Riflessioni sulla Simbologia
di Sebastiano B. Brocchi
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I Simboli nello Zen.
L’oggetto, la parola e il gesto sulla via del Satori
Ottobre 2008
Il simbolo é un tramite fra noi (la nostra coscienza) e la Conoscenza eterna. La simbologia è l’alfabeto del libro dell’esistenza. Un simbolo ci fa conoscere, attraverso l’intuizione, le verità astratte da esso racchiuse.
Inoltre, il simbolo è il mezzo per comprendere i segreti, l’ossatura mistica dell’universo, al di là delle spiegazioni razionali, al di là della logica umana, al di là delle apparenze.
Lo sapevano bene i maestri del Buddismo Zen. «Lo Zen, che rifiuta per sé stesso qualsiasi definizione in termini di religione, teologia, metafisica, filosofia» (Christine Young-Merllié, “La Mystique des maitres du Tch’an”, dall’“Encyclopédie des Mystiques”, a cura di Marie-Madelaine Davy, vol. IV); lo Zen, che se “spiegato”, “parlato”, “ragionato”, non è Zen; lo Zen, che è puro Simbolo, basato sulla sola esperienza. Attraverso simboli, siano essi oggetti, parole o gesti, spesso paradossali, spesso totalmente privi di significato, l’apprendista Zen cammina sul sentiero del “Satori” (Risveglio, Illuminazione).
«Numerosi testi Zen raccontano in quali circostanze questo risveglio viene ottenuto da certi individui. Gli avvenimenti più inattesi, spesso i più banali, un colpo, uno shock, una semplice frase del maestro, sembrano essere sufficienti a scatenare questo atto istantaneo di intuizione» (Christine Young-Merllié).
Prendiamo ad esempio il caso di un monaco, che chiese al maestro Tchao-tcheou Tsoung-chen di essere istruito sulla via dello Zen. Il maestro domandò di rimando al monaco: “Hai già fatto colazione?”. L’allievo rispose affermativamente. “In tal caso”, continuò il maestro, “vai a lavare la tua tazza”. In quel momento stesso, lo spirito del monaco fu illuminato.
In ogni autentica tradizione iniziatica, ma nello Zen in particolare, si insiste sulla magia del paradosso, come arma per disarmare la logica, i costrutti della mente, i precetti impartitici. L’Iniziato sa giocare con il paradosso, e anzi, ne fa il suo mezzo d’espressione favorito. L’Alchimia, l’Ermetismo, sono una danza di paradossi. «Un paradosso, dal greco parà (contro) e doxa (opinione), è una conclusione che appare inaccettabile perché sfida un'opinione comune: si tratta, infatti (secondo la definizione che ne dà Mark Sainsbury) di "una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile"» (Wikipedia).
Il linguaggio degli Iniziati sfida senza sosta la mente dei profani, e di questo dovrebbe sempre ricordarsi ogni neofita.
Spesso, questo gioco dei paradossi e dei controsensi porta l’iniziando a credere di dover cercare significati complicati, risposte complesse, e per questo fallisce nel tentativo di comprensione di quegli enigmi che per essere risolti richiedono semplicità e assenza di analisi raziocinante.
“Che cos’è questo?”, chiese il maestro Ioun-men ai suoi discepoli impugnando e mostrando loro un bastone. “Se mi dite che è un bastone andrete dritti all’inferno. Se mi dite che non è un bastone, che cos’è allora?”.
Non bisogna cercare di capire a cosa si riferisca la richiesta di Ioun-men. Essa è un simbolo del paradosso per il quale ogni cosa non è tale in senso assoluto ma lo è in senso particolare.
Un giorno, il maestro Nan-chuan, vide i suoi discepoli discutere a proposito di un gatto. Il maestro raccolse l’animale e disse ai monaci: “Ditemi una parola (ovvero qualcosa che riveli la loro comprensione dello Zen), e questo gatto sarà salvato”. Siccome i discepoli rimasero esitanti e silenziosi, il maestro prese la spada e tranciò in due il corpo del gatto.
