Riflessioni sulla Simbologia
di Sebastiano B. Brocchi
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Commento al Popol Vuh
Prima parte Settembre 2009
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Prima parte
Avrei esordito dicendo che il "Popol Vuh" è la più grande opera letteraria dell’America precolombiana, ma affermarlo in senso assoluto sarebbe sbagliato. Certo esso, oltre ad essere (cito dagli esperti) "un capolavoro della letteratura mondiale", è il testo principe della civiltà Maya; ma, è necessario precisarlo, è anche uno dei pochissimi frammenti superstiti di quella che, prima della conquista spagnola, era una produzione letteraria vastissima e quanto mai evoluta.
"Insieme con i conquistadores, nelle terre del Guatemala arrivarono molti sacerdoti, i quali, nell’aspirazione di convertire gli indigeni alla "vera" religione, distrussero ogni cosa che potesse avere un nesso con la sacralità locale: templi, statue, colonne, steli e libri di codici. (…) Delle migliaia di codici maya allora esistenti, come riferiscono le cronache, soltanto quattro ne restano oggi al mondo" (dall’introduzione di Ugo Stornaiolo alla traduzione da lui curata del "Popol Vuh").
Il "Popol Vuh" è il libro che contiene la storia della creazione e i miti delle origini tramandati dai Maya-Quiché. Quel che ci interessa maggiormente, in questa sede, è tuttavia l’aulico livello raggiunto dai Maya, con questo testo, nel campo del sapere iniziatico e della simbologia sacra.
Va detto infatti che "fino ai nostri giorni non è stato possibile decifrare tutto il suo significato esoterico, né cogliere la portata storiografica del documento, e ciò semplicemente perché è stato scritto in una lingua simbolica che va oltre la capacità di comprensione per chiunque non sia un Maya-Quiché, anzi, uno vissuto durante la Conquista" (Ugo Stornaiolo).
Non sarà certo il mio contributo a cambiare le cose. In primo luogo non posso ritenermi una voce autorevole nello studio delle civiltà precolombiane; e comunque il mio livello di approfondimento nella lettura del "Popol Vuh" non può che essere marginale rispetto a chi dedica la vita all’analisi e alla traduzione di libri come questo. Perciò mi esprimerò, come è mia consuetudine, a titolo di semplice pensatore, condividendo con voi alcune delle riflessioni natemi dalla lettura di questa "Bibbia dei Maya", come alcuni l’hanno definita.
Alcune constatazioni preliminari: la storiografia accademica ritiene che le civiltà centroamericane abbiano avuto uno sviluppo del tutto indipendente dal resto del mondo, e che di conseguenza la loro cultura non abbia risentito di influenze esterne; mentre un numero per la verità sempre crescente di studiosi arriva a formulare ipotesi in contrasto con questa visione, credendo cioè che dei contatti siano avvenuti, a più riprese, nel corso dei millenni, anche prima della "scoperta" di Colombo. Il fatto che io sia tendenzialmente aperto ad accettare questa seconda linea di pensiero, non influisce sulle mie considerazioni riguardo alla simbologia del "Popol Vuh". Il fatto che in questo libro esistano numerosissimi elementi comuni alla mitologia, all’iconografia e ai testi religiosi ed esoterici delle civiltà africane, asiatiche ed europee, è innegabile. Detto questo, non si può escludere a priori l’idea che tali similitudini siano da ascriversi a all’"inconscio collettivo" di junghiana memoria. Per cui, se mi capiterà di sottolineare similitudini o collegamenti concettuali fra il "Popol Vuh" ed elementi del retaggio culturale del "Vecchio Mondo", sarete liberi di interpretare questi legami come frutto o del caso, o dell’effettiva comunicazione fra separati continenti nelle epoche passate, oppure come segno evidente di un immaginario comune agli esseri umani di diversa origine.
Un’altra premessa che ritengo fondamentale, è ricordarvi che quasi tutti gli antichi racconti creazionistici ("Popol Vuh" compreso), sotto il velame di miti sull’origine del mondo celavano anche, spesso, imprese simboliche legate al cammino iniziatico, allegorie di come doveva essere creato e ordinato il mondo interiore, dal chaos al cosmos, fino alla comparsa dell’essere umano che in questo caso rappresentava l’uomo nuovo, l’Iniziato che avesse compiuto la sua rinascita.
In principio, ci dice il "Popol Vuh", esistevano soltanto il cielo tenebroso e il mare piatto, il silenzio e l’immobilità. Sulle acque, circondato da un bagliore, si trovava Dio. I Maya avevano una concezione della divinità estremamente evoluta e sofisticata: la divinità preesistente alla creazione del mondo, chiamata con molti nomi fra cui Cuore del Cielo, è immaginata duplice: femminile e maschile. Esso è Creatore (femminile, "Colei che concepisce i figli") e Modellatore (maschile, "Colui che li genera"). Questa visione, che richiama il concetto induista del Dio maschio indissolubilmente unito alla sua Shakti, serve a ripartire fin dal principio in modo equilibrato la presenza di Yin e Yang nel racconto della creazione. Il "Popol Vuh" supera in questo modo la dicotomia fra religione patriarcale e religione matriarcale, basandosi sulla constatazione che in natura ogni cosa trae la sua origine dall’equilibrata comunione dei due poli sessuali.
