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Riflessioni sul Senso della Vita

Riflessioni sul Senso della Vita

di Ivo Nardi

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Riflessioni sul Senso della Vita
Intervista a Umberto Galimberti

Settembre 2013

 

Umberto Galimberti. Dal 1976 è stato professore incaricato di Antropologia Culturale. Conosce e frequenta regolarmente Karl Jaspers, di cui diventa uno dei principali traduttori e divulgatori italiani. Dal 1983 è professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario all’Università Ca’ Foscari di Venezia, titolare della cattedra di Filosofia della Storia e di Psicologia Dinamica. Ha inoltre insegnato Filosofia Morale. Dal 1985 è membro ordinario dell’International Association for Analytical Psychology. Umberto Galimberti ha collaborato con Il Sole 24 Ore e successivamente con La Repubblica. La sua pubblicazione più recente: Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Milano, Feltrinelli, 2012. Intervista 20 settembre 2013.

1) Normalmente le grandi domande sull'esistenza nascono in presenza del dolore, della malattia, della morte e difficilmente in presenza della felicità che tutti rincorriamo...

Questa è una tesi di Umberto Galimberti (sorride), secondo il quale la domanda che uno fa sul senso della vita se la fa quando gli capitano le disgrazie, perché quando gli capita la felicità uno se la mette in tasca e non si chiede il senso della felicità.

 

...cos'è per lei la felicità?

La felicità è l’autorealizzazione di se medesimi, di se stessi, e questa è una definizione di Aristotele il quale ritiene che ogni uomo sia fornito di una vocazione, di una inclinazione, che lui chiama daimon, ciascuno ha il suo demone, il musicista, l’artista, il filosofo, l’uomo che lavora manualmente, e la felicità in greco si dice eudaimonia: "la buona realizzazione del tuo demone". Questa è la definizione di felicità di Aristotele e io sto a questa definizione, l’autorealizzazione, uno se si autorealizza, se fa ciò per cui è chiamato o che è evocato, appunto, è felice.

 

2) Professor Galimberti cos'è per lei l'amore?

L’amore è la destrutturazione del proprio io, l’amore trasforma quello che io sono, mi disorienta, e quindi mi fa fare un passaggio di trasformazione, se invece l’amore mi lascia tale e quale, amore non è. Infatti anche la mitologia greca illustrava amore come un demone che lanciava frecce, deve procurare una ferita alla mia soggettività, un disorientamento, e solo quando io sono violato sono allora preso da amore, altrimenti la cosa mi lascia indifferente.

 

3) Come spiega l'esistenza della sofferenza in ogni sua forma?

La sofferenza fa parte della vita. Per i greci la sofferenza apparteneva alla vita esattamente come la gioia, è stato il cristianesimo a caricare la sofferenza di un valore. Per i greci non aveva nessun valore il soffrire, apparteneva alla natura, perché siccome l’uomo è mortale è chiaro che prima o poi dovrà soffrire per morire, perché non si muore perché ci si ammala, ci si ammala perché di fondo bisogna morire. Il cristianesimo invece ha fornito di senso il dolore, nel senso che riscatta dalle proprie colpe e costituisce la caparra per l’eternità. Il dolore acquista senso solo all’interno della cultura cristiana, fuori da questa cultura è semplicemente un destino al pari della gioia, la vita è fatta di gioia e di dolori e appartiene alla natura dell’uomo soffrire e gioire. Il dolore non ha un particolare significato.

 

4) Cos'è per lei la morte?

