Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Psicoanalisi e cognitivismo
Conversazione con Paolo Roccato (Psicoanalista)
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
Dottor Roccato, la psicoanalisi è stata sovente presa di mira, criticata, attaccata. Tra i suoi numerosi detrattori chi bisogna annoverare? I portabandiera delle terapie cognitivo-comportamentali, tanto per fare un esempio?
Non mi interessano, né mi hanno mai interessato, i detrattori, né della psicoanalisi né di altro. Discutere con atteggiamento critico è differente dal porsi come “detrattori”.
Spesso, nel corso della storia del pensiero, molte delle critiche fatte a certi atteggiamenti arroganti e supponenti degli psicoanalisti erano sensate e fondate, e male hanno fatto i nostri predecessori a non prenderle adeguatamente sul serio. Mi riferisco, per fare soltanto un esempio, ai modi di affrontare le discussioni che venivano sistematicamente adottati da molti fra i pionieri della psicoanalisi: di fronte a un dissenso, sparavano una “interpretazione” che mirava a squalificare l’interlocutore, definendo il suo pensiero come frutto di pretese “resistenze” contro il “vero” pensiero, che (ovviamente) non poteva che essere che quello psicoanalitico. Atteggiamenti talora magari anche comprensibili, data la condizione di minoranza che si sentiva “assediata” e la consapevolezza dell’importanza delle nuove prospettive; ma non giustificabili sul piano scientifico.
Adesso possiamo dire con tranquillità che molte critiche che nel passato erano state fatte a certi contenuti delle elaborazioni teoriche degli psicoanalisti erano giuste, tanto da essere attualmente condivise anche da molti psicoanalisti: le critiche, per esempio, alla pretesa universalità del complesso edipico; quelle alla “castrazione” (simbolica) come tappa obbligata nell’evoluzione psicosessuale; quelle alla pretesa esistenza di un “autismo primario” e di un “narcisismo primario” come condizioni originarie dello psichismo infantile.
Quanto al rapporto fra la prospettiva cognitivistica e quella psicoanalitica, io ritengo che molti ponti siano possibili e fecondi. Fecondi per entrambe le prospettive. Siamo in molti, tra gli psicoanalisti che ci riteniamo “DOC” (a Denominazione di Origine Controllata), a pensarla così: basti ricordare, qui in Italia, per esempio, a Sergio Bordi, che fu maestro di molti di noi.
Sul piano dell’osservazione dei fenomeni psichici e relazionali, la prospettiva cognitivistica è molto fruttuosa ed è assolutamente imprescindibile, anche per noi psicoanalisti. È poi sul piano della psicoterapia che le divergenze diventano grandi, e questo non per i fondamenti teorici od osservativi, ma soltanto perché, storicamente, i cognitivisti si sono mossi su di un piano comportamentistico, mirando più a far modificare direttamente gli atteggiamenti e i funzionamenti mentali dei pazienti, senza passare attraverso il riconoscimento del senso e dei significati esistenziali delle loro esperienze. Esistono, però, degli psicoterapeuti cognitivisti che non adottano modalità di intervento così meccaniche: io ne conosco parecchi; alcuni vengono in supervisione da me, proprio per cercare di ampliare le loro prospettive sul piano clinico. Io, per contro, ho frequentato seminari e colleghi della prospettiva cognitivistica, ampliando positivamente a mia volta le mie prospettive.
Le racconterò un aneddoto. Un giorno, ormai molti anni fa, fui chiamato ad un seminario sugli attacchi di panico, nel quale venivano presentate differenti prospettive teoriche e cliniche. Fra i relatori c’era anche il cognitivista Prof. Fabio Veglia, (che poi ha aperto una scuola di psicoterapia cognitivistica qui a Torino). Non ci conoscevamo, né direttamente, né indirettamente. Bene. Senza conoscerci, abbiamo presentato la stessa identica relazione, con gli stessi contenuti e gli stessi fondamenti teorico-clinici. Erano due relazioni originali, frutto delle nostre elaborazioni, non copiate da una fonte comune. Lui, in effetti, aveva allargato i propri orizzonti, aprendoli ai movimenti inconsci della mente; io, a mia volta, avevo allargato i miei orizzonti, aprendoli agli aspetti cognitivi dell’esperienza. Quando, poi, in occasione dei Seminari Multipli della SPI a Bologna in quel medesimo anno raccontai, divertito, l’episodio a un gruppo di colleghi, uno di loro, allora Direttore della Rivista di Psicoanalisi, con fare da Monsignore, a metà fra il pensoso e il sollecito, mi disse: “Trovo la cosa davvero preoccupante. Io non ne sarei poi tanto divertito...”. Come vede, gli incontri fecondi possono avvenire anche fuori dai matrimoni sacramentali, ma non sempre sono visti di buon occhio da certe gerarchie “ecclesiastiche”...