È interessante notare che presso le religioni abramitiche ma soprattutto nel Cristianesimo, la mancanza di un aspetto femminile della divinità è stato sentito ed evidentemente sofferto fin da subito, se consideriamo che al culto vero e proprio di Jaweh e di Cristo si sono affiancati una più che accentuata devozione mariana e, soprattutto in ambito gnostico, una divinizzazione della Sophia divina (che compare anche su alcune icone della Chiesa Ortodossa).
La divinità creatrice nel "Popol Vuh", inoltre, appare svincolata da appartenenze etniche e regionali: non è "il Dio dei Maya", o di qualche popolo eletto o ristretta cerchia di fedeli. Divinità minori di tipo totemico appariranno solo nell’ultima parte del libro, e saranno gli idoli delle varie tribù (penso a Tohil, Auilix o Hacauitz). Ma Cuore del Cielo, il Creatore e Modellatore, è una divinità a carattere universale. In questo i Maya dimostrano di possedere concezioni teologiche estremamente raffinate; come e più di molti popoli del Vecchio Mondo.
La duplice divinità creatrice è chiamata anche Gucumatz (quel "Serpente Piumato" chiamato con diversi nomi dai popoli precolombiani). È sicuramente significativo il fatto che il serpente appaia nei miti creazionistici di moltissimi popoli antichi. Penso ad Ananda, il serpente a sette teste su cui sono assisi Brahma e la sua Shakti, Lakshmi, secondo la tradizione induista. Penso ad Ofione, il serpente del vento boreale con il quale si accoppia la grande Dea Eurinome nel mito pelasgico, partorendo poi l’uovo cosmico. Penso al Serpente Arcobaleno degli Aborigeni australiani…
Il ruolo del serpente in tutti questi miti non è casuale: esso è infatti un simbolo dell’energia, definita dalla moderna fisica come "la capacità di un corpo o di un sistema di compiere un lavoro". La tradizione yogica individua nel serpente la rappresentazione zoomorfa dell’energia generativa (kundalini). In questo senso il serpente è certamente il requisito sine qua non della creazione universale, e si ricollega a quanto detto sul Fuoco Segreto (cfr. "Il Fuoco che anima tutte le cose",).
A smuovere la fissità dell’universo primordiale, il "Popol Vuh" chiama in causa, proprio come il "Vangelo di Giovanni" nel Vecchio Mondo, il Verbo. Compariamo:
"Vi era immobilità e silenzio nell’oscurità, nella notte. Unicamente il Creatore e il Modellatore (…) si trovavano sulle acque circondati di chiarore. (…) Allora giunse la sua Parola. Si riunì qui con il Sovrano Serpente Piumato, qui nell’oscurità, nella notte, e parlarono fra loro e meditarono; si misero d’accordo, congiunsero i loro vocaboli e i loro pensieri. (…) Allora decisero la creazione" ("Popol Vuh").
"In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste" ("Vangelo di Giovanni", 1, 1-2).
Senza dimenticare il logos eracliteo o i diversi inni alla Parola creatrice (Vāk) che troviamo nella tradizione vedica indiana, dove si canta del Verbo (aksaram) nato "al primo brillare dei primi mattini" ("Rig Veda").
Mi sembra fondamentale sottolineare che ""Quelli che conoscono la rivelazione, sanno che questo universo è una trasformazione della parola" (BV I: 120). Questo verso di Bhartrhari, l’illustre filosofo e grammatico sanscrito del V secolo, compendia un tema dominante – quello del potere cosmogonico della Parola – nelle tradizioni esoteriche e religiose, diffuso pressoché universalmente sin dai tempi più remoti" (da Arturo Schwarz, "L’immaginazione alchemica, ancora").
Il racconto creazionistico del "Popol Vuh" prosegue con la creazione del mondo con i suoi monti, boschi, campi, animali. Ci viene detto però che, una volta creati gli animali, il Creatore e Modellatore si scontrano con un primo rilevante ostacolo, accorgendosi che questi non erano in grado di parlare. "Non si palesò la forma del loro linguaggio, e ognuno produceva un grido o un suono diverso. Quando il Creatore e Modellatore (…) si resero conto che non conseguivano di farli parlare, ragionarono fra loro: "Non è stato possibile che pronunciassero i nostri nomi, i nomi dei loro artefici. E questo non sta bene"" ("Popol Vuh"). Da qui la necessità di creare l’essere umano.
Si tratta di un passo fondamentale dal punto di vista esoterico. Simbolicamente, la parola indica, in questo caso, la consapevolezza. Significa cioè che sia sul piano macrocosmico (creazione del mondo, naturale) che su quello microcosmico (creazione interiore, iniziatica), la necessità di raggiungere un livello di coscienza di tipo umano è il requisito perché l’universo creato (natura naturata) prenda consapevolezza della propria Causa (natura naturans).
Ho detto anche sul piano microcosmico della creazione interiore, poiché sub specie interioritatis anche ogni essere umano deve superare il livello di coscienza animale ed acquisire il livello di coscienza definito humanitas prima di poter "pronunciare i nomi dei propri artefici", ovvero ottenere la consapevolezza della propria origine. È questo il dono della nostra condizione umana. Anche i sassi, gli alberi e gli animali hanno ognuno un proprio livello di coscienza, dal più semplice al più complesso, dalla coscienza fisica a quella sentimentale e razionale, ma solo l’essere umano può rendersi conto di essere Dio che osserva sé stesso nel cosmo.
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