Scrittura e vita, simbiosi perfetta
di Matilde Perriera
Italo Svevo... Perché studiarlo?
Aprile 2015
ITALO SVEVO… La fortuna critica comincia, a partire dal numero speciale a lui dedicato nel 1929 da "Solaria", soprattutto dopo la sua morte… Perché? Certe asprezze espressive potrebbero aver reso difficile un’iniziale intesa tra le sue pagine e il pubblico dei lettori italiani? O gli si rimprovera il coraggio di aver fatto salire alla ribalta le problematiche esistenziali dell’uomo contemporaneo, incapace di partecipare alla vita che pulsa intorno a lui? O, più semplicemente, bisogna dar credito a quella parte della critica che punta il dito sul ritardo, rispetto alle altre letterature europee, del clima culturale italiano d’inizio secolo, inadeguato a comprendere l’angoscia dell'inetto, minato dalla mancanza di energie e indebolito da una sottile malattia della volontà? Come impostare una recensione su un paradigma disarmante, puntellato da incomprensioni, insuccessi, percezioni conflittuali e, poi, l’incidente automobilistico a Motta di Livenza, l’attacco di insufficienza cardiaca, la crisi respiratoria, l'enfisema polmonare, la morte 24 ore dopo, alle ore 14:30 del 13 settembre 1928 … FALLIMENTO TOTALE? … Dicitur …
Aron Hector Schmitz, “assieme a Pirandello, è la voce che può degnamente inserirsi nel coro europeo interessato, in quegli anni, a scoprire il volto enigmatico e oscuro del vivere”(1). Il suo antieroe sottolinea i riverberi che la spirale produttivistica, appesantita dagli imperialismi aggressivi, rimanda alla coscienza collettiva non solo in ambito europeo ma anche in Italia. Privo di possibilità di scelta e di incidenza sul processo complessivo per la “perdita d’aureola, scivolata giù dalla testa nel fango del macadam”(2), è smarrito nella complessità labirintica della vita economico-finanziaria e degli apparati burocratici in cui spicca l’inferno degli egoismi corroborato dalla stridente antinomia fra il principio opportunistico dell’efficienza e l’individuo prigioniero del feroce ingranaggio della società; schiacciato dall’impotenza, assume su di sé tutte le caratteristiche negative del periodo storico vissuto dalla sua generazione e, passivo nei confronti dei drammatici eventi che incombono, può solo rifugiarsi nelle sue fantasie, compensatrici di una realtà frustrante, vagheggiando sogni d'azione da cui è escluso. ITALO SVEVO si sente inaridito, isterilito, svigorito, “con un carattere curvo come la pianta che avrebbe voluto seguire la direzione segnalata dalla radice, ma che ha deviato per farsi strada attraverso pietre che le chiudevano il passaggio”(3).
Fondamentale, per penetrare appieno nella tessitura capillare delle sue creazioni artistiche, è l'ambiente in cui egli si è formato, la Trieste che, prima della Grande Guerra, apparteneva ancora all'impero asburgico; la città giuliana, per la composita posizione di crocevia, in cui convergevano tre civiltà, l’italiana, la tedesca e la slava, era un crogiolo di popoli diversi ulteriormente differenziati dal consistente apporto ebraico in virtù del quale si sarebbe proiettato, nella figura dell'inetto, la condizione del giudeo nella civiltà europea. Bisogna tener conto, ancora, della sua nascita, nella notte tra il 19 e il 20 dicembre 1861, da padre tedesco, Franz, commerciante, e madre italiana, Allegra Moravia, agiata famiglia ebraica, che gli ha consentito di avviare gli studi al collegio di Segnitz in Baviera; benché italofono fin dall'infanzia, ha studiato il tedesco, anche se il percorso è stato completato, a seguito dell'annessione all'Italia della Venezia Giulia, all'istituto commerciale Pasquale Revoltella senza che mai abbia trascurato i classici tedeschi e italiani. La “biculturalità frantumata”(4), seppur Hector non l’abbia vissuta come conflittuale rottura nelle relazioni intra e intersoggettive, ha influito in lui preponderatamene, tanto da spingerlo alla scelta dello pseudonimo di ITALO SVEVO, attraverso cui ufficializzare la sintesi fra “l’italianità del suo sentire e il germanesimo della sua educazione”(5); il nome di battaglia, sin da questo momento, sancirà la particolare posizione di mediazione, da lui assunta, tra la cultura italiana e quella mitteleuropea “che, negli anni ’20 e ’30, ha trasformato la letteratura in un glossario del delirio contemporaneo, in un manuale di geometria delle tenebre”(6).
