Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Psicoanalisi e cognitivismo
Conversazione con Paolo Roccato (Psicoanalista)
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
Secondo Bion – uno studioso che ha creato proprie categorie semantiche – la psicoanalisi deve trovare al proprio interno, nella sua esperienza, gli strumenti per il filosofare e proporre le sue proprie categorie “scientifiche”. Qual è la sua posizione rispetto al rapporto tra filosofia e psicoanalisi e al bisogno di stabilire il senso di questo rapporto?
Molti aspetti delle svolte postmoderne della filosofia sono dovuti all’incontro con il pensiero psicoanalitico. In epoca postpsicoanalitica è difficile pensare che la mente riesca ad attingere l’Essere. Va già bene se riesce a rendersi sufficientemente conto delle articolazioni intrapsichiche e relazionali all’interno delle proprie soggettive esperienze, dipanate nel corso dell’esistenza.
Non credo che sia competenza della psicoanalisi quella di creare strumenti per filosofare. Credo che atteggiamenti più umili (e collaborativi con altri) siano più adeguati e più fruttuosi.
Uno psicoanalista sufficientemente buono è una persona che sa ascoltare non solo i propri pazienti, ma anche studiosi e cultori di discipline differenti, senza arrogarsi il ruolo di “tuttologo” o ruoli “sovrasapienziali”. Io, agli psicoanalisti, farei – accorato – un invito alla umiltà nel pensare e nel dialogare.
Il problema della vita e della morte esiste anche in psicoanalisi. Ci sono analisi vive e morte, pazienti vivi e morti, psicoanalisti vivi e morti. In noi ci sono, infatti, zone vive e morte. Anche quegli psicoanalisti che non hanno esperienza utilizzano strumenti morti. Morti vuol dire che non hanno imparato dal vivo, che hanno imparato in modo accademico; per cui, quando sono a contatto con il paziente, - come disse per esempio Salomon Resnik -, utilizzano strumenti non adatti alle circostanze, che sono già vecchi. Quale strumento particolare occorrerebbe adottare o cosa occorrerebbe dire per ritornare all’aspetto vivo dell’esperienza psicoanalitica?
Il problema che lei pone c’è, ed è molto serio. Bisogna non dimenticare, però, che le espressioni “vivo” e “morto”, in questo contesto, sono metafore. Ogni aspetto del Sé che ci appare, o che si manifesta, o che comunque si attiva come “morto” in realtà è ben vivo, e si attiva “per far bene”. Sbaglia prospettiva, ma l’intenzione sua è quella di “far bene”.
E lì il tragico, ma è lì anche il bello: è lì quello che rende possibile la psicoterapia.
Bisognerebbe considerare dei casi reali concreti.
Uno psicoanalista che burocratizza il rapporto, rendendolo “morto”, può farlo, per esempio, perché ha “imparato” che quello è un modo che gli garantisce il mantenimento (poniamo) del potere relazionale, che teme invece di perdere se si mette nel campo aperto di una relazione intersoggettiva, cioè “viva”. Vien da immaginare, sempre per continuare in quell’esempio, che egli possa aver fatto sistematiche esperienze di impossibilità di coesistere come soggetto assieme ad un partner con lui interattivo, e che queste esperienze siano risultate per lui fondamentali, in quanto sono avvenute in momenti per lui fortemente strutturanti.
Potrebbe, invece, trattarsi di un ex-bambino (tutti noi siamo “ex-bambini”!) che ha “capito” che – fondamentalmente – lui “non è capace”. Per riuscire, soprattutto in qualcosa di importante, ha “imparato” che deve fare come fanno “gli altri”, soprattutto i “maestri”. Si porrà, allora, come un “imitatore” senz’anima, che cercherà di scimmiottare il proprio analista o i propri supervisori, o magari lo stesso Freud (o quegli aspetti di loro che ritiene particolarmente importanti).
Ma ogni aspetto del “Falso-Sé” è vero, verissimo, costituito di sangue e carne viva del soggetto. Costruito “per far bene”.