La morte; noi cristiani facciamo fatica a concepirla per la semplice ragione che non abbiamo interiorizzato il modello greco: che l’uomo è mortale. In Grecia avevano due parole per dire uomo, avevano la parola aner e la parola anthropos, non le usavano mai, all’epoca di Omero usavano la parola brotos, che vuol dire: colui che è destinato a morire; all’epoca di Platone thnetos: il mortale. I greci la morte la prendono sul serio, i cristiani invece non ci credono alla morte perché pensano che dopo questa vita ce ne sia un’altra, per cui da qui derivano le figure della speranza, della consolazione, che si traducono poi in: “sopporto tutti i dolori della vita tanto poi ce n'è un’altra” e quindi l’accettazione incondizionata della sofferenza. Se noi entriamo nelle chiese e guardiamo l’iconografia che caratterizzano i vari altari, vediamo solo scene di dolore, di sofferenza, di crocifissioni, di cuori infranti.

Io faccio riferimento alla cultura cristiana e alla cultura greca perché sono le due radici dell’occidente, ma sono tra di loro così radicalmente antitetiche.
Cos’è per me la morte? Io sono greco (sorride).

 

5) Sappiamo che siamo nati, sappiamo che moriremo e che in questo spazio temporale viviamo costruendoci un percorso, per alcuni consapevolmente per altri no, quali sono i suoi obiettivi nella vita e cosa fa per concretizzarli?

Io sono un uomo molto previlegiato, per la semplice ragione che ho studiato molto nella mia vita e la mia professione era quella di insegnare quello che avevo pensato.

Oggi ci si trova in una condizione radicalmente opposta, perché qualsiasi professione uno faccia, si trova inserito a realizzare i fini degli apparati di appartenenza e non invece le proprie istanze o la propria vocazione o la propria inclinazione psicologica in ordine all’autorealizzazione. Io ho studiato molti anni, ho cominciato a sei anni e non mi sono mai smosso da un tavolo, però ho avuto il compenso di poter raccontare le cose che ho pensato e di poterle scrivere, quindi la mia condizione non è paragonabile a quella della media degli uomini.

 

6) Abbiamo tutti un progetto esistenziale da compiere?

Un progetto esistenziale ce l’abbiamo, poi ci addoloriamo, ci affliggiamo, perché questo progetto non riusciamo a realizzarlo, ma non per colpa nostra, ma per la ragione che poc’anzi ho detto, esistiamo solo come funzionari di apparati. Dal lunedì al venerdì siamo assorbiti da questi apparati - chiamo apparato la scuola, gli ospedali, tutte le professioni - dopo cinque giorni potremmo occuparci di noi stessi nel week end, ma vista la desuetudine con cui entriamo in rapporto con noi stessi, nel week end fuggiamo da noi stessi come dal peggior nemico.

La difficoltà che oggi ha l’uomo di interiorizzarsi, di conoscere se stesso, perché se non conosci te stesso non ti puoi neanche autorealizzare, e poi quella alienazione, molto più radicale di quella segnalata da Marx, dove io lavoro per l’apparato, per “altro” rispetto a me, rende il progetto irrealizzabile.

 

7) Siamo animali sociali, la vita di ciascuno di noi non avrebbe scopo senza la presenza degli altri, ma ciò nonostante viviamo in un'epoca dove l'individualismo viene sempre più esaltato e questo sembra determinare una involuzione culturale, cosa ne pensa?

Sono perfettamente d’accordo, perché come dice bene Aristotele: “l’uomo non basta a se stesso ha bisogno degli altri”, donde quella definizione: animale sociale, zoòn politikòn.  Il problema è che la nozione di individuo è una nozione cristiana, perché il primato dell’individuo è stato introdotto dal cristianesimo con la nozione di anima, la cosa più importante è salvare l’anima, ecco qui dove nasce l’individuo. Per il mondo greco l’individuo aveva senso all’interno della città, il primato era della città, della società, e non dell’individuo. Con il cristianesimo si capovolge il rapporto, primato dell’individuo, tant’è che a partire da Agostino, dal momento che la cosa importante è salvare l’anima, l’anima la si salva individualmente, allo Stato viene conferito solamente il compito di togliere gli ostacoli che si dovessero frapporre alla salvezza dell’anima e non la realizzazione del bene comune come invece era per i greci. Questo capovolgimento fa si che oggi la chiesa si lamenti dell’eccessivo individualismo, dell’egoismo, ma la nozione di individuo nasce proprio all’interno del cristianesimo con la nozione di anima e quindi è responsabile delle conseguenze.

