Riflessioni sull'Esoterismo
di Daniele Mansuino
Il voodoo dominicano
- prima parte
Maggio 2007
Nella preistoria, l’evolversi di quel corpo di conoscenze che oggi definiamo esoterismo è passato attraverso due periodi fondamentali. Nel corso del primo, corrispondente al “paleolitico superiore”, il lento diffondersi dell’umanità in ogni parte del pianeta era accompagnato dall’uso di un linguaggio e di una ritualità comuni.
L’esistenza di un linguaggio primordiale è stata confermata dai più recenti studi sull’origine delle lingue, e gli antropologi sono stati in grado di ricostruire un vocabolario di circa 50 parole. Riguardo alla “tradizione primordiale”, l’esistenza di un substrato di riti e simboli antichissimi dal quale si sono sviluppate le molteplici forme della conoscenza esoterica non è mai stato un mistero, e trova conferma nelle pitture rupestri a sfondo rituale, che in ogni parte del mondo sono sempre sorprendentemente simili tra loro.
Il momento successivo fu quello dello sciamanesimo, quando la futura distinzione tra exoterismo e esoterismo cominciò a prefigurarsi attraverso la delega delle funzioni rituali a uno specialista. Lo sciamanesimo ha quindi ereditato la tradizione primordiale quando era ancora intatta, e - poiché viene praticato ancora oggi in varie parti del mondo - non dovrebbe essere difficile, per un esoterista attento e competente, ravvisare il simbolismo primordiale ancora operante nei suoi riti.
Stando così le cose, c’è da chiedersi per quale motivo la gran mole di dati relativi alle culture sciamaniche riscoperti dall’antropologia nel corso del ventesimo secolo non sia stata salutata come un’occasione per rigenerare l’esoterismo contemporaneo con una sorta di bagno alle fonti; al contrario, è stata accolta perlopiù con un certo fastidio, e lasciata alla mercè di personaggi di dubbia fama, che ne hanno fatto in genere occasione di facili guadagni, screditando lo sciamanesimo ulteriormente.
Le ragioni probabilmente sono almeno due. Innanzitutto, l’atteggiamento colonialista proprio dell’epoca in cui l’esoterismo venne codificato nella sua forma attuale (XIX secolo), recante con sé la più profonda ignoranza e incomprensione nei confronti delle produzioni culturali dei popoli primitivi. In secondo luogo, la convinzione che qualunque disciplina esoterica privilegiante il rapporto con l’ “infraumano” sia esposta a deteriorarsi assai più rapidamente rispetto a quelle che pongono al primo posto la “spiritualità”.
Questo discorso presta il fianco a un paio di obiezioni. Prima: nessuno ha in tasca la patente per decidere entro quali limiti le cosiddette “influenze spirituali” si riverberano sull’infraumano, e viceversa quali altre parti della sfera psichica siano invece lasciate fuori da questo territorio “privilegiato”. L’esperienza ci insegna che chi si avventura in queste discriminazioni, lo fa generalmente sulla base dei suoi pregiudizi personali, se non addirittura di inconfessabili valutazioni di carattere commerciale o politico; se così non fosse, il dibattito non sarebbe tanto incentrato a stabilire dov’è la spiritualità e dove non è, quanto piuttosto se il concetto stesso di spiritualità abbia ancora ai nostri giorni una sua ragione di essere.
Seconda obiezione: se la presunta “spiritualità” si è conservata intatta lungo il tortuoso percorso che va dalla “tradizione primordiale” alle religioni dei nosri giorni, a maggior ragione dovrebbe essersi conservata nel cammino dalla tradizione primordiale allo sciamanesimo, che è molto più breve; a meno che - non si vede su quali basi - non si voglia negare ai popoli dediti allo sciamanesimo la capacità di conservare le proprie tradizioni; forse perché, mentre noi eravamo tanto “spirituali” da conquistare il mondo a suon di cannonate, loro hanno avuto il torto di lasciarsi ridurre in schiavitù?
