosofica (Heidegger e Gadamer, secondo i più): interpretazione è una *esplicitazione* dell'*implicito* che è realizzata (questo è decisivo) *grazie a* e *solo entro* la *determinatezza storica* dell'orizzonte interpretante, determinatezza che apporta nuove determinazioni di senso ad un interpretato che non è mai se stesso.

Interpretare per Gadamer significa "incontrare un mondo nell'opera [interpretata] ed un'opera nel mondo [cioè nell'orizzonte categoriale interpretante]". Per questo autore l'interpretazione non è un qualcosa che ricopre la fredda nudità dei fatti bruti ma è il disvelamento e l'arricchimento dell'identità-mai-compiuta dell'*interpretato*. L'identità dell'interpretato è "in fieri" dice Gadamer: essa è storia degli effetti.

Parimenti Heidegger è convinto che interpretare non significhi colorare il dato con una qualche opinione: anche il c.d. "dato" per Heidegger è un interpretato. L'uomo non può accedere a qualcosa come "LA VERITÀ" ma non per una sua deficienza cognitiva. La verità non è un *qualcosa*, essa non è un dato o un oggetto di pura contemplazione situato in qualche cielo metafisico e sfuggente alla temporalità - ché proprio questa è l'interpretazione inautentica della *verità* che si è imposta all'Occidente dimentico del senso autentico dell'essere.
*Vero* per Heidegger è ciò che si trattiene entro un orizzonte luminoso: il manifesto, il disvelato. Diremo: ma allora Heidegger ammette alla fin fine l'esistenza di dati immediati!
E invece no, poiché se il vero è il disvelato, allora esso presuppone un disvelante - e l'Esserci è esattamente un disvelare: "L'Esserci è quell'ente nel cui essere ne va di quest'essere stesso" significa proprio questo. Si ché il *disvelato* per Heidegger è (identico a) il suo esser compreso entro l'orizzonte disvelante dell'Esserci ovvero entro la *storicità* e l'*esistenzialità* dell'uomo-interprete. Non è corretto affermare che il disvelato è l'immediato poiché ciò con cui noi abbiamo quotidianamente a che fare non manifesta nell'immediatezza ciò in relazione a cui esso si mantiene nella sua comprensibilità (ovvero il suo senso; ovvero la sua struttura relazionale; ovvero l'essere dell'Esserci come ciò che *dà senso* pur essendo insensato).

Problema: ma prima di formulare, ad esempio, quella comprensione di un certo settore del mondo denominata "Legge di gravità", la stessa non essendo manifesta, illuminata, vera, era *falsa*? Gli oggetti non cadevano per terra ma cadevano in cielo o cosa altro? Quando Heidegger risponde a questa possibile critica, la struttura di "Essere e tempo" inizia a scricchiolare.

(B) La tesi fondamentale di questa posizone è (chiarisco che per fenomenismo intendo una qualsiasi teoria che affermi la dipendenza della conoscenza da un qualche immediato, si tratti di sense data o di idee innate accessibili all'introspezione o altro): vi sono dati immediati provenienti dai nostri sensi; altri aggiungono: vi sono anche leggi logiche indubitabili. Ogni interpretazione è in quanto tale un procedere oltre il dato immediato. Il problema a questo punto sarà quello di stabilire, a partire da ciò che è manifesto, cosa in verità esista pur non manifestandosi (e questo è uno dei classici problemi della filosofia).

Per il fenomenista l'individuazione di un qualcosa è il suo manifestarsi, l'essere di un ente coincide con il suo apparire, cioè con la notizia che ne ha il soggetto.
Lo scettico, in genere, con i suoi tropi tenta di scavare un solco tra l'essere e l'apparire: il ramo immerso nell'acqua appare spezzato ma non lo è. Per il fenomenista questo è verissimo ma non è vera la generalizzazione della conclusione scettica: lo scettico non si avvede di concedere, proprio attraverso il suo dubbio concreto, l'indubitabilità del piano dell'apparire. Detto in soldoni con una esemplificazione:

posso sbagliarmi nel *giudicare* che le forme geometriche e le forme colorate che occupano il mio campo visivo testimonino la presenza di un libro; ma posso sbagliarmi *se e solo se* io giudico erroneamente a partire dalle mie evidenze sensibili: queste ultime sottratte al giudizio inferenziale saranno anche sottratte alla possibilità dell'errore. Vale a dire: è insensato distinguere l'essere e l'apparire dal versante dell'apparire.
Generalmente il fenomenista elimina in RAA i dubbi dello scettico sul rapporto essere-apparire.

Tirando le somme, per i fenomenisti l'interpretazione è una inferenza incerta (non necessaria) o, come dice Perissinotto riguardo la questione, uno sporgere oltre il dato. Possiamo stabilire quante polpette mangia Renzo ne "I promessi sposi" ma non quanti figli abbiano avuto Renzo e Lucia.
Uno dei tantissimi esponenti di questa posizione è Russell.

