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Riflessioni sull'Esoterismo

di Daniele Mansuino   indice articoli

 

Il segreto di Tutankhamon

Settembre 2022


È noto come la scoperta della tomba del Faraone Tutankhamon, avvenuta nel 1922 ad opera di Howard Carter e Lord Carnavon, abbia costituito un importante punto di svolta nella storia della civiltà; riguardo al quale non è il caso che io mi dilunghi, perché già tutto è stato scritto.
Tutto, o quasi: e non mi riferisco al fatto che, dal punto di vista dell’egittologia, le scoperte propiziate dal rinvenimento dei tesori di Tutankhamon sono ben lungi dall’essere concluse, né alla nota vicenda della maledizione di Tutankhamon, sulla cui veridicità molti dubbi potrebbero essere sollevati; bensì al fatto che su uno dei misteri più grandi che erano usciti da quella tomba calò quasi immediatamente un velo di silenzio, e a tutt’oggi ne hanno parlato soltanto in pochi.
L’impressione che qualcosa di strano fosse avvenuto poco dopo la scoperta è confermata da vari indizi. Per esempio, Howard Carter dapprima affermò che nella tomba fossero stati rinvenuti importanti documenti scritti, e questa versione era ancora in piedi oltre un mese dopo, quando il corrispondente del Daily Telegraph telegrafò al suo giornale la scoperta di rotoli papiracei da cui ci si attende di ricavare una gran mole di informazioni storiche; ma Carter smentì poi la notizia, dichiarando che si trattava di rotoli di lino, e che si era sbagliato perché… nella tomba c’era buio.
Naturalmente, sbagliare è umano; però dell’esistenza di quei misteriosi papiri ne parlò pure Lord Carnavon, in due lettere private.
Nel secondo dopoguerra, il merito di aver riportato l’attenzione del pubblico su questo mistero spetta al giornalista specializzato in archeologia Arnold Brackman (1923-1983), che ne parlò in The Search for the Gold of Tutankhamen (1976). Seguirono poi, sullo stesso tema, Tutankhamon, the untold story di Thomas Hoving (1978) e The Exodus conspiracy di Andrew Collins e Chris Ogilvie-Herald (2002).
Nel libro di Hoving è contenuta, tra l’altro, una testimonianza del futuro biografo di Roald Amundsen, Robert Lee Keedick: secondo lui, il cambio di versione sarebbe avvenuto dopo un incontro tra Carter ed un funzionario dell’ambasciata britannica. Nel corso di una accesa discussione, si sarebbe parlato dello scottante contenuto dei documenti trovati nella tomba, che avrebbero narrato il vero e scandaloso resoconto dell’esodo degli Ebrei dall’Egitto.
L’ipotesi più radicale è tuttavia quella proposta da Brackman, secondo il quale nei documenti perduti ci sarebbe stato scritto che Akhenaton - il padre di Tutankhamon - era Mosè.
Può darsi che il lettore di oggi non abbia gli elementi per comprendere come mai una affermazione di questo genere dovesse essere occultata; ed occorre quindi ricordare che era in atto, a quei tempi, il delicato processo di costituzione dello stato di Israele. In tutto il mondo erano in atto campagne di stampa volte a forgiare l’orgoglio nazionale del popolo ebraico, ed era quindi il momento meno adatto per diffondere il dubbio che Mosè fosse uno straniero.
È il caso, qui, di ricordare la complessa (ed ancora, in molte sue parti, oscura) vicenda di Akhenaton, considerato il primo monoteista della storia: egli tentò infatti di sostituire il culto delle antiche divinità egizie con quello del Sole (Aton) - probabilmente per risolvere il problema dell’eccessivo affermarsi della figura del dio Amon, i cui potenti sacerdoti facevano ombra al potere monocratico dei Faraoni, ed in varie occasioni avevano contrastato la volontà dei suoi predecessori.
Non tutti sanno che, prima di Akhenaton, il culto di Aton era già presente in Egitto; nella forma, parrebbe, di un insegnamento esoterico riservato alla famiglia del Faraone ed alla sua più intima cerchia, volto a condurre il praticante (per mezzo di successivi passaggi) dalla dispersione nella molteplicità alla consapevolezza dell’unità.
