Riflessioni sulla Simbologia
di Sebastiano B. Brocchi
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Schiavi dei simboli.
Il Carnevale e la domanda: “Siamo veramente liberi?”
Febbraio 2009
Immaginate un Rabbino che, passeggiando in un mercatino nel periodo natalizio, decidesse di acquistare un presepe e di portarselo a casa. Immaginate un tifoso del Milan, che decidesse di andare allo stadio vestito con i colori dell’Inter. Immaginate un uomo, eterosessuale, che decidesse di uscire di casa truccato con rimmel e rossetto e vestito con abiti femminili. Immaginate il presidente degli Stati Uniti, che decidesse di issare alla Casa Bianca bandiere russe. Immaginate un’icona in cui la Madonna venisse raffigurata nell’atto (peraltro naturalissimo) di utilizzare un vespasiano. Immaginate un corteo comunista con croci uncinate sui ciondoli e sugli striscioni. Immaginate un emiro arabo spostarsi fra le strade di Dubai guidando una piccola utilitaria da 6.000 euro. Immaginate un intellettuale accademico vestito da rapper; il Papa partecipare al Grande Fratello; o il Dalai Lama giocare con le carte dei Pokemon.
Gli scenari che vi ho invitati ad immaginare, avranno suscitato in voi diverse reazioni, che vanno dalla semplice risata o meraviglia, fino allo sdegno e alla disapprovazione. Notate tuttavia che le vostre reazioni psicologiche sarebbero perlomeno attenuate dalla consapevolezza che si tratta di scenari “assurdi”, che appunto vi ho chiesto soltanto di immaginare… se gli stessi scenari si riproponessero nel mondo reale, nella vita di tutti i giorni, le reazioni da essi suscitati sarebbero sicuramente più violente ed esasperate, in certi casi più che in altri. Mentre alcuni di questi fatti farebbero venir da ridere e magari si limiterebbero a figurare sulle pagine di cronaca di qualche giornale; per altri si parlerebbe di scandalo, di fatto deplorevole, osceno; e in molti degli scenari sopraelencati verrebbero messe in atto il prima possibile severe misure censorie.
Tutto questo, credo, dovrebbe farci riflettere. E farci chiedere se i simboli (religiosi, politici, etnici, economici, sportivi, sociali… poco importa) siano dei nostri strumenti, o al contrario qualcosa che ci governa senza che ce ne rendiamo nemmeno conto. Insomma, chiederci se siamo padroni o schiavi dei simboli.
Infatti, se più volte nei miei libri e nei miei articoli mi sono riferito allo studio dei simboli parlandone come di una via di crescita culturale, intellettuale, ma anche spirituale e coscienziale; questo è vero soltanto se al cospetto dell’immagine simbolica sapremo operare l’imprescindibile atto dell’interpretazione, ovvero di scissione del significato dall’immagine che di tale significato è il veicolo.
Perché, diciamolo, è assurdo pensare che in una società di uomini liberi, gli scenari ipotizzati in apertura siano inaccettabili! Eppure, pensandoci, è come se gli esseri umani, incapaci di appartenersi realmente, cerchino disperatamente un’appartenenza estranea. E, per appartenere a qualcosa, si rendano schiavi, in un certo senso, dei simboli, delle tradizioni e dei ruoli che quella “cosa” (ente, istituzione…) impone come elementi di riconoscimento. Sembra che noi tutti non siamo in grado di conoscerci e riconoscerci per quello che siamo, e che perciò dobbiamo erigere intorno a noi delle maschere che ci permettano (e permettano agli altri) di riconoscerci e di capire “chi e cosa siamo”. Per cui, rivenendo agli esempi iniziali, il Rabbino, per dimostrare la sua “appartenenza” alla religione ebraica, non acquisterà il presepe nel mercatino natalizio, anche se lo trovasse bello semplicemente come opera d’arte; il tifoso del Milan andrà allo stadio sempre e comunque sfoggiando simboli e colori rossoneri, anche se potendo scegliere preferirebbe i colori nerazzurri; l’uomo eterosessuale cercherà di dimostrare la propria virilità vestendosi “da uomo”; il presidente degli USA farà issare sempre e solo bandiere americane alla Casa Bianca; la Madonna dei dipinti non sarà mai ritratta in momenti di vita quotidiana ma soltanto in trono o in preghiera; e così di seguito…
Si potrà obiettare che questa apparente “schiavitù” dei simboli è funzionale all’ordine sociale delle civiltà umane. Il fatto di usare dei simboli di riconoscimento ci aiuta ad orientarci, a capire subito che tipo di persona abbiamo di fronte… è necessario poter distinguere la nazionalità, l’orientamento religioso, politico, sportivo di una persona, oltre che il suo censo, e se possibile il suo mestiere. Quindi il fatto di rispettare certe usanze aiuta a identificarci meglio.
