Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
"'l mal de' fiori"
Conversazione con Carmelo Bene
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- giugno 2005
In ricordo di Carmelo Bene, regista e autore teatrale e cinematografico, intervista (in gran parte inedita) raccolta nel mese di maggio 2000, in occasione dell’uscita, presso Bompiani, del suo poema "'l mal de’ fiori".
"Mi sento sempre più come qualcuno che si spoglia lentamente per andare a letto... Dopo i concerti, il cinema, la letteratura, il teatro, le tante vite vissute e svissute... Una continua sottrazione, uno svestirsi ininterrotto che ancora pare non finire e che non credo finisca in quanto sto ancora scrivendo. Scrivendo la Voce" – mi disse Carmelo Bene, raggiunto nella sua casa di Otranto, dove ormai viveva per quasi metà dell'anno. Zingaro del teatro, "straniero nella propria lingua" (come amava definirsi), egli aveva appena pubblicato per Bompiani 'l mal de' fiori, un poema (la cui presentazione fu affidata a Sergio Fava) salutato dalla critica più accorta come un testo poetico inarginato, irriducibile a contesti, situazioni, geografie espressive: frontale, sprezzante, verticale rispetto a quel minimo di codici entro cui s'inscrive o si rifrange una lingua poetica. "Che c'entra Baudelaire, se non nel rovesciamento del titolo? Come si potrebbe leggere su qualche rivista", dichiarò Bene, aggiungendo: "Baudelaire è un classico: in quanto tale incommentabile, intoccabile eterno una volta per tutte. Non è sfida all'Autore de I fiori del male e tanto meno al paesaggismo (interiore o esteriore) del secolo appena scorso. È una sfida alla potenzialità del linguaggio, alla possibilità di nominazione di presunte 'cose' che stanno al di fuori del che le 'dice' ".
Bene, tu hai affermato di non essersi mai imbattuto prima di questo "'l mal de’ fiori" in una nostalgia delle cose "che non furono mai" in nessuna produzione artistica (letteratura, poesia, musica). Puoi spiegarti più estesamente?
Sono da sempre stato privo d'ogni vocazione poetica intesa come mimesi elegiaca della vita come ricordo, rimpianto degli affetti-paesaggi, mai scaldato dalla "povertà dell'amore", sempre nei versi del poema ridimensionato nella sua funzione di "amor facchino", cortese o no. Riscattato dall'o-sceno demotivato, divino, svuotato una volta per tutte dell'affanno erotico nel suo ossessivo ripetersi senza ritorno.
L'amore è questo quando che s'è stracchi mi si chiudono l'occhi
e 'l sonno è la dimane come a volte
si torna 'ndietro indove s'era stati ch'isso'
forse viventi e trovi 'ncorniciate
gialle fotografie de la svanita
quasi persona 'nsottoscritta stenta de imminome
'Magini gialle stanno e iccome stanno
e tu le fissi che nun ci se' più.
Relegato alle elucubrazioni del Lombroso, il bello/brutto non ha mai sollecitato il sentimento di nessun poeta sempre assillato da una più che smorfiata critica della ragion pratica che, come una veste stregata (camicia di forza), l'ha condannato alla stupidità dell'arte (Rimbaud). Eccettuati certi "privilegi della dannazione" byroniani etc... Malridotti alla menzogna letterata d'un satanismo d'accatto... Questa missione del poeta spessissimo civile-sociale pur se vissuta a volte da qualcuno come disillusione! È un problema? Tutt'altro: non si danno problemi (l'a b c di Gilles Deleuze). Così come in teologia non si danno risposte, ma domande, domande che grazie al cielo continuano sole a divertirmi...
Giornalisti, politici, professori universitari, frigidi calligrafi di testa... pubblicati da storiche case editrici e ospitati in prestigiose collane dove un tempo figuravano John Donne e Juan de la Cruz, Benn ed Esenin...
Secondo te, l'esercitazione poetica è diventata un allenamento di massa?
Sono subissato da infinite mortificanti missive giovanilistiche e no, impregnate di uno sformato verso libero, sintomatiche emulazioni di un qualcosa che i sedicenti autori già da lettori ritengono valore poetico; orrida "voce". Le fonti consacrate dei vati ne sono più che responsabili, dal momento che hanno sempre proposto una "poesia" comunicativa, edificante, a volte satura di decadentismo smidollato, spacciandola impunemente come opera d'arte. Siamo sempre stati vittime d'una poesia che innanzitutto si è sempre beotamente illusa d'essere nel discorso autoriale che tramava. Come se si potesse essere autori di qualcosa! Come se (siamo o no quel che ci manca?) fosse scontato che l'essere parlante sia nel discorso in fieri e non s-parlato dal discorso stesso. Qualunque fare dovrebbe essere un fare altro da ciò che facciamo (anche volendolo nessuno è autore di niente). L'esito non coincide con l'intento come l'effetto non è mai la causa...
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