Alla sera, Nan-chuan raccontò l’accaduto a Tchao-tcheou, uno dei suoi discepoli che quel giorno di trovava fuori dal convento. Non appena ebbe udito il racconto, Tchao-tcheou prese i suoi sandali e se li mise in testa, andando via. “Se tu fossi stato qui oggi”, osservò il maestro, “il gatto si sarebbe salvato”.
Nel silenzio dei discepoli di fronte alla richiesta di Nan-chuan, possiamo notare l’incapacità del pensiero e dell’espressione verbale di dare una risposta onnicomprensiva ed esaustiva ad una domanda che riguardi la verità in senso assoluto. Nel gesto spontaneo di Tchao-tcheou, al contrario, è facile leggere la necessità di ribaltare la normale visione delle cose per accedere alla comprensione del sacro. Un ribaltamento che è simbolizzato appunto (ovvero reso simbolo) dal porre i sandali sul capo al posto che sui piedi (dove “normalmente” la logica umana è abituata a posizionarli). Avendo messo in opera un simbolo, il discepolo di Nan-chuan trascende l’espressione razionale, e il suo silenzio diventa risposta eloquente al dilemma posto dal maestro. È il suo stesso silenzio, in questo caso, la “parola” in cui è contenuta la spiegazione dello Zen.
Non dimentichiamo inoltre che il gesto del discepolo è stato per lui, evidentemente, una reazione di natura spontanea, e per questo immediata, non premeditata, riconducibile all’innocenza infantile. Tchao-tcheou non pensa a cosa sarebbe giusto dire, non riflette alla miglior risposta possibile. Egli appare libero dalla preoccupazione di compiacere le aspettative del maestro. Agisce in armonia con i dettami della propria coscienza. Tchao-tcheou “è”, non “fa”. Sa che la verità, è in noi e in ogni nostra azione, e nessun maestro avrebbe mai potuto dirgli: “no, questo è sbagliato”. Poiché chi dice “questo è sbagliato” ignora le cause e gli effetti di ciò che vede.
Un giorno un maestro si trovava a bere un tè insieme a due discepoli, e voleva vedere quale dei due avesse compreso più profondamente la natura delle cose. Avendo un ventaglio, lo lanciò ai discepoli, chiedendogli di cosa si trattasse. Il primo discepolo prese il ventaglio e cominciò a sventolarlo per farsi aria. Il secondo discepolo invece, prese il ventaglio, lo usò per grattarsi il collo, poi vi appoggiò sopra una fetta di torta e la passò al maestro, il quale comprese che il secondo discepolo aveva penetrato più a fondo il mistero cosmico.
Il primo discepolo, che pure ha rappresentato con un gesto, con un’immagine, la natura del ventaglio (creando cioé un simbolo che trascendesse l’espressione razionale), non ha dimostrato la capacità del secondo, il quale ha trasceso persino la natura del ventaglio, sradicandolo dal suo ruolo e dalla sua natura ordinaria, liberandolo dai limiti logici impostigli dalla mente umana, dalle sue classificazioni.
In realtà, comprendere i meccanismi che stanno alla base del modo di esprimersi e di trasmettere insegnamenti usato dai maestri Zen in Oriente, aiuterebbe a leggere sotto una nuova luce moltissime opere dell’esoterismo occidentale.
Come in Asia il maestro Pakiao ammonisce il suo discepolo: “Se hai un bastone te ne darò uno. Se non ce l’hai te lo prenderò”; così a Roma l’imperatore Augusto esclama il motto che verrà poi ripreso, secoli più tardi, dall’editore veneto Aldo Manuzio e dall’inglese Conte di Onslow: “Festina lente!” (Affrettati lentamente!). Senza contare quanto autentico e profondo Zen zampilli dalle pagine del “Vangelo dello Pseudo-Tommaso”... o dalla “Tabula Smaragdina”. E, spero sia ben inteso, si tratta solo di pochi esempi di un’infinità che avrei potuto citare. Ho usato lo Zen soltanto come un pretesto, per parlare più in generale di come gli Iniziati comunichino fra loro, e per avvicinare alcuni aspetti della misteriosa “Lingua degli Uccelli”…
Sebastiano B. Brocchi
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