 

8) Il bene, il male, come possiamo riconoscerli?

Kant diceva che potremmo anche evitare di definire il bene e il male perché ciascuno la differenza la sente - sottolineo questa parola: sentire - la sente naturalmente da sé; oggi non è più così, perché quello che io vedo è una sorta di psicoapatia collettiva. Psicoapatico è là dove la psiche è apatica, non ha la risonanza emotiva delle proprie azioni, dei propri comportamenti, per cui molti giovani - mi riferisco al bullismo, cose di questo genere - percepiscono poco la differenza tra insultare un professore o prenderlo a calci, tra corteggiare una ragazza o stuprarla, ecco, questo vuol dire che la psiche non rileva la differenza tra il bene e il male, vengono sfumate queste configurazioni e questo è molto pericoloso, questa psicoapatia, la psiche che non ti dà il sentire che ciò è buono, ciò è cattivo. Mi ricordo ad esempio quando Erika e Omar hanno ucciso il fratellino e la mamma poi sono usciti e, dice il testo del tribunale, come ogni giorno al bar di fronte a bere la birra, ecco, questo è un momento psicoapatico, hanno fatto due delitti e la loro psiche non ha rilevato la gravità del gesto e come ogni giorno vanno a fare le stesse cose al bar, questo è un momento psicoapatico. Io credo che la psicoapatia, a diversi livelli, si va sempre più diffondendo.

 

9) L'uomo, dalla sua nascita ad oggi è sempre stato angosciato e terrorizzato dall'ignoto, in suo aiuto sono arrivate prima le religioni e poi, con la filosofia, la ragione, cosa ha aiutato lei?

A me ha aiutato la ragione. La ragione, a differenza della religione che ti fa delle promesse esagerate, tipo la vita eterna, la salvezza e tutte queste cose, la ragione ti dà il senso del limite; il senso del limite è una cosa molto importante. Le due massime dell’oracolo di Delfi citato da Platone erano: “Conosci te stesso” e soprattutto: “Evita gli eccessi”; ecco, cosa evita l’eccesso? La razionalità, il ragionamento. Siccome la ragione è limitata e non fa tutte quelle cose che fa la fede, questa dimensione del limite, tipico della ragione, costituisce un elemento di buona condotta, mentre quando trapassiamo il limite della ragione allora nascono quelle dimensioni religiose al limite, a sfondo integralista - integralisti non sono solamente i musulmani, lo siamo anche noi, gran parte - perché non abbiamo interiorizzato il limite della razionalità, perché la fede ci porta a identificarci con scenari che neppure controlliamo.

 

10) Qual è per lei il senso della vita?

Io la domanda sul senso non me la pongo, perché il senso della vita, la parola senso, è una parola che nasce solo all’interno della tribù cristiana, i cristiani concepiscono il tempo come un tempo escatologico - éskhatos è una parola che significa ultimo - dove alla fine si realizza quello che all’inizio era stato annunciato, allora il tempo acquista un senso perché iscritto in un disegno, in un progetto. I greci invece che pensavano che il tempo fosse ciclico, primavera estate autunno inverno, e quindi gli uomini seguivano il destino della natura, la quale natura non ha senso è semplicemente la ripetizione della sua vitalità, non si ponevano il senso della vita, perché il loro tempo non era iscritto in nessun disegno ma era iscritto in un ciclo che era il ciclo naturale. Le ho detto prima che io sono greco e quindi mi pongo in questo ciclo e non mi pongo la domanda del senso.

  • Ringraziamo Stefania Pezzoli del Circolo dei lettori www.circololettori.it per aver reso possibile l'intervista al professor Galimberti.

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