Collocato in un osservatorio panoramico ricco di robusta cultura, servendosi, con la sua genialità, di filtri letterari formalmente contraddittori e difficilmente conciliabili, ma, in realtà, assimilati in un modo originalmente coerente, porta a maturazione un processo già sperimentato in altre letterature europee e si orienta verso l’adozione del grande romanzo psicologico moderno. Questo andamento gli consente di richiamare, con competente elasticità, la contrapposizione tra lottatori e contemplatori di Schopenhauer, la selettiva e violenta lotta per la vita di Darwin, la condanna della civiltà industriale di Marx, la pluralità dell'io e la critica spietata dei valori borghesi di Nietzsche, le tortuosità e le ambivalenze della psiche profonda di Freud, il Bovarismo e la maniera implacabile di rappresentare la miseria della coscienza piccolo borghese di Flaubert, la lanterninosofia con il relativismo gnoseologico orizzontale e verticale di Pirandello, l'idea di una produzione romanzesca cadenzata dal monologo interiore e tesa allo scavo della coscienza umana di Joyce, lo studio del fluire della memoria di Proust; riesce, in tal modo, a creare una struttura del tutto nuova, concepibile perché egli assume dai diversi pensatori gli strumenti analitici e conoscitivi piuttosto che l'ideologia complessiva. La rottura dello svolgimento cronologico codificato dalla struttura narrativa di Primo Ottocento, con l’andare a ritroso nelle coscienze e la frantumazione dell’unità del personaggio, gli permette di denunziare l’alienazione dell’uomo contemporaneo asfissiato da trappole. I personaggi che vi si dibattono subiscono “lo stesso scacco dello Charlot di Chaplin, esemplificato nell’inquieto, volubile, maldestro tipo umano, per il quale ogni scelta si traduce nella consapevolezza dell’insuccesso di ogni impresa tentata“(7), o del “Paperino di Walt Disney, portavoce della sfortuna più bieca”(8), costantemente bistrattato non solo dagli antagonisti fondamentali impersonati, in primis, dallo zio potente, Paperon de’ Paperoni, o dal ben più fortunato cugino Gastone, ma anche dalla frivola ed esigente fidanzata Paperina, che lo domina e lo assorbe nei suoi capricci. ITALO SVEVO pare scegliere come modelli Zola, Flaubert, Balzac, Verga, ma, sin dalla prima lettura, ci si trova davanti a pagine in cui si proietta quanto si riflette nella psiche di un individuo che, a differenza del superuomo dannunziano aggressivo, energico, vitalistico, si sfalda, lascia vivere i suoi flussi interiori, identificandosi con una predominante atmosfera di stanchezza e di estenuazione spirituale.