Il simbolo di Aton, giunto fino a noi attraverso varie raffigurazioni pittoriche, mostra il dio che proietta i propri raggi sulle mani dei fedeli: forse una metafora della divinizzazione che attendeva chi avesse portato a termine quel percorso.
Si suppone che sia stata molto forte l’influenza esercitata dal culto di Aton sui riti osiridei, che venivano praticati dagli Egizi tanto nell’ambito della ritualità funeraria quanto - per i vivi - come metodo di trasmutazione interiore.
Lo si suppone non soltanto per l’affinità ideologica dei due discorsi, ma anche perché, nell’ambito dei testi che concernono la ritualità osiridea (molti dei quali sono stati tradotti dagli egittologi negli ultimi vent’anni, e solo di recente hanno cominciato a circolare), sono chiaramente distinguibili due diversi orientamenti teologici. Uno pone al centro la figura di Osiride, intesa come simbolo dell’uomo, un altro quella di Ra, ovvero del principio che interviene sull’uomo; e sarebbe stata proprio questa seconda scuola ad incarnare - in modi diversi a seconda del periodo storico - le tendenze atoniste.
Non è questa la sede per approfondire un discorso così complesso; però ho pensato di segnalarlo perché, forse, vi si può ritrovare qualcosa del processo che avrebbe dato origine al monoteismo.
Il termine aton veniva usato anche per definire il contenitore del sole, ovvero il Disco Solare, ed il fatto che Akhenaton avesse confermato questa denominazione anziché dare al suo dio un nome nuovo, non era solo un tentativo di attenuare gli aspetti più scandalosi della sua rivoluzione: esprimeva anche la volontà di instaurare l’adorazione di un sole geometrico, elevato al di sopra degli altri corpi celesti da un rapporto privilegiato con il mondo delle idee - insomma, un concetto ben diverso dalla semplice adorazione del sole astronomico.
Erano state adorate, fino ad allora, tre forme diverse di aton: il Sole all’Alba, il Sole a Mezzogiorno ed il Sole al Tramonto. Tra queste Akhenaton ne scelse una sola, quella del tramonto, ed è anche questo un importante punto di contatto con la ritualità osiridea.
Ma non bisogna, per questo, supporre che l’atonismo fosse una religione crepuscolare; era invece luminosissima, con veramente faraonici rituali di massa celebrati in piena luce - una rottura non da poco con le pratiche, piuttosto tenebrose, collegate fino ad allora al culto degli dei egizi.
Akhenaton lasciò Tebe, dove lo scontro coi sostenitori del vecchio ordine sarebbe stato cruento, e si trasferì con un gran numero di seguaci ad una nuova capitale, che egli stesso aveva fatto costruire: Akhet-aton, L’orizzonte di Aton (oggi Amarna, circa duecento chilometri a sud del Cairo), dove aveva edificato un grande tempio al suo dio.
Qui il Faraone e la sua corte avrebbero vissuto per diciassette anni; secondo i maligni, interessandosi ben poco degli affari di stato.
Il breve periodo in cui Akhet-aton fu la capitale dell’Egitto è caratterizzato dalla cosiddetta arte amarniana: un rinnovamento notevole nel campo della pittura, della scultura e della letteratura, anche se di quest’ultima ben poco si è salvato, tra cui il famoso Inno ad Aton, di cui si dice che Akhenaton sia stato l’autore.
Oltre al concetto del dio unico, un altro carattere dell’atonismo che a quell’epoca non aveva precedenti (e che, forse più di ogni altro, lo accomuna ai monoteismi successivi) consiste nell’identificazione tra i concetti di dio e verità: lo stesso Faraone, che riuniva in sé le funzioni di incarnazione di Aton e suo Gran Sacerdote, designava sé stesso come Il Vivente nella Verità.