Avremo occasioni per parlare ancora di tutto questo. Mi auguro, per il momento, di aver posto in evidenza i motivi per cui considero l’approccio alla ritualità sciamanica come il momento più alto della ricerca esoterica contemporanea; anche nella mia vita privata ho sempre cercato di conformarmi a questa conclusione, recandomi a incontrarla negli angoli più sperduti del mondo.
In questo articolo e nel seguente, vorrei brevemente raccontare del mio incontro con il voodoo dominicano, del quale sono un brujo (stregone). Non parlo né scrivo lo spagnolo, quindi potrebbe sfuggirmi qualche errore nei termini spagnoli che dovrò citare; di questo chiedo scusa anticipatamente.
Malgrado ciò che ho appena detto, quando programmai un viaggio a Santo Domingo per il luglio 2004 non era mia intenzione andare in cerca di sciamani e stregoni, perché ero assolutamente certo che a Santo Domingo non ce ne fossero. Infatti, i libri che trattano delle “macumbe interetniche” latino-americane nel capitolo sui Caraibi citano il voodoo haitiano, la santeria cubana e tuttalpiù lo shangò di Trinidad; se accennano di sfuggita alla Repubblica Dominicana è solo per citare il liborismo, movimento contadino a sfondo mistico-sociale che era già estinto un’ottantina di anni fa.
Pensavo che la cosa fosse ovvia: in effetti, la Repubblica Dominicana è il più europeo – dal punto di vista culturale - dei Paesi caraibici. La città di Santo Domingo fu fondata da Bartolomeo Colombo nei primi anni del sedicesimo secolo, e da allora in poi i contatti con il vecchio mondo sono sempre stati intensi e frequenti. Dopo cinque secoli di via vai, mi dicevo, se ci fosse ancora qualcosa di interessante, si saprebbe.
Insomma, quando sbarcai all’aeroporto di Santo Domingo quella sera di luglio, il voodoo dominicano non sapevo neanche che esistesse; nemmeno ventiquattr’ore dopo, davanti alle immagini dei misterios, Candelo Cedifè mi avrebbe scelto per fare di me un brujo…
Andò così: la mattina seguente verso le 9 uscii dall’albergo. La mia intenzione era di visitare la Ciudad Colonial, il centro storico edificato ai tempi di Colombo (a proposito, Santo Domingo è veramente una città bellissima, una specie di Genova dei Caraibi). Ma quasi subito mi resi conto che non era possibile portare a termine questo progetto da solo: ogni pochi passi venivo avvicinato da qualcuno che si offriva di farmi da guida, e compresi che solo se ne avessi scelto uno tutti gli altri mi avrebbero lasciato in pace.
Scelsi un signore che aveva un’aria da persona onesta e parlava italiano. Facemmo il nostro giro, visitammo la cattedrale e altri bei posti, poi andammo a pranzo in un ottimo ristorante (a Santo Domingo si mangia da dei) e ci mettemmo a chiacchierare. Eravamo già all’ammazzacaffè quando mi capitò di nominare il voodoo.
“Beh, mia suocera è una bruja” osservò tranquillamente la guida. “Vuol dire una stregona, una che pratica il voodoo dominicano.”
“Vuoi dire il voodoo haitiano” lo corressi.
“No, dominicano.”
“Ma… esiste ?”
Allora, con grande competenza, mi spiegò alcune cose fondamentali. Il voodoo dominicano esiste eccome, è profondamente diverso dal voodoo haitiano, e somiglia piuttosto alla santerìa. La sua principale peculiarità rispetto alla maggior parte delle macumbe interetniche risiede nel fatto che non è fondato sulle cerimonie di massa ma sul rapporto personale tra il brujo e il fedele; questo avviene nei giorni dedicati all’evocazione dei misterios, martedì e il venerdì.
“Cosa sono i misterios ?”
“Sono i loa” mi rispose, “cioè gli spiriti. Nel voodoo haitiano vengono chiamati loa, a Santo Domingo noi li chiamiamo misterios. Forse perché il nostro rapporto con loro è più intimo, più misterioso che ad Haiti.”
