Ospite abituale
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Politica: difetto di cultura o di moralità?
Parlare di politica, oggi, vuol dire esporsi al rischio di farsi condizionare dal clima assai poco benevolo verso i “politici” e dalle critiche provenienti da altri settori d’attività che si ritengono, se non altro, più produttivi. Penso però che i filosofi possano sottrarsi alla cronaca, forse non per il nietzschiano gusto dell’inattualità ma per gettare platonicamente uno sguardo su ciò che di essenziale può scorgersi in un’attività che non si può certo stornare dai nostri interessi, visto che da migliaia o da milioni di anni continua a condizionare la vita e la morte degli uomini. D’altra parte, parlare di politica nel modo “avalutativo” suggerito da Weber, cioè senza farsi guidare da quelli che si ritengono i fondamentali valori diventa, in certi momenti, quasi impossibile. Max Weber parlava da scienziato della società e noi, pur dichiarandoci filosofi, non viviamo nell’atmosfera astratta degli scienziati (qui si potrebbe aprire un discorso sulla “scientificità” o “non scientificità” della filosofia, ma rimandiamolo ad altra occasione).
Così temo che, pur ripromettendoci di osservare un equo distacco, il giudizio sui politici e sulla politica possa non essere più indulgente di quello che si fa strada nei commenti dei quotidiani, specialmente se non vogliamo limitarci alla politica del nostro paese, ma allargarci in qualche modo a un orizzonte più vasto se non, come si usa dire, globale: col rischio di trovarci costretti ad affrontare il nodo gordiano che avvinghia politica e religione – e che vorrei, per il momento, recidere col parteggiare per quegli analisti che fanno osservare come, nonostante le apparenze e la retorica dei guerrieri-profeti, la religione è forse solo un ingrediente della politica. In ogni modo, anche se non crediamo a uno scontro di civiltà, non rinunciamo a guardare coi nostri occhi occidentali le cose del mondo.
E vorrei arrivare subito al sodo, chiedendovi: qual è il demone che insidia l’ideale politico, o, per dirla in modo profano e comunque più semplice: qual è il vizio fondamentale della politica quale noi conosciamo, in quanto ci sovrasta tutti, dal primo all’ultimo giorno della nostra vita? Difetto di cultura o di moralità?
Mettiamoci dalla parte di un idealista: Se la storia si svolge dialetticamente, un motivo fondamentale e grave di conseguenze sembra essere quello che oppone la politica alla cultura. Un contrasto che non si rileva soltanto leggendo i libri di storia, ma che si vive ogni giorno e si va rendendo più acuto col passare del tempo, col maturare del sapere dei cittadini e la coscienza degli intellettuali, come se nessuna conciliazione fosse possibile ma su di esso dovesse fondarsi - tragico paradosso – un progresso del mondo.
Questo motivo può essere interpretato come un ritardo della politica rispetto allo sviluppo della cultura, quasi che, quanto più l’esperienza si allarghi e la capacità di riflessione si affini, tanto più la politica sia condannata a restare indietro. E’ vero che si può anche non credere al progresso della cultura ma, anche a prescindere dall’apparizione fortuita di individui geniali, un progresso c’è in relazione a ciò che è l’essenza di uno sviluppo e la sua vera prova – la consapevolezza di far parte di un mondo più vasto di quello di un individuo e l’impegno a una critica da esercitare per il bene di tutti, così che il progresso non può che riflettersi in una coscienza della storicità e un’eticizzazione di ciò che siamo chiamati a compiere, al di là di ogni dogma e imposizione di casta, religione, nazione.