Volendo essere precisi, l’atonismo è stato definito non propriamente un monoteismo ma un enoteismo: il che non è, come l’etimo potrebbe suggerire, il… culto del vino, bensì la scelta di adorare un solo dio nell’ambito di un pantheon nel quale ne figurano molti altri (Akhenaton, in effetti, non aveva proclamato il decadimento delle divinità precedenti, ma si era limitato a porre Aton al di sopra di loro). Quella tra monoteismo ed enoteismo è però è una distinzione discussa, perché in tutte le religioni sono contemplate altre entità oltre al dio principale, e fissare un criterio per decidere quali possano essere considerati dei e quali no, è complicato.
È stata messa in luce la singolarità del rapporto che Akhenaton tentò di instaurare col popolo. Esistono raffigurazioni che illustrano scorci della sua vita familiare - o mentre passeggiava con la moglie Nefertiti e le figlie, o mentre egli stesso recava umilmente offerte all’altare di Aton.
È difficile stabilire se la riduzione da lui apportata alle spese militari dell’Egitto fosse l’espressione di un’indole personale pacifista, o soltanto il sintomo che fosse troppo impegnato con la sua riforma per essere in grado di portare l’attenzione oltre i confini del regno; ma è comunque evidente che egli si sia sforzato di promuovere l’immagine di un Faraone dal volto umano, un modo di proporsi moderno che, fino ad allora, non si era mai visto.
La speranza di Akhenaton era di convertire alla nuova fede tutto il popolo; ma, dopo essersi insediato ad Amarna, si rese conto che ben pochi Egizi intendevano seguirlo. Quanti lo avevano raggiunto erano soprattutto i figli degli immigrati, il cui legame con la tradizione era sicuramente meno forte, se non conflittuale.
Tra questi i Falasha etiopi, che si sarebbero poi convertiti all’ebraismo, e quei famosi Hyksos che - penetrati in Egitto come invasori due secoli prima - dopo essere riusciti a regnare sul paese per ben due dinastie, erano caduti in una schiavitù che presenta sconcertanti analogie con la cattività degli Ebrei in Egitto; e poi Nubiani, Beduini, Libici, Fenici, Siriani, Ittiti… insomma una sfilza di popoli che può ben giungere ad un totale di Dodici Tribù, suggerendo l’idea che il racconto dell’Esodo possa essere un adattamento della migrazione dei seguaci di Mosè-Akhenaton verso Amarna.
Ferale alla riforma di Akhenaton sarebbe stata la minaccia portata ai confini orientali dagli Ittiti: allora la casta sacerdotale, che lungo l’arco di quasi un ventennio aveva morso il freno, poté trovare gli argomenti per convincere la nobiltà di Tebe che il Faraone pacifista doveva essere alla svelta rimosso.
La lotta per deporlo fu breve, e forse indolore; poi, dopo il fugace interregno di un Faraone quasi del tutto sconosciuto (Smenkhara), a colui che Akhenaton aveva designato come suo successore - Tutankhaton, La Gloria di Aton - venne cambiato il nome in Tutankhamon, per significare che l’ordine precedente era stato ristabilito.
Comunque sia andata, non è difficile immaginare quanto una tale vicenda sia stata traumatica per quanti avevano creduto nella nuova religione, ed anche per gli altri Egizi di quel tempo. Non solo Freud, che è il più noto, ma anche altri psicologi ed antropologi che l’hanno studiata, vi scorsero un esempio di quanto l’idea di un dio unico sia in grado di rivoluzionare profondamente la mentalità umana, imprimendovi nuovi schemi dai quali non si torna indietro.
Akhet-aton-Amarna era stata abbandonata, e quasi tutti i documenti scritti relativi alla nuova religione erano stati distrutti. Tuttavia, almeno uno di essi (una versione atonista del Libro egiziano dei Morti) fa parte degli oggetti rinvenuti da Carter nella tomba di Tutankhamon; e questo ci indica che il Faraone, al di là delle scelte obbligate, aveva conservato un buon rapporto personale con la religione sconfitta, e forse la praticava in privato. Non è dunque impossibile che nella sua tomba potessero essere contenuti altri documenti atonisti scampati alla distruzione, come appunto i famosi rotoli che Carter avrebbe occultato.