Sulla mia visione del rapporto fra cognitivismo e psicoanalisi, potrei ricordare un’altra cosa: nel 1990, al Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana, a Saint Vincent (Aosta), su “Gli affetti nella psicoanalisi”, io ho presentato un mio lavoro dal titolo “Aspetti cognitivi e relazionali dell’emozione”. (1)
Il fatto è che l’essere umano è complesso, ma intero. Ogni prospettiva di studio coglie qualche aspetto della realtà umana. Nell’ambito delle scienze umane, i dati derivanti da una prospettiva devono poter essere integrabili con i dati derivanti da ogni altra prospettiva. Dalla necessità di integrazione nascono critica, contributi nuovi e avanzamento delle conoscenze. Non è quindi minimamente di scandalo che vi siano dissensi fra prospettive differenti. È questa la base per addivenire ad ampliamenti, correzioni e a tentativi di integrazione.
Io debbo molto alle osservazioni e agli studi dei cognitivisti, così come a quelli dei sistemici. E degli antropologi, e degli storici...
Attualmente, quando si parla di “Psicoanalisi”, è d’obbligo specificare a quale delle molte psicoanalisi (plurale!) ci si riferisce. Chi fa d’ogni erba un fascio dimostra prima di tutto di ignorare gli sviluppi e le articolazioni del pensiero psicoanalitico. Per fare un esempio: le prospettive (contemporanee) che partono dalle ricerche di Daniel Stern e quelle (arcaiche) che partono dalle ricerche di Melanie Klein sono così differenti da essere, in molti punti, addirittura inconciliabili. Le une, per esempio, si muovono a partire dalla percezione della realtà e dalle interazioni reali con la realtà, soprattutto umana, per arrivare al mondo relazionale; le altre ipotizzano la fantasia endogena come precostituita rispetto alla percezione e alla relazione reale. Per le une il “mondo interno” è costituito di “mappe” mentali: di sé, della realtà e delle relazioni possibili fra sé e realtà, nonché di “modelli operativi interni”; per le altre, il “mondo interno” è costituito da “personaggi” interni costruiti nella mente sulla base delle spinte pulsionali endogene, confermate o smentite dalle interazioni reali. Io condivido le prospettive fondate sugli studi di Daniel Stern, mentre dissento da molte di quelle aperte dagli studi di Melanie Klein.
Chi mal sopporta “la” psicoanalisi, spesso – giustamente! – mal sopporta l’arroganza (troppo spesso così diffusa fra psicoanalisti) di porre la psicoanalisi in una posizione “meta” rispetto alle altre scienze umane e perfino alle altre modalità di conoscenza: come se la psicoanalisi, occupandosi di inconscio, desse a chi la coltiva la possibilità di criticare e squalificare sotterraneamente ogni altra disciplina e ogni altro pensare o sentire. Io credo, invece, che le ricerche che storicamente sono partite dai vari filoni della psicoanalisi siano sullo stesso identico piano (di valore) di quelle che sono partite da ogni altro filone di ricerca nell’ambito delle scienze umane.
“Uno dei fattori meno contestabili del relativo discredito in cui è caduta la psicoanalisi è la frammentazione del suo sapere, la sua dispersione, al di là di quanto è tollerabile, perché mette in causa la sua unità, e quindi la sua identità, e rende evidente l’assenza di consenso tra gli psicoanalisti”: condivide queste parole di André Green? E tale fattore di cui egli parla è il solo o le cause del problema sono anche altre?
Se io volessi aderire ad una Chiesa, credo che andrei più sul sicuro se mi rivolgessi a una delle molte Chiese religiose esistenti, che almeno avrebbero la garanzia di un collaudo fatto in molti secoli o addirittura in millenni.
A me non importa nulla dell’unità di questo o di quello, né del credito o del discredito di questo o di quello, e tanto meno della pretesa “identità” di una prospettiva scientifica. A me quello che importa è se la conoscenza che deriva da una impostazione è sensata o no, e se è utilizzabile o meno.
Chi potrebbe pensare sensato mettersi a dissertare se sia fonte di discredito per una disciplina il fatto che le ricerche a partire da essa si sono sviluppate in differentissime direzioni? Prendiamo, per esempio, la ricerca storica. Quanti sono i modi di costruire storia? La storia costruita, per esempio, dagli studiosi degli Annales di Parigi (così attenta alla vita quotidiana delle persone comuni) è forse la stessa cosa della storia costruita dal mondo accademico tradizionale (così attenta alle vicende politico-sociali degli “uomini illustri” o delle istituzioni)? Come potrebbe questo differenziarsi di obiettivi, di metodi e perfino di oggetto di studio gettare discredito sulle discipline storiografiche o addirittura sulla storia di per se stessa?
Mi sembrano discussioni così generiche e così “ecclesiastiche”, da non suscitare in me il minimo desiderio di occuparmene. Le ritengo, semplicemente, delle insensatezze. Il loro valore sembra essere “politico”, non scientifico. Per me, fare politica è importante, ma per temi e in ambiti più seri e generali di questi, che si collocano in prospettive miopi, in quanto corporativistiche.
1) Reperibile in: Hautmann Giovanni, Vergine Adamo (a cura di), Gli affetti nella psicoanalisi, Borla, Roma 1991, pagg. 187-190.
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