Si possono trovare, mi disse, brujos talmente solitari che non ricevono affatto i clienti, e vivono il proprio rapporto coi misterios alla stregua di un cammino di perfezionamento interiore: era il caso di sua suocera. Queste ed altre peculiarità - come la trasmissione iniziatica rigorosamente ad personam, da maestro a discepolo – tradiscono la forte influenza che il voodoo dominicano ha ricevuto dalla magia europea.
“Beh, cavoli” mormorai “spero che prima di andar via mi porterai a trovare tua suocera !”
“Ci andiamo subito” rispose lui, alzandosi da tavola: “oggi è venerdì”.
La casa dove mi portò, nella periferia nord della città, era una tipica casa da dominicano povero-ma-non-troppo: estesa su un piano unico, pavimento in terra battuta, piccole stanze affiancate sui due lati a un corridoio centrale e un cortiletto. Quando arrivammo, da una stanza sul retro della casa uno stereo trasmetteva una musica assordante di tamburi e canto.
“Questo è il palo”, mi spiegò: “la musica del voodoo, che aiuta mia suocera a andare in trance.”
La suocera era una vecchiettina piccola e magra, capelli bianchissimi e la pelle color terracotta, che indossava un semplice e dimesso vestito a fiori. Quando la guida mi presentò, mi strinse la mano senza guardarmi negli occhi, andò a prepararci il caffè e lo bevve insieme a noi, restando in silenzio con aria compunta e imbarazzata. Pensai che era molto timida.
Poi si scusò, con una vocetta acuta ma melodiosa, e si ritirò. Per alcuni minuti la vidi passeggiare avanti e indietro per il corridoio al ritmo del palo, poi scomparve alla mia vista. Ancora qualche istante, e il trillo di un campanello coprì brevemente la musica.
“Adesso mia suocera è andata in trance” spiegò la guida.
Aveva appena detto così, che una persona irruppe dal corridoio nell’anticamera. Ebbi un sobbalzo: mi trovavo di fronte un feroce guerriero dagli occhi selvaggi, la fronte bardata da un fazzoletto rosso al modo dei pirati. Con gesto imperioso mi fece segno di alzarmi. Sentii come una forza che mi sollevava dalla sedia, e lo seguii nella prima stanzetta a sinistra.
Qui, in penombra, offuscato dal fumo di alcuni bastoncini d’incenso, c’era una mensola rischiarata dalla fioca luce di una candela. A dispetto del poco spazio, c’erano posati un’infinità di piccoli oggetti: bottiglie, flaconi e una fila di piccole immagini sottovetro, che grossomodo mi sembrarono ritratti di santi.
Quando mi fece cenno di sedermi, la mia mente aveva già realizzato che il terribile guerriero era in realtà la timida vecchietta di poco prima. Non ci sono parole per descrivere quanto si era trasfigurata, e quanto vigorosi e giovanili fossero ora i suoi movimenti; quando avevo letto di simili trasformazioni nei libri di Castaneda, ero persuaso che si trattasse di fantasia.
Invece ora, proprio di fronte a me, il guerriero mi soffiava sul viso il denso fumo del sigaro che stava fumando. La guida, che mi aveva raggiunto e sedeva vicino a me, mi sussurrò che era una forma di benedizione.
Il guerriero parlò, con una voce tonante e cavernosa che rimbombava stranamente nel mio cranio. La lingua era una specie di spagnolo inframmezzato di parole strane.
Mi chiese di me, e gli parlai. Avevo mal di testa, ero stordito, mi sembrava di vivere un sogno; ricordo solo che, all’improvviso, un forte colpo alla nuca mi fece sussultare e mi voltai.
Dietro di me non c’era nessuno; niente in apparenza mi aveva colpito. Come una litania, la voce della guida arrivò lontanissima al mio orecchio: “Candelo ti ha toccato. Candelo vuole che tu sia un brujo. Candelo ti ha scelto…”
Quando la bruja tornò dalla trance, parlammo di ciò che era accaduto. Io supponevo che, siccome i misterios mi avevano scelto, si sarebbe passati subito a definire i tempi e i modi della mia iniziazione, ma non fu così. Ella mi spiegò che avrei dovuto attendere: spetta ai misterios decidere queste cose.
