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Riflessioni in forma di conversazioni

Riflessioni in forma di conversazioni

di Doriano Fasoli

Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice


Il neurone bugiardo

Conversazione con Walter Procaccio di Doriano Fasoli per Riflessioni.it

- Febbraio 2020

 

Il neurone bugiardo, Walter ProcaccioWalter Procaccio, psichiatra e psicoterapeuta, ha da poco pubblicato per Cronopio Il neurone bugiardo. Perché psicoanalisi e neuroscienze non hanno quasi nulla da dirsi.

Walter Procaccio,  su cosa mente, il neurone?
Se potessimo amplificare il suono di un neurone di un milione di volte sentiremmo quel brusio che si ascolta passando accanto ad una centrale elettrica. Può mentire un brusio? Ovviamente no. Allora il neurone non mente. Diciamo che il neurone, come tutte le cose della natura fa come gli pare e questo a volte mi procura piacere a volte mi è utile a volte mi procura dolore, anche molto intenso. La morale è che il neurone mi ricorda che io non sono padrone a casa mia, dei miei neuroni.

Passiamo al sottotitolo: nel confronto, sempre più aspro, tra psicoanalisi e neuroscienze quel “quasi” lascia intendere una possibile conciliazione?
Il neurone bugiardo è un testo che si schiera: la psicoanalisi deve studiare di più la filosofia, il pensiero dell’uomo e la sua visione del mondo e non le neuroscienze. Per uno psicanalista, sapere che quel che vede e sente corrisponde a un avvenimento neuronale è una ingenuità imperdonabile. È come sapere che se sono bagnato ho toccato l’acqua. Le neuroscienze, invece, sono un sapere raffinato e ipertecnico, ma di questo si interessa un’altra scienza che non conosce nomi propri ma solo regolarità e ripetizioni di specie.

Dunque la psicoanalisi si rivolge al particolare, le neuroscienze all’universale? Ma non sono entrambe volte a indagare le cause della patologia, che si suppone dotata di una certa regolarità e dunque generalità?
Psicoanalista e medico non possono trascurare un comune punto di partenza: il testo portato dal paziente che entra nel loro studio. La domanda dell’analista è: “cosa significa?”, “per cosa sta?” e non “cosa ha causato questo testo?”. Inoltre se l’analista si domanda “cosa significa?”, si sta ponendo il problema dell’umano che ha davanti, provvisto di nome e cognome; se invece si domanda “cosa ha causato questo testo?” in termini neurologici, sta parlando di un fenomeno riguardante Homo sapiens. Di questo l’analisi non si occupa. Deve resistere a questa tentazione classificatoria. Di questo si occupa la medicina.

Il suo libro ha in alcuni passi un tono decisamente speculativo.
Io so di filosofia come un ciclista attempato della domenica sa di ciclismo. Eppure ho il netto presentimento che se lo psicanalista si arrovella e studia Hegel, Wittegenstein, Spinoza raffina il suo strumento, la psicoanalisi, l’attitudine a significare, infinitamente di più che se studia amigdala, ippocampo ecc.

Ma non crede che lo psicoanalista debba pur sapere qualcosa dell’hardware mentale?
Chi studia l’hardware mentale ha diritto a un pregiudizio: una corrispondenza precisa fra neurone e testo. Guai se il neuroscienziato rinuncia a questo pregiudizio. Il suo modello evapora. Sono modelli complicati che richiedono delle storie formative arcicomplesse.
Qual è il senso per uno psicoanalista di “saperne un po’”, di avere un’infarinatura delle complesse dinamiche di neurologia speculativa? Nessuno. Anzi la mia opinione è che siano solo di disturbo allo psicoanalista in action. Poi a casa sua, sul suo divano lo psicoanalista può arricchire la sua cultura neurologica come vuole a patto di dimenticarle in seduta.
Uno psicanalista deve sapere e saper intercettare tempestivamente una sola cosa: i testi e le parole che hanno smesso di significare, testi e parole ridotte a meri tic, automatismi che sembrano testi ma non lo sono. D’altronde, cosa sono le sindromi psichiatriche se non testi incantati, ripetitivi, ossificati che rendono i pazienti quasi tutti uguali? Se l’automatismo mentale di certe sindromi non viene reso psicofarmacologicamente meno incantato, non c’è spazio per (quasi) nessuna significazione. È su questo ridosso che psicoanalista e psicofarmacologo del real world si parlano, collaborano in santa pace da anni mentre ai convegni e sui giornali si bisticcia.