UNA VITA(9) è la prima vera prova della nuova tendenza. Anche se, esteriormente, lo schema tardoverista si configura come il racconto di un uomo sconfitto nella lotta per la vita, lo scarto è subito evidente nell’introspezione e nel monologo che mirano a dissolverne l'oggettività. Alfonso è costretto, in seguito al declassamento, a trasferirsi dalla campagna a Trieste e ad accettare un impiego in banca, ma non riesce a stabilire contatti umani. Rinchiuso in un mondo parallelo e distinto dalla superiorità di pensiero, si nutre di saggi e scritti filosofici nel vano sforzo di saldare il destino individuale a quello storico; “sradicato da sé stesso e dalle sue origini, sbaglia sempre i tempi del suo intervento pubblico”(10), per la solida società borghese triestina, i cui i valori fondamentali sono il profitto e la realizzazione pratica, rimane un “diverso” da guardare con sospetto. E’ abulico, velleitario, soggiogato dal padrone prepotente e autoritario, un Paperino inadeguato ad affrontare la sua stessa vita; la sua è “una stanchezza atavica, come se, molto tempo prima, avesse fatto tanta via e che, poi, non lo si fosse lasciato riposare mai più”. In opposizione agli antagonisti rappresentati dal signor Maller, “padre possente e terribile", o da Macario, “il Rivale intelligente anche quando parla di cose che non sa”, è piegato non da cause sociali, ma dall’incapacità interiore, propria del suo modo di essere, di adeguarsi all’automatismo del lavoro, all'utilitarismo dei colleghi, all'organizzazione finanziaria e burocratica, per lui nessuna epifania. “Piccolo e insignificante”, nella lotta impari contro il sistema, si lascia stritolare, con la torturante coscienza di sapersi vittima”(11) dei tanti Macario disinvolti, brillanti, esplosivi, orgogliosi delle splendide “ali di gabbiano”, sicuri di sé nell’esibire narcisisticamente le proprie qualità. Il vantaggioso matrimonio con Annetta potrebbe consentirgli di costruire il tanto agognato riscatto e coltivare i suoi “sogni da megalomane” … Potrebbe … dovrebbe … vorrebbe … ma “chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai, inutilmente starà a guardare gli altri, non li saprà imitare” e, di fronte agli eventi che lo travolgono, conscio del proprio fallimento, affida a una pistola la risoluzione finale.
La vana speranza di dinamismo balza subito nelle pagine di SENILITA’(12), che, concentrate, in apparenza, su un quartetto di interpreti, ruotano, essenzialmente, attorno a Emilio Brentani. Il “retore”, tormentato dal rimpianto di una vita passata ormai inutilmente, sempre teso a costruirsi maschere gratificanti e a interpretare le sue esperienze attraverso schemi letterari, conduce un’esistenza monotona; frenato da un “impieguccio” presso una società di assicurazioni, pur con “una riputazioncella a livello cittadino per aver scritto un romanzo”, si mostra precocemente invecchiato, metafora del chiudersi vittimistico di chi, invano, tenta di sembrare virile ed energico. La tendenza “a ripiegarsi su sé stesso” del trentacinquenne ragioniere assume carattere rilevante anche nella forma e nella sintassi, basate, sostanzialmente, su una struttura che, annullando la visione spazio-temporale delle vicende, amplifica i moti dell’animo e le reazioni alle varie circostanze. Le sue aspettative acquistano il volto dell’Antagonista Stefano Balli, un vincitore naturale che si distingue nel rovesciare in onnipotenza la propria impotenza, compensando i pochi riconoscimenti artistici con i successi da play-boy; la debolezza del suo carattere, invece, si specchia nella “piccola e pallida” Amalia che, consunta nel grigiore dall’amore non ricambiato per l’affascinante casanova, cade in una profonda depressione e si stordisce con l'etere. L’incipit nodale della nuova orditura di SENILITA’ è dato da un “ombrellino caduto in tempo per fornire un pretesto di avvicinarsi”. La vita del “pedante solitario”, infatti, viene solleticata dall’apparizione di “una splendida donna raggiante di gioventù”. Ad