Ovviamente, obbiettai che di lì a poco sarei tornato in Italia, dove ben difficilmente i misterios avrebbero avuto modo di manifestarmi la loro volontà.
“Non preoccuparti” mi aveva risposto lei, ridendo: ”lo faranno, eccome !”
Tornai in Italia piuttosto scettico e scoraggiato, convinto che la mia possibilità di diventare un brujo fosse sfumata per sempre. Invece non fu così. L’inverno successivo, un pomeriggio, mi trovavo a Genova, in casa di una signora dominicana che conosco da molti anni. Su un comò c’era un piccolo altare con immagini dei santi: lo avevo visto decine di volte, e lo avevo sempre scambiato per un altare cattolico.
“Ma quello è un altare voodoo !” esclamai, emozionatissimo.
“Sì, certo” rispose lei, sorpresa non meno di me. “Cosa ne sai tu del voodoo ?”
Le raccontai la mia esperienza. Lei rise, mi abbracciò e promise che si sarebbe occupata della mia iniziazione.
Tornai nella Repubblica Dominicana nel luglio dell’anno successivo (2005), e questa volta la meta del mio viaggio era diversa: un paesino nel circondario di La Vega, un grosso centro agricolo nell’interno dell’isola. All’aeroporto della Capital mi attendeva Zuleica, la figlia sedicenne della mia amica: la sua famiglia mi avrebbe ospitato e lei mi avrebbe fatto da interprete per tutta la durata del soggiorno.
Fin dall’inizio potei sperimentare la differenza tra l’andare a Santo Domingo da turista e andarci ospite di una famiglia del luogo. A Madrid, al cambio di aereo, 2 vigilantes della compagnia aerea mi trassero da parte e mi dissero che il mio bagaglio a mano eccedeva le dimensioni. Era vero: avevo stipato tutto quanto lì per non perdere tempo all’arrivo, pensando al fatto che c’era gente che mi aspettava. Gli consegnai la valigetta, e nella concitazione dell’imbarco non pensai che non ci avevo messo sopra un’etichetta col mio nome.
All’arrivo, i bagagli cominciarono a scorrere sui rulli; aspettai più di un’ora, ma la mia valigetta non c’era. Andai allo sportello della compagnia, e trovai in coda prima di me 5 o 6 persone che avevano lo stesso problema. Per non far aspettare i miei amici, decisi di lasciar perdere e uscii senza bagaglio.
Zuleica era venuta in compagnia di 2 dei suoi 5 zii, due marcantoni di colore alti circa un metro e novanta. Gli raccontai la mia disavventura con un certo fatalismo: sarebbe stata una scocciatura, ma non ci avrei messo molto a ricomprarmi l’indomani le quattro cose che mi ero portato.
“Non se ne parla proprio” mi risposero: “Senza il tuo bagaglio di qui non ce ne andiamo”.
Detto fatto, acchiapparono per la collottola il primo addetto dell’aeroporto che gli capitò a tiro e gli spiegarono l’accaduto; quello li mandò a un ufficio, da quello a un altro ufficio e così via, e ad ogni ufficio nuovo i due giganti si arrabbiavano di più…
“Andiamocene” io gli dicevo, preoccupato dalla piega che stavano prendendo gli eventi. Ma non se ne parlava nemmeno. Un’ora e mezza dopo, mentre già stavano minacciando di prendere a schiaffi il direttore dell’aeroporto, lemme lemme si avanzò una graziosa hostess che spingeva un carrello, e sul carrello c’era la mia valigetta.