In poche parole, se sono il presidente americano, perché mai dovrei issare bandiere russe? Sarebbe un’assurdità…
Ma in realtà la domanda potrebbe essere più profonda: è veramente necessario che un Americano si distingua da un Russo? Cioè, America e Russia, Americani e Russi, sono soltanto delle idee, e non dei dati di fatto: il pianeta è uno soltanto, l’umanità è una soltanto… i confini e le nazionalità sono delle creazioni artificiali, proprio come le religioni, le squadre sportive, le “caste”, ecc…
Perciò, è vero che la schiavitù dei simboli è necessaria, ma solo se riteniamo necessario il “sistema” in cui questa schiavitù è venuta a crearsi. Un sistema che di fatto è artificiale, convenzionale.
Vi dimostro quanto detto: se consideriamo un Cristiano e un Ebreo, è giusto che il Cristiano acquisti il presepe e l’Ebreo no. Se consideriamo due esseri umani, entrambi sono liberi di comprare o meno il presepe. Se consideriamo un Milanista e un Interista, è giusto che il primo vada allo stadio con la maglietta rossonera e il secondo no. Se consideriamo due esseri umani, entrambi sono liberi di andare allo stadio vestendo dei colori che preferiscono.
È chiaro che l’asservimento al simbolo nasce quando l’essere umano smette di considerarsi tale e sente la necessità di distinguersi. Infatti, quelli che consideriamo simboli di appartenenza, in realtà sono anche, nello stesso tempo, simboli di divisione. L’Americano che considera la sua bandiera un simbolo di appartenenza alla comunità degli Americani, dimentica che essa è anche e in primo luogo un simbolo del suo non essere. Ovvero essa ci informa di cosa egli non è: un Russo, un Arabo, ecc…
Se dico: “Io sono”, sto affermando qualcosa relativo al mio essere. Ma se aggiungo qualcosa alla dichiarazione “Io sono”, dicendo ad esempio “Io sono Comunista”, o “Io sono Nazista”, non sto più soltanto dicendo ciò che sono, ma sto dicendo anche quello che non sono. Questo semplice, quasi banale, concetto, è in realtà alla base di tutte le guerre e le divisioni fra gli uomini.
Credo che Rousseau, trattando del “buon selvaggio”, non si riferisse a qualcosa di molto diverso da ciò che stiamo trattando in questa sede…
È chiaro che allo stato attuale delle cose il discorso può risultare retorico: la civiltà odierna non potrebbe certo tornare allo “stato di natura”. O almeno non prima di un radicale cambiamento di coscienza nell’umanità tutta. Eppure, considerando la cosa dal punto di vista del singolo, all’individuo è data la possibilità di compiere un lavoro di palingenesi e liberazione dai simboli e dai gruppi di appartenenza. In primo luogo, smettendo di identificarsi con questi ultimi. Per esempio, se smetto di essere uno Svizzero e mi considero un uomo nato in Svizzera, avrò fatto un piccolo passo che mi avvicina ad un uomo libero. E così via, con tutte le altre cose.
Inoltre, come già detto, se saprò comprendere che i simboli sono sempre e comunque dei semplici veicoli di conoscenze, e non delle realtà a sé stanti, e saprò dunque interpretarli, senza fermarmi all’immagine manifesta, da schiavo dei simboli sarò divenuto padrone dei simboli. Così, chi comprendesse il significato esoterico, ad esempio del presepe, e capisse quindi che il presepe altro non è che una semplice immagine per rappresentare quel dato significato, avrebbe “estratto” dal simbolo il suo carico di conoscenza. Conoscenza che dunque, una volta “estratta” dal simbolo, diviene conoscenza universale per l’essere umano universale. Mentre il simbolo in sé stesso poteva “parlare” solo al Cristiano e ai Cristiani, il significato del simbolo potrà essere dominio di tutti, poiché liberato dalla sua cerchia di appartenenza.
Perché ho scelto di fare questo discorso in questo particolare periodo dell’anno? Perché in febbraio viene celebrata una festività, il Carnevale, che nel suo significato profondo evoca proprio la liberazione dai simboli. Un ribaltamento che, seppur momentaneo, artificiale, e certamente incompreso dalla maggior parte dei celebranti, permette un periodo di reale affrancamento dall’appartenenza, grazie al quale tutto diventa possibile. A Carnevale, diventa possibile il Milanista vestito da Interista, l’uomo eterosessuale vestito e truccato da donna, l’intellettuale vestito da rapper, il Comunista vestito da Nazista…
«I festeggiamenti si svolgono spesso in pubbliche parate in cui dominano elementi giocosi e fantasiosi; in particolare l'elemento più distintivo del carnevale è la tradizione del mascheramento.