Questione: ma quali sono le regole per poter stabilire di volta in volta cosa è realmente *immediato* e cosa *interpretato*? Si direbbe: ciò che appare immediatamente nella misura in cui appare è l'immediato. Ok, ma ad esempio in

(4) L'umanità si divide in 10 categorie

il significato del numerale "10" è un immediato? Osservate il contrasto di sensi nella espressione

(5) L'umanità si divide in 10 categorie: quelli che conoscono il codice binario e quelli che non lo conoscono.

Non sembra poi così certo che i contesti non contribuiscano a stabilire cosa, di volta in volta, è dato e cosa è interpretato in quanto possono darsi casi in cui un qualcosa considerato come dato in un determinato contesto, in un altro contesto risulti essere un interpretato.

(C) Tesi nietzscheana per eccellenza: l'interpretazione è una *creazione* umana. L'uomo *crea* il senso (dal nulla del senso) e lo impone a quel tremendo flusso perenne ed inoggettivabile che è la *vita*; poi, dimentico della sua "forza interpretativa" si relaziona al *senso* come ad un qualcosa da ritrovare e decodificare in un mondo che (illusoriamente) appare *totalmente sensato*, un mondo dominato da una razionalità interna o esterna ad esso. Si ché l'interpretare è attività *necessaria* per l'esistenza, nello stesso senso in cui sono *necessari* alcuni decisivi *errori umani* come dio o la libertà.

Una domanda forse banale ma sensatissima da fare ai sostenitori di questa tesi è: la vostra tesi occupa una metaposizione o è una interpretazione accanto alle altre? (Fermo restando che Nietzsche ha già risposto - ed anche in maniera penetrante - alla questione.... ma tralascio per *alleggerire* il post.... parlo a danno fatto, direte!.

La tesi (C) è sicuramente quella più lontana dal senso comune (soprattutto quando le cose si complicano con l'affermazione per cui il soggetto non è condizione dell'interpretazione ma prodotto di questa) ma anche la più affascinante. Personalmente sono vicino ad una versione indebolita della tesi (B), che mi pare molto più versatile e concreta: il distinguo dato-interpretato è relativo alle circostanze contestuali. Mi pare innegabile quello che, con estrema chiarezza, fa notare Nozick: la strategia fondamentale dello scettico consiste nel far immaginare all’avversario mondi doxasticamente identici al nostro (mondi in cui noi possediamo le medesime credenze che attualmente abbiamo) con la sola variante costituita dal fatto che tutte le nostre credenze, in questi mondi possibili, risultano false. L’esperimento è possibile (= non è incoerente), osserva Nozick, poiché la maggior parte dei rapporti che noi intratteniamo col mondo sono prodotto di mediazioni concettuali. Ma per adesso mi fermo qui, chiedendo perdono per la prolissità

Un saluto
A
Apocatastasi is offline  
Vecchio 26-01-2004, 23.43.25   #4
Marco_532
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Cos’è il Dato?
Per non dilungare troppo la questione, definisco “Dato” tutto ciò che può apparire : tutto ciò che appare, che è apparso e che apparirà.

Come l’uomo immagazzina il dato?
Fondamentalmente posso definire l’uomo come un “immenso ricettore” che grazie a questa sua caratteristica, riesce a cogliere il sensibile, che ha la proprietà fondamentale di essere a lui utile. Il “dato” (con la “d” minuscola) è quindi il sensibile all’uomo, e potrebbe benissimo essere – e personalmente credo che lo sia – solo una piccola parte di “ciò che potrebbe apparire se…”, del “Dato” con la “D” maiuscola. Possiamo immaginare l’essere umano/ricettore, come colui che immagazzina tutti quei dati ai quali lo stesso ricettore è sensibile. Se pensiamo ad un misuratore di corrente, il dato conseguente un’analisi quantitativo-qualitativa varia a seconda della sensibilità dello stesso strumento; non a caso, più aumenta la tecnologia, più lo strumento coglie dati non sensibili all’uomo. La stessa cosa avviene per tutti gli altri esseri viventi, ma la caratteristica principale che distingue la “sensibilità per il dato X”, è che ogni specie vivente coglie tutti quei dati che sono sensibili ai ricettori presenti nelle stesse specie nel modo/intensità a cui gli stessi sono sensibili. Se consideriamo “la vista”, possiamo notare che esistono specie più o meno sensibili alla luce, specie che vedono nel più completo buio, altre completamente cieche ecc… Tutti questi paragoni sono fatti in base al dato umano: l’uomo conosce e può confrontare con altre specie, solo ciò che gli appare, ciò che può "ricevere". Questo non esclude la possibilità che oltre al dato a cui l’uomo è sensibile ne esistano altri che non può cogliere, poiché privo dei mezzi/ricettori, o della sensibilità per farlo.

L’interpretazione del dato da parte dell’uomo.
Il dato - riferito alla sola specie umana - è quindi qualsiasi cosa appare, è apparsa, apparirà, o può apparire alla stessa. L’apparato celebrale decodifica il dato, che grazie alla stessa operazione appare alla parte cosciente. A questo punto ha inizio l’interpretazione in base a criteri di utilità e convenienza, connessi alla memoria conscia; è questo processo che origina le prime differenze d’interpretazione tra gli appartenenti alla stessa specie.

Per ora è tutto; discussione molto interessante.

A presto, Marco .
Marco_532 is offline  

 



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