Il viaggio in macchina dall’aeroporto al circondario di La Vega durò 4-5 ore, scandite dallo spensierato ritmo del merengue che proveniva dall’autoradio. Quando arrivammo, mi ritrovai in una zona incomparabilmente diversa dalla Santo Domingo turistica e marittima che avevo conosciuto nel primo soggiorno. Risaie, campi fertili; contadini scalzi al lavoro nei campi con attrezzi primitivi (in dieci giorni non avvistai neanche un trattore). Strade sterrate, pochissime macchine; parecchia gente andava in giro a cavallo; così suppongo fosse l’Italia contadina del diciannovesimo secolo.
Famiglie con cinque-sei-sette figli: più bambini si fanno, più gente c’è per lavorare la terra e più la famiglia sta bene. Famiglie di una volta: come si sparse la voce che in paese c’era un italiano, austeri genitori venivano a presentarmi solennemente le figlie, e mi dicevano: è brava, è vergine, sa far da mangiare, se te la sposi e te la porti in Italia c’è tot di dote…
La famiglia della mia amica era una delle più ricche del villaggio: con le rimesse che lei mandava dall’Italia si erano comprati 2 negozi, uno di attrezzi agricoli e uno di generi alimentari. Tutti i componenti maschi della famiglia giravano armati, e trascorrevano il tempo libero a ungere e ripulire le loro magnifiche pistole. Mi sorridevano e mi rassicuravano: “Siamo brava gente, ma qui se vai in giro armato ti rispettano di più”.
Due giorni dopo che ero arrivato, un venerdì, mi portarono a trovare la persona che avrebbe dovuto iniziarmi: la bruja Marisa. Mi aspettavo una vecchia strega, mi trovai di fronte una bella signora sulla trentina, che nel salotto della sua casetta di assi di legno esponeva in bella vista un diploma di perito elettronico.
Un centinaio di metri dietro la casa c’era il tempio: una baracca in legno di forma allungata, edificata su un piedestallo in terra battuta alto circa una quarantina di centimetri, che sul lato occidentale sfiorava i margini della foresta. Appena ci entrammo, al di là della penombra vidi le fronde degli alberi agitarsi oltre la finestra e provai una fortissima, inspiegabile emozione. Pensai che era un posto bellissimo, e che tutto stava procedendo nel modo migliore.
Nel tempio, con Zuleica che svolgeva coscienziosamente la sua missione di interprete, Marisa ascoltò il racconto di quanto mi era accaduto l’anno precedente, con un atteggiamento di benevolenza sufficiente a farmi capire che quel colloquio preliminare era più che altro una formalità. Alla fine acconsentì a iniziarmi; fissò il prezzo della cerimonia (una cifra veramente ridicola, che pagai in anticipo) e mi assegnò una lista di cose che avrei dovuto comprare il giorno successivo, a La Vega; il rito di iniziazione sarebbe cominciato il lunedì mattina, con Zuleica e uno degli zii che mi avrebbero fatto da padrini.
L’iniziazione voodoo, come quella massonica, è strutturata in tre gradi: Refrescamiento (de cabeza), Aplasamiento, Bautiso. In condizioni normali bisogna far trascorrere un certo periodo fra i tre riti; ma nel mio caso, siccome venivo da lontano, fu stabilito eccezionalmente di farli in 3 giorni consecutivi.
La lista delle cose da comprare comprendeva: le immagini dei misterios; 24 fula (fazzoletti) di 8 colori (3 per colore): rosso, rosa, blu, viola, verde, giallo, bianco, nero; 8 nastri degli stessi colori; una bottiglia di agua florida e altri profumi più specifici per i misterios principali; una bottiglia di rhum, un’altra di gin, vivande varie, altro che non ricordo. Ci divertimmo un mondo, con Zuleica, a comprare tutte quelle cose il sabato mattina nei negozi di La Vega.
Il lunedì mattina mi presentai al tempio coi padrini, e fu uno choc: c’erano più di cento persone! Il primo grado dell’iniziazione, il Refrescamiento, è l’unico che può svolgersi in presenza di testimoni, e Marisa aveva colto l’occasione per far passare la voce – nel breve arco di tempo dal venerdì al lunedì – a tutti i fedeli del voodoo della zona. Il piccolo tempio era gremito: più della metà dei convenuti era stata costretta a sistemarsi fuori e affollava le finestre. Dentro, c’era perfino un’orchestra di palo: quattro o cinque suonatori di strumenti a percussione, sistemati in prima fila davanti all’altare.