Dunque esclude che la psicoanalisi possa individuare delle regolarità soggette a leggi, e con queste la causa specifica dei disturbi psichici?
Se accetto che la parola causa abbia un riferimento reale, stia cioè per “una cosa nel mondo” allora esistono i geni, la dopamina, l’infanzia infelice, un lutto precoce, un matrimonio sbagliato, la crisi economica. Il trauma, insomma. La psicoanalisi, questa è la mia personalissima opinione, non cura output individuali di input universalmente ritenuti traumatici e patogeni (non importa se vengono dal coniuge o dal proprio dna). Non si cura dell’Altro, potremmo parafrasare. La psicoanalisi è pratica della propria mancanza e della presenza inconscia dell’Altro che ci abita, primo fra tutti il proprio corpo biologico, naturale, automatico, determinato. Questo è il vero trauma permanente, irredimibile. È una pratica servile al servizio di un IO servile e non padrone. Come lo spieghiamo questo alle neuroscienze senza passare per terrapiattisti?

I numi tutelari della sua ricerca, citati a più riprese, rispondono al nome di Maturana e Varela. Quale ruolo svolgono questi autori nel suo lavoro?
L’autopoiesi di Maturana e Varela e le successive elaborazioni dello stesso Varela sono la migliore formulazione narrativa di un modello di mente coerente e moderno.
La loro rinuncia ai modelli lineari diretti ad uno scopo, costituisce un cambio di sguardo difficile. L’autopoiesi cambia la domanda: “Come ottiene l’organismo l’informazione sul suo ambiente?”  diventa: “Come succede che l’organismo abbia la struttura che gli permette di operare adeguatamente nel medium in cui esiste?”. Non c’è più input non c’è più output e la relazione causa effetto abbaglia e fa sbagliare. Input, output, causa, sono solo artifici grammaticali di un osservatore descrittore. Il modello della autopoiesi ha un solo difetto: è un modello che va preso in blocco, altrimenti non tiene. È una cosmogonia completa che non può compromettersi o ibridarsi: prendere o lasciare. Chiede sforzi prospettici e sacrifici intellettuali dolorosi, al limite del dolore fisico. Vederne il senso è un trauma intellettuale da cui non si torna indietro. Per certi versi scrivere questo libro è stato un tentativo di fissare questo trauma da qualche parte.

L’ultimo capitolo del suo libro è dedicato alla lettura di quanto accade nella stanza di un medico al cospetto di un paziente all’insaputa di entrambi. Sostiene che la psicoanalisi ha qualcosa da dire su quel che accade lì dentro. Non pensa che ci sia il rischio di ingolfare o impacciare una dinamica già delicata, complessa?
La psicoanalisi sa che esiste l’inconscio e sa che quando un medico e un paziente si incontrano alla presenza di fantasmi potenti come malattia, sofferenza e morte, si attivano enormi vettori mossi dai mondi affettivi dei due attori e questo ha effetti. Se dico “effetto placebo” il popolo pensa a prodigi divertenti. La domanda invece è di quelle serissime: come può “niente” causare “qualcosa”, come invece dimostra l’effetto placebo? La psicoanalisi vede semplicemente confermato il suo assioma: i significati (sarebbe meglio dire significanti cioè le parole e i segni) “toccano” i corpi e li cambiano. Il medico può anche chiedere alla psicoanalisi di non essere disturbato ed essere esaudito ma io sono certo che il suo inconscio e quello del paziente non lo esaudiranno mai. Lo disturberanno sempre, è la loro natura.

 

   Doriano Fasoli

 

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