È recente l’ipotesi che il racconto biblico dell’Esodo possa adombrare non la migrazione verso Amarna, ma una fuga - verso quello che allora era detto il paese di Canaan - compiuta, da Mosè-Akhenaton e dai suoi seguaci, per sfuggire alla controrivoluzione guidata dal clero tebano. L’indizio più corposo consiste in un papiro, ad essa posteriore, nel quale il governatore egizio dell’area oggi corrispondente alla Palestina diffida i suoi abitatori dall’abbandonarla, rammentandogli la loro qualifica di esiliati; ma riscontri più consistenti non si sono ancora trovati.
Un’altra ipotesi, meglio documentata della precedente, non esclude la possibilità dell’avvento di un secondo Mosè che si sarebbe accollato il compito di far fuggire i popoli oppressi dall’Egitto qualche secolo dopo: non solo, dunque, i superstiti seguaci dell’atonismo, ma tutti gli stranieri accomunati da problemi di disagio sociale.
Manetone (III secolo a. C.) menziona un certo Osarsiph di Eliopoli, che durante il regno di Ramsete II avrebbe guidato un’orda di ottantamila rivoltosi fuori dal paese; ed è curioso come lo storico greco non risparmi gli insulti ai protagonisti di quella vicenda, assicurandosi (forse) la palma di primo scrittore antiebraico della storia.
Manetone ci informa pure che a quei tempi era già in atto la pratica della circoncisione, mostrandoci in questo modo che, per quanto variegata potesse essere l’origine delle Dodici Tribù, a quei tempi la loro unificazione aveva già raggiunto uno stadio avanzato. Ma era senza dubbio un processo che non poteva dirsi definitivamente concluso, e ciascuno si era portato, per così dire, i suoi dei da casa: almeno così risulterebbe da episodi dell’Esodo come il Vitello d’Oro - un oggetto che solo un approccio alle Scritture molto acritico può far supporre possa essere stato realizzato da un gruppo di profughi in fuga.
Da Manetone forse attinse Celso (II secolo d.C), quando scrisse che gli Ebrei, egiziani di stirpe, hanno lasciato l’Egitto perché si ribellarono allo stato, e perché ne disprezzavano la consuetudine religiosa.
L’ipotesi che l’unità etnica, culturale e religiosa del popolo ebraico non fosse, ai tempi dell’Esodo, ancora pienamente conseguita, contribuirebbe a spiegare almeno in parte lo strano fenomeno verificatosi nel corso dei simbolici quarant’anni nel deserto, quando da un culto di Aton intellettuale e universalista sarebbe sortito il bellicoso e geloso Jahvè.
Senz’altro questo non sarebbe stato possibile a fronte di una religione condivisa da tutti i fuggiaschi, ma solo nel caso che la religione di Aton fosse stata quella che, poco per volta, si era imposta sulle altre; andando incontro, però, alle inevitabili metamorfosi che si verificano quando una fede viene adattata ad un contesto diverso da quello che l’ha prodotta, a maggior ragione nella situazione di grave disagio che quegli esuli senza patria erano costretti a fronteggiare.
Ed ecco, allora, l’Eterno degli Eserciti pronto a guidarli in battaglia; ed ecco un dio che occulta il proprio rango di Signore dell’Universo per adattarsi a quello di protettore di una comunità tribale.
In questa sua nuova versione, il Sole di Aton non accarezza più le mani di tutti gli uomini, ma soltanto di quelli che gli si sottomettono e gli sono fedeli; e la promessa che egli dispensa a quell’orda di poveri e affamati non è il dono della purezza geometrica del cerchio, ma di una terra dai confini ben protetti e rigorosamente tracciati, da Dan a Beersheba, nelle fertili praterie della quale scorrono fiumi di latte e miele.
Non c’è dubbio che la Torah sia stata riscritta (o addirittura scritta), nel periodo in cui Israele divenne regno, al fine di escludere quanto fosse da attribuire ad apporti stranieri; ma tuttavia, nella storia del popolo ebraico come essa la presenta, gli influssi atonisti sono ancora chiaramente distinguibili da chi la consideri con l’occhio disincantato del ricercatore.