Accanto all’altare, vicino alla sedia di Marisa, c’era un grosso bidone d’acqua. Sull’altare, oltre ai soliti oggetti, un mazzo di rose rosse. Come avrei sperimentato più tardi, ogni misterio evocato da Marisa avrebbe provveduto a sbriciolare i petali di una rosa rossa nell’acqua che sarebbe servita per il mio refrescamiento (e alcuni ci buttavano anche altre cose – spruzzate di agua florida, caramelle, ecc.).
Anch’io fui fatto accomodare presso l’altare, e verso le nove del mattino – con un gran rullo di tamburi – il rito cominciò.
Per una buona ora, i musicisti sfogarono la loro devozione con ritmi e canti indiavolati; il pubblico cantava le canzoni dei misterios, il rhum circolava a fiumi. Anch’io fui invitato a ballare (sebbene sia una cosa che odio) perché DOVEVO ballare, e dopo circa un quarto d’ora di contorcimenti selvaggi ero talmente sfinito che le gambe andavano da sole, e sentivo la mia voce cantare a squarciagola le lodi di Papa Guedè e Beliè Belcàn.
Poi la musica tacque e i musicisti si congedarono. Allora Marisa si concentrò a lungo, poi suonò un campanello e i misterios, uno dopo l’altro, cominciarono a cavalcarla. Nel periodo intercorso tra i due viaggi mi ero documentato su di loro, quindi alcuni potevo riconoscerli a colpo d’occhio dal colore del fazzoletto indossato da Marisa; per altri, invece, dovevo attendere che parlassero e si presentassero. Ciascuno mi rivolgeva la parola a lungo, mi poneva svariate domande, mi forniva i suoi consigli e i suoi insegnamenti.
Nel corso di questi lunghi colloqui, che si protrassero fin dopo mezzogiorno, accaddero molte cose strane, ma sono veramente troppo personali perché io possa parlarne. Solo una voglio dire (non perché io me la ricordi, in trance com’ero, ma perché Zuleica me la raccontò più volte, ridendo, nei giorni seguenti). Nel bel mezzo del rito, quando tutti i presenti pendevano dalle labbra dei misterios, entrò nel tempio un ubriaco, che cominciò ad agitarsi e a vociare. Riscossa brutalmente dalla trance, Marisa lo sgridò severamente e gli ingiunse di uscire. L’ubriaco le rispose: “Io sono amico di tuo marito e sto qui finché mi pare”.
Allora io (che indossavo un costume da Candelo, cioè una veste vescovile rossa con lo scapolare bianco, che le fedeli mi avevano confezionato in fretta e furia per l’iniziazione e conservo ancora) mi alzai solennemente, e con il mio vestito da vescovo attraversai il tempio; mi fermai di fronte all’uomo, lo fissai solennemente negli occhi e gli tracciai un segno di croce sulla fronte. L’energumeno ammutolì all’istante, si inchinò e uscì di corsa…
Nel tardo pomeriggio, quando tutti se n’erano andati, Marisa convocò me e i padrini di fronte all’altare. Mi fece spogliare nudo ed accucciarmi in una conca di lamiera. I padrini (Zuleica e suo zio) sollevarono il bidone dell’acqua.
Marisa si collocò davanti a me, e con la mano destra levata sul mio capo recitò la formula rituale con la quale venivo presentato ai misterios. Poi i padrini cominciarono a versare l’acqua sulla mia testa; Marisa faceva trillare il campanello d’argento a pochi centimetri dal mio orecchio sinistro, e chiamava i misterios uno per uno.
Così finì la prima giornata. La notte che seguì fu una delle più strane della mia vita: praticamente non dormii neanche un minuto, fu tutto un continuo dormiveglia, con i misterios che mi apparivano in continuazione e mi raccontavano cose meravigliose e spaventevoli.