Di fronte a questo moto ideale della cultura, la politica, nonostante gli orpelli e la razionalizzazione di cui si riveste, è sempre arretrata: tanto più quanto più una società può considerarsi illuminata e matura. Politica arcaica, politica propria di età primordiali. Séguito di menzogne, tradimenti e violenze. Con quella parvenza di socialità che viene dall’istinto del branco congiunto alla necessità, per gli eletti, di conservarsi un coro e dirigerlo con la scusa, oggi immancabile, di inneggiare a Dio. La politica non è, ancora, che l’istituzionalizzazione di elementari istinti e comportamenti; del resto non è l’unica attività che per svolgersi deve prescindere da valori ideali. Come è possibile, fuori da ubbie moralistiche, che un commerciante rinunci ad aumentare il suo lucro dove gli è possibile farlo; come può un avvocato non cercare di vincere una battaglia anche se ingiusta, e un politico non usare la forza e l’astuzia per far trionfare lo Stato e quindi sé stesso? Ma qui non è questione di ragionevolezza, della necessità di usare un linguaggio attento alla situazione e alla realtà delle cose. E neppure voglio credere in una tecnica o scienza della politica quale i filosofi hanno cercato di costruire - ma nell’assennatezza di quello che noi – uomini di tutti i giorni piuttosto che “eroi della filosofia” – vorremmo chiedere qualche volta ai politici, e che non è dopo tutto così ingenuo o banale, se è la domanda che sentiamo premere nella coscienza di Eschilo e Shakespeare, se non di tutti i grandi spiriti del pianeta: può il re avere una morale diversa da quella del più umile cittadino?
Ma per non rientrare – come direbbe Eco – fra gli intellettuali apocalittici piuttosto che fra gli integrati, voglio riconoscere che tali difetti non si incontrano in forma così acuta come l’ho descritta in tutto l’esercizio politico, ma in primo luogo nella politica estera (soprattutto di certi paesi) alla quale può adattarsi la definizione di “politica arcaica, propria di età primordiali”. Nella politica interna dei paesi che diciamo “democratici”, è indubbio che un progresso verso una cultura morale si sia storicamente verificato, anche se mi pare che ciò sia avvenuto ed avvenga non tanto per decisione cosciente e condivisa delle autorità politiche, quanto per una sorta di occulta, strisciante, labile “provvidenza”, che non oso addebitare ad interventi miracolistici quanto a una sorta di ironia della storia, quella che Hegel evocava in senso completamente opposto a ciò che mi pare di poter (illusoriamente?) tirare in campo, cioè per esaltare la creatività del potere e la fecondità della guerra tra i popoli, se non il meccanismo spietato della vita civile. Vero è che Hegel si serviva dei poteri negativi del mondo non per rovesciarli attraverso una rivoluzione come quella sognata da Marx, ma per consegnarli allo spirito dell’assoluto, cioè alla sua stessa filosofia, che avrebbe dovuto sancire la “fine della storia”, canonizzando lo stato prussiano.
In tal modo Hegel non aveva bisogno di sciogliere il nodo che avvince religione e politica, non solo perché le guerre di religione non erano più di moda al suo tempo, ma perché entrambe – politica e religione – potevano considerarsi solo gradini di una trionfale scalata al cielo dell’assoluto. Ma noi, che ancora arranchiamo sugli scalini del purgatorio, e dobbiamo usare una carta d’Europa dove la Prussia è sparita, ma s’intravedono varchi da cui si affacciano religiosi estremisti, dobbiamo pur affrontare, filosoficamente, il nodo che da millenni avvinghia religione e politica.
Sì, perché questo nodo non è qualcosa che si è manifestato adesso e riguarda prevalentemente i rapporti con paesi esotici e forse ancor barbari: fin dal giorno che l’ homo sapiens si alzò dalla terra e colse il lampo dell’assoluto, egli chinò il capo cercando dove si riflettesse quel fosco bagliore – sul re di una tribù pronta alla lotta o sul profeta che guida la danza rituale? E così fin da quel momento, si posero le premesse di un dialogo o una battaglia fra il potere divino e il potere politico, che lungo i millenni avrebbe smosso la storia portandola verso grandi traguardi e verso assurdi misfatti. Credo che questa concordia discorde, ossia questo intreccio di armi col potere celeste porti all’estremo la miseria della politica, più che la mancanza di cultura e di eticità. Perché accanto al grido “lo ordina il re” si ode suonare il grido “è dio che lo vuole”, rendendo più ferreo e senza perdono il potere degli uomini. E anche qui dobbiamo forse sperare che solo un’occulta e mitica provvidenza possa evitare che il nodo ci soffochi. Sì, forse potrebbe trovare qualche giustificazione finanche l’idea di coloro che ammettono l’esistenza di due deità – l’una buona e l’altra cattiva - che renderebbe addirittura metafisica la lotta per il potere.
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