Il primo a segnalarli era stato nientemeno che Champollion, ed un secolo dopo, Freud aveva addirittura sostenuto - in Mosè e il monoteismo - che quella egizia e quella ebraica non fossero due religioni ma una sola, scrivendo che Mosè aveva dato al suo popolo in fuga la stessa religione di Akhenaton. Egli però non identificava l’uno nell’altro i due personaggi, e supponeva che Mosè potesse essere stato non Akhenaton in persona, ma un suo cortigiano (ipotesi ripresa, nel 2000, dallo storico Messod Sabbah, ne L’origine egizia degli Ebrei).
L’origine egizia del nome Mosè è attestata in Esodo 1:10, laddove si dice che significhi salvato dalle acque. In effetti, in egizio la parola vuol dire fanciullo, o anche figlio o discendente, e ne deriva un verbo il cui senso è trarre fuori o nascere.
Il dalle acque è dunque sottinteso; perché, nella prospettiva egizia, l’idea che la nascita sia equiparabile ad un processo di trazione dello spirito dalle acque superiori è presente dappertutto (e la sua origine può essere rintracciata nei riti osiridei).
All’immagine di Mosè salvato dalle acque fa riferimento anche l’etimo proposto dal Corano, per cui il nome Musa deriverebbe da mu = acqua più sha = giunco o piccolo albero, nel quale il canestro che portava alla deriva Mosè lungo le acque del Nilo sarebbe andato ad impigliarsi (ed è curioso come nessun commentatore dell’Esodo abbia mai colto l’analogia di questa vicenda con il recupero della cassa contenente Osiride, anch’esso avvenuto nel Nilo).
Infine, il termine mose è anche una componente di Thutmosis, che fu il nome di quattro Faraoni della XVIII Dinastia (quella di cui lo stesso Akhenaton faceva parte); ed è per questo che, secondo un’altra ipotesi, Mosè potrebbe essere identificato con uno di loro, perlopiù Thutmosis III.
Dai convergenti lavori di numerosi studiosi di varie epoche, veniamo a sapere che il nome della casta dei sacerdoti di Aton era Yahud, da cui Giuda; che la fonte dei Dieci Comandamenti è il Libro Egiziano dei Morti; che il Salmo 104 è quasi identico all’Inno ad Aton; che da Aton deriverebbe (come era stato ipotizzato da Freud per primo) il Nome di Dio ebraico Adonai; e che l’Arca del Patto sarebbe un derivato della Barca di Ra, per mezzo della quale il sole si muove nel cielo.
Ancora più interessante, anche se meno influente dal punto di vista probatorio, è il confronto dell’impostazione ideologica della Torah con quanto dell’atonismo ci è noto.
La Genesi per esempio, con moniti del tipo (O Adamo), polvere sei e polvere ritornerai (3: 19), parrebbe voler negare la sopravvivenza post mortem - una posizione atonista nella misura in cui, come nei riti osiridei, anche nell’atonismo l’immortalità era di pochi e non di tutti, ed andava conquistata; e comunque, della quale non si ritrovano molte tracce nell’ebraismo posteriore.
Lo stesso possiamo dire dell’idea che l’uomo sia stato creato ad immagine e somiglianza di Dio (1: 27), concezione palesemente ermetica che non trova affatto riscontro nella successiva sfilza di allontanamenti dell’uomo da Dio costituenti un vero e proprio leit motiv dell’Antico Testamento.
È da discutere anche il ruolo rivestito dalla tribù dei Leviti, chiamati da Dio per diritto di nascita al sacerdozio. Da quanto si dice di loro nel Levitico, parrebbero rappresentare i discendenti più diretti degli atonisti di Amarna - severi custodi del monoteismo, del divieto di praticare la magia, dell’immagine di un Dio poco incline a proiettarsi nelle faccende umane - finché la caduta dei Giudici e l’avvento della monarchia, come vengono narrati nel Primo Libro di Samuele, sembrerebbero aver segnato la scomparsa del loro punto di vista.