Benché facente parte della tradizione cristiana, i caratteri della celebrazione carnevalesca hanno origini in festività ben più antiche che, ad esempio nelle dionisiache greche e nei saturnali romani, erano espressione del bisogno di un temporaneo scioglimento degli obblighi sociali e delle gerarchie per lasciar posto al rovesciamento dell'ordine, allo scherzo ed anche alla dissolutezza» (da Wikipedia).
L’individuo che partecipa al Carnevale, attraverso la maschera, rinuncia all’identificazione con in propri gruppi d’appartenenza (o li deforma attraverso l’esagerazione e la satira), e allo stesso tempo scopre di essere al di là di ciò con cui si identificava. Scopre che tali identificazioni facevano e fanno parte di un grande gioco in cui tutto cambia e nulla ha realmente importanza in sé: attraverso il ribaltamento carnascialesco, il manovale può essere re, la prostituta può essere monaca, il poliziotto può essere ladro… questo porta a riconsiderare cosa sia realmente parte della nostra identità, cosa sia realmente durevole e “nostro”, al di là delle tante forme e “maschere” che assumiamo nella giostra dell’esistenza…
Carnevale a parte, solo due gruppi di persone, per tradizione, vivono in una dimensione che trascende le “mascherate” mondane, e questi sono i matti e gli Iniziati. Il fatto che un tempo molti sovrani desiderassero avere dei matti come consiglieri (se ne trova una delle migliori trasposizioni letterarie in Shakespeare, ad esempio con “Re Lear”) dimostra come tali re comprendessero o comunque intuissero la strana forza, potere o superiorità di chi era svincolato dal gioco (e dal giogo) dei ruoli e delle identità. Al matto di corte era concesso dire e fare praticamente ciò che voleva, persino deridere il re e le sue scelte. In altre parole quello del matto era un potere che travalicava quello temporale (e nei Tarocchi il Matto senza numero travalica la sequenza numerica di cui anche l’Imperatore e il Papa fanno parte e alla quale sono perciò subordinati).
Per lo stesso motivo molti Iniziati non disdegnavano di passare per matti agli occhi delle folle: a chi era libero, non importava di passare per folle agli occhi di chi era schiavo e non poteva capire, concepire, comprendere una simile libertà.
E quegli stessi Cristiani che hanno passato la loro storia a criticare e censurare chi si prendeva troppe libertà nello sconvolgere simboli e tradizioni religiose (rimanendo scandalizzati, ad esempio, da un Caravaggio che nel Seicento osa ritrarre Maria in abiti e fattezze da popolana; o mettendo in carcere, quattro secoli dopo, un Gerhard Haderer per dei fumetti sulla vita di Gesù), non si rendono conto di aver eletto a loro Dio e Salvatore un personaggio del quale si racconta che curava i malati di sabato contravvenendo alle usanze ebraiche, si scagliava a più riprese contro l’ottusità del clero e compiva gesti che sembravano ribaltare i normali concetti di gerarchia e buonsenso, ad esempio lavando i piedi ai propri discepoli…
«Gesù sapeva di aver avuto dal Padre ogni potere; sapeva pure che era venuto da Dio e che a Dio ritornava. Allora si alzò da tavola, si tolse la veste e si legò un asciugamano intorno ai fianchi, versò l'acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai suoi discepoli. Poi li asciugava con il panno che aveva intorno ai fianchi. Quando arrivò il suo turno, Simon Pietro gli disse: - Signore, tu vuoi lavare i piedi a me? Gesù rispose: - Ora tu non capisci quello che io faccio; lo capirai dopo» (“Vangelo di Giovanni”, 13, 3-7).
Per concludere, questo articolo non vuol’essere certo un manifesto anarchico o un invito a sovvertire le regole. Vorrebbe soltanto far riflettere sulla possibilità che abbiamo tutti noi, di cercare, almeno ogni tanto, di tornare bambini, almeno in coscienza. Tornare cioè ad uno stato in cui cessa l’odio e cessano le ostilità che ovunque dividono e distruggono gli uomini per i motivi più futili. Se ci dimenticassimo di avere mestieri diversi, essere fedeli di religioni diverse, cittadini di stati diversi, simpatizzanti per partiti diversi, tifosi di squadre diverse, ecc., ecc., e ci ricordassimo di essere tutti quanti esseri umani che condividono il dono di abitare questo meraviglioso pianeta, allora forse potremmo respirare per un attimo la brezza di uguaglianza e armonia che il Carnevale fa spirare nelle città, ed essere illuminati dalla luce di quella simbolica fiaccola che la Libertà eleva nei cieli sopra il fiume Hudson, proprio come un’altra fiaccola, in occasione delle Olimpiadi, fa sì che tutti gli stati in guerra depongano le armi e si ritrovino a giocare insieme…
Sebastiano B. Brocchi
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