Angiolina, il “letterato ozioso”, incalzato dalla “brama insoddisfatta di piaceri e di amore e già l'amarezza di non averne goduto”, si lega oltre ogni previsione, vedendo nella sua Beatrice, angelica e purissima, l’antidoto alla sua “triste inerzia”. Ha, però, “paura del sesso” e, quindi, le precisa di non voler compromettersi in una relazione “giammai più importante di un giocattolo”; nonostante il suo proposito libertino di godere di “un’avventura facile e breve”, il romantico idealista trova nella sua musa “un sollievo che dà a quel tempo della sua vita un aspetto indimenticabile”. In casa Brentani, intanto, si scatena la bufera e la parabola del sognatore tocca il fondo in un’anticlimax crudele. Trova Amalia “delirante, con la voce alteratissima, le guance infiammate, le labbra violacee, la compassionevole nudità” e, dopo la morte di “quella disgraziata” bruciata dalla cirrosi e dall’amore segreto per lo scultore quarantenne, Emilio, in un continuo e inconsapevole autoinganno, pur amandola, smette di frequentare “Giolona". Il suo cuore, però, continuerà a bruciare per “la figlia del popolo" e, quasi a giustificarsi davanti a sé stesso, attua una “strana metamorfosi”, miniando “la ragazza volgare, ignorante e amante dei piaceri sessuali”, dandole l’aspetto della predatrice ingannevole e il carattere della “mite, dolce, virtuosa sorella”. L’inetto, imprigionato negli alibi, nei mascheramenti, nelle finzioni di inesistenti qualità, “solo solo”, si lascia sommergere da quella taciturna “senilità” che, non esperienza cronologica dell’esistenza, si è annunziata nel suo animo, sin dalla prima adolescenza, con la stanca accettazione “di colui cui è stata amputata una parte importante del corpo”.
UNA VITA e SENILITA’, benché vi prevalga l’uso della terza persona singolare, hanno un andamento auto-omodiegetico, eppure la voce narrante non si eclissa del tutto, al contrario interviene, giudica, commenta, smaschera crudelmente i sogni velleitari dei protagonisti; tale strategia non solo dà al lettore una prospettiva più lucida e consapevole, ma, soprattutto, rimarca l'atteggiamento critico di ITALO SVEVO risoluto a demolire gli autoinganni o gli "astratti pensieri” dei protagonisti e a denunziarne l’infondatezza. Le microstorie, quindi, sono costruite su tre diversi disegni strutturali. Il primo quadro sottolinea lo straniamento del narratore con commenti o giudizi secchi e taglienti che irridono, di volta in volta, la condotta di Alfonso e di Emilio; il secondo si affida all’ironia oggettiva che emerge unicamente dalle azioni dei due “vinti”, le cui movenze, pur senza interventi da parte del prosatore, si scontrano in maniera ridicola con la vera personalità; il terzo è incentrato sulla semplice registrazione del linguaggio stereotipato del tipico intellettuale massificato di fine Ottocento. Sono tutti esercizi basilari per l’anatomia analitica di una mentalità e di una cultura pienamente storicizzate, nonché dei suoi preconcetti speculativi, letterari, lessicologici. Si dimostra, di conseguenza, come la “formica letteraria”(13), sottolineando l’interdipendenza tra la macrostoria e i processi psicologici dei singoli, ne colga, pur senza farle oggetto diretto di rappresentazione visibile, le analogie più sottili. I continui filtri letterari, attraverso cui l’impiegato di banca o l’agente delle assicurazioni interpretano quanto scorre davanti ai loro occhi, per di più, permettono al romanziere di proporre in chiave critica la degradazione che i grandi temi culturali del tempo subiscono nell’assimilazione da parte di sbiaditi provinciali, costretti a indossare, per occultare la propria endemica debolezza, l’abito logoro delle convenzioni stereotipate e maschere totalmente estranee agli impulsi della propria psiche. E’ naturale, di contro, chiedersi quale sia l’atteggiamento dell'autore verso le tesi di Macario in UNA VITA o di Stefano Balli in SENILITA’, le respinge o le approva? È difficile stabilirlo. Se, da un lato, infatti, si