Il giorno seguente si passò all’Aplaisamiento. Non c’era pubblico, soltanto io e i padrini, e l’iter del rito fu pressoché identico a quello del Refrescamiento, quindi è inutile che mi dilunghi a parlarne. Vorrei soltanto accennare brevemente all’importanza simbolica di questo secondo grado, che dovrebbe essere reso noto a quanti identificano il voodoo con lo spiritismo.
L’Aplaisamiento, in realtà, crea un confine insormontabile attraverso il quale nessuno spirito, all’infuori dei misterios, può transitare. Si presenta sotto forma di un vero e proprio contratto tra il brujo e i misterios - l’iniziatore dice (più o meno):
“Nel nome de las vente y una divisiones dei santissimi misterios de la tiera caliente (nota: tiera caliente è il nome segreto della Repubblica Dominicana), io stipulo in tuo nome un patto di fratellanza con i misterios, perché prendano dimora nella tua cabeza e vi risiedano per sempre. In cambio essi si impegnano a non cavalcarti quando tu non li hai chiamati, pur essendo sempre presenti per manifestarti la loro protezione e darti i giusti consigli quando è necessario. Si impegnano anche, nella misura del possibile, a concederti quanto tu chiederai loro secondo giustizia e rispetto…”
Questo significa che un brujo è vaccinato per tutta la vita contro la manifestazione di tutte quelle entità inferiori che molestano gli spiritisti, inducendoli talvolta a commettere ogni sorta di sciocchezze: le evocazioni a lui consentite sono limitate entro i confini dell’ “eggregoro” tradizionale, garantendone l’osservanza nel tempo. Se nel secolo scorso si fossero già conosciuti i dettagli di questo rito - nonché di altri analoghi dovunque rintracciabili nelle macumbe – forse Réné Guénon avrebbe scritto sullo sciamanesimo cose diverse.
Il terzo giorno, il Bautiso fu il rito più solenne. Non sono autorizzato a scriverne.
Al termine, Marisa mi consegnò i suoi doni: il costume di Candelo; gli avanzi della comida della mia iniziazione (li racchiusi in un contenitore ermetico e, dopo il ritorno a casa, li conservai lungamente sul mio altare); una rosa rossa; parecchie candele; un crocifisso di legno; un rosario; alcune conchiglie, da conservare in acqua di mare; il campanello di cui mi servo tuttora per chiamare i misterios; polveri e pozioni da lei stessa preparate, sigillate in bottiglie di plastica, che mi sarebbero servite per le operazioni magiche (nel corso di quei tre giorni, mi aveva dettato i rituali di numerosi trabajos); alcuni libretti contenenti le invocazioni; numerosi CD di palo... Tutto questo, in aggiunta alle cose che avevo comprato e ad altre che mi erano state donate dalla famiglia di Zuleica, per il mio viaggio di ritorno, formava un bagaglio enorme.
“Avrò un po’ di problemi se qualcuno mi fa aprire la valigia alla dogana” osservai.
“Non preoccuparti” mi rispose “non lo faranno”.
Difatti andò proprio così: sebbene durante il viaggio la maniglia del valigione che mi ero comprato a La Vega avesse ceduto per il peso – costringendomi a trasportarlo sottobraccio assai goffamente - al mio arrivo alla Malpensa i doganieri chiacchieravano tra loro e non si accorsero neppure che stavo passando.
Tornato a casa, cominciai a lavorare il giorno seguente. Per alcuni mesi dovetti adattarmi a una stanza della mia casa; da marzo di quest’anno posso disporre di un piccolo tempio col pavimento in terra battuta, ricavato da una vecchia serra, che a quanto mi risulta è l’unico tempio de las vente y una divisiones da questa parte dell’Atlantico.
Nel prossimo articolo, tratterò brevemente della struttura del voodoo dominicano: i misterios, i riti, la trance.
Daniele Mansuino
Il voodoo dominicano - seconda parte
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