Riferimento: Eutanasia
Il tema eutanasia ha prodotto, com’era prevedibile, particolare interesse, sotto l’influsso di quell’ampia eco che trovano nei mezzi d’informazione i casi – strazianti o pietosi – di una vera e non solo televisiva realtà, col pericolo però di perdere un po' del suo interesse filosofico. Mi pare giusto perciò riportare l’argomento alla sua essenza, che potrebbe essere riassunta così:
- La vita è tutto ciò che abbiamo per raggiungere qualunque obiettivo in cui si possa credere, quindi ha per noi un valore intangibile: alla fine è perfino il mezzo per andare in cerca di quei valori supremi che rappresentano la verità e il bene.
- Ma la vita non è eterna. E allora?
- La vita non è solo nostra, e proprio la morte ce lo rivela, invitandoci ad accettarla come strumento che rende eterna la vita, cioè come condizione di una vita infinita.
Qui trova ragione il pensiero di coloro che considerano indebito il prolungare la vita oltre le sue possibilità, quasi che questo fosse un’offesa inferta alla vita intesa nel suo immenso significato, facendo in qualche modo dubitare del valore che essa potrà avere per i figli e i figli dei figli.
Le conseguenze (non filosofiche ma del tutto pratiche) di tutto questo? Mi pare, come hanno detto alcuni di voi, che quando è venuto il momento non si può e non si deve schivarlo chiudendo lo spirito in una mummia. E che, nella loro coscienza, i medici – i veri medici - perfettamente lo sanno. E, aggiungo, anche i religiosi – i veri religiosi - lo sanno.
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