Samuele avrebbe potuto essere l’ultimo Gran Sacerdote del culto di Aton, costretto dalla pressione popolare a trasferire il potere a Saul. La trasmissione avrebbe avuto luogo per mezzo dell’unzione seguita da un bacio (1° Samuele 10: 1), che è il modo in cui la dignità di Gran Sacerdote di Aton veniva trasmessa.
Invece Saul non era affatto un atonista, ed è possibile che l’autore del Libro di Samuele - i cui favori andavano all’ancien régime piuttosto apertamente - abbia inserito, nel capitolo 9, l’episodio in cui Saul non riesce a ritrovare le proprie asine per far comprendere quanto lo considerasse inadatto al ruolo di Re.
Durante il regno di Saul, fu quasi sul punto di ripetersi ciò che era avvenuto ai giorni di Amarna, quando la fede di Aton era stata rinnegata degli Egizi a causa soprattutto della sua inadeguatezza nelle emergenze. Le guerre continue che Israele era costretto a sostenere con le nazioni confinanti richiedevano una religione in grado di cementare l’unità del popolo e di spingerlo a combattere; e fu per questo, probabilmente, che Saul si dedicò in toto all’idea di trasformare il culto di Aton in quello di Jahvè.
Ma Samuele corse ai ripari consacrando un nuovo Gran Sacerdote, il giovanissimo Davide (1° Samuele 16: 12-13); ed è questa l’ultima volta in cui compare nella Bibbia il rituale atonista dell’unzione.
Quando il Re Saul ne venne a conoscenza, non gli restava altro che passare alle maniere forti, facendo passare a fil di spada ottantacinque sacerdoti e gli abitanti della città di Noh, che li sostenevano (1° Samuele 22: 12-19).
Dopo di questo, Davide - fuggito in esilio - ebbe il tempo di riflettere sull’accaduto, e di concludere che, per evitare il protrarsi senza fine della guerra civile, il culto di Aton e quello di Jahvè dovevano fondersi in una sola religione. Così, quando infine Saul morì ed egli ascese al trono, avrebbe dato l’avvio al culto di Jahvè-Adonai.
Fu senza dubbio proprio allora che molti tratti dell’antica religione andarono perduti, e c’è chi afferma che proprio in quel periodo gli antichi papiri contenenti i rituali di Aton sarebbero stati tradotti dal linguaggio geroglifico all’ebraico; lasciando tuttavia notevoli tracce delle proprie fonti, se nel 2006 Robert Feather ha potuto documentare - ne L’ultimo mistero di Qumran - che i papiri del Mar Morto sono di origine egizia, e così pure una buona parte dell’Antico Testamento.
Per concludere, è da osservare che non solo per l’ebraismo ma anche per il cristianesimo, seppure in misura minore, la certificazione dell’identità Mosè-Akhenaton avrebbe comportato spiacevoli risvolti; soprattutto se pensiamo che da sempre, nella teologia cristiana, alle vicende degli Ebrei contro gli Egizi viene attribuito il valore di una contrapposizione tra il bene e il male.
Già i venti della critica positivista di fine ottocento avevano scosso questa visione, più astorica che antistorica, quando un gigante dell’evoluzionismo (e della Massoneria) come Albert Churchward (1852-1925) aveva sentenziato che i Vangeli canonici possono essere considerati come una raccolta di detti prelevati dai miti e dall’escatologia degli Egizi - destando, con queste parole, una tempesta per certi versi paragonabile a quando la decifrazione dell’epopea babilonese di Utnapishtim aveva posto in discussione il racconto biblico del Diluvio Universale.
Parecchi indizi, che sono quasi prove, della presenza di una radice atonista nel cristianesimo possono essere riscontrate nelle dottrine gnostiche dei primi secoli, per le quali l’interpretazione della figura di Gesù dal punto di vista dell’Ermetismo era - per così dire - obbligata; ma non mi va di rattristare gli integralisti cristiani di oggi con questo discorso, e preferisco accommiatarmi dai lettori con la lapalissiana (ma, in questo caso, non inopportuna) riflessione che uno più uno fa due.


Daniele Mansuino


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