È il “senso di verità relazionale” quello che ci segnala – soggettivamente – l’autenticità delle nostre interazioni, comprese quelle psicoanalitiche. Che è anche l’unico piacere che la nostra difficile e faticosa professione ci procura. Allora io credo che si debba puntare su questo piacere. È l’esperienza quasi ineffabile di questo piacere lo strumento che abbiamo per mantenerci “vivi” nel corso del nostro operare professionale.
I giovani cercano, oggi, disperatamente, di essere visibili. I comportamenti espressivi prevalgono sui comportamenti strumentali. I comportamenti espressivi appaiono puramente irrazionali. Non sembra che abbiano uno scopo preciso. Di fatto, non ce l’hanno. Mandano solo segnali. Denunciano una frustrazione crescente. Perché?
Non credo di saper rispondere a questi interrogativi. Non mi trovo a mio agio nelle generalizzazioni. Conosco giovani che vivono, per così dire, solo in funzione della loro “superficie”, e giovani che vivono molto presi dalla loro interiorità. Giovani che interagiscono in modi superficiali e giovani che cercano contatti non solo autentici ma anche profondi.
È vero che è molto diffuso un modo di vita mentale e relazionale “televisivo”, che si colloca (quasi) solo nel presente, che dà valore (quasi) soltanto alla percezione e che (quasi) non conosce la rappresentazione. La televisione, il computer, il cellulare sempre accesi: sempre connessi in contemporanea con tutto e con tutti. Senza alcuno spazio per il desiderio, per la fantasia, per il progetto. In fondo, per il divenire: di sé, della relazione, della storia. Il rischio è che si strutturi, sistematicamente, un mondo della maniacalità, dove la frustrazione non è neppure percepita, perché immediatamente viene attivato qualcos’altro che la cancella prima ancora che abbia lasciato traccia mnestica. Il risultato è che i ragazzi rischiano di non attrezzarsi ad affrontare la vita reale, per la quale è indispensabile saper vivere, saper riconoscere e saper gestire frustrazioni e dolori; saper desiderare piaceri strutturati e strutturanti; saper progettare realizzazioni di se stessi nella realtà; saper stabilire relazioni intersoggettive che sappiano realizzare e sopportare il divenire.
Talvolta, gli atteggiamenti quasi esclusivamente “espressivi” sono il risultato di relazioni fondanti di base che furono improntate alla valorizzazione del solo punto di vista del bambino, senza che fosse sentito come un valore (anche in vista della futura socializzazione) l’insegnamento a cogliere anche i punti di vista delle altre persone. Si tratta di ragazzi e giovani che furono figli di genitori magari molto attenti a loro, ma che hanno frainteso i loro compiti genitoriali: hanno pensato di dover renderli felici nel presente, momento per momento, e non (come invece sarebbe stato preferibile) favorire che si attrezzassero a vivere interamente la loro vita nelle difficoltà. Sono il frutto della “famiglia affettiva” (che Pietropolli-Charmet ne I nuovi adolescenti contrappone alla precedente “famiglia etica”). In essa, del tutto latitante è l’esercizio delle “funzioni paterne” amorevoli di sostegno. Tragico è l’equivoco di considerare queste necessarie funzioni come fossero finalizzate soltanto a far soffrire, e non a sostenere nella realizzazione di sé nel contatto con la realtà. Questi ragazzi e questi giovani, allora, saranno del tutto sprovveduti nelle situazioni in cui la vita impone che essi stessi attivino per se stessi le necessarie realizzative funzioni “paterne” di sostegno, col rischio di permanere in modalità relazionali (con gli altri, con se stessi e con la realtà in genere) di tipo preadolescenziale–adolescenziale.
Nell’ottica psicoanalitica, come potrebbero essere tradotti termini come Anonimato e Responsabilità?
Non lo so. Bisognerebbe considerare il contesto in cui quei termini vengono usati. Così, in generale, col rischio di fare discorsi generici poco significativi e poco incisivi, credo che debbano essere messi in relazione con i termini che designano la soggettività. Chi si pone come soggetto si pone in modo personale e responsabile; chi, per qualunque motivo, non si pone come soggetto, si pone come “anonimo” e come uno che cerca di evitare la propria responsabilità esistenziale.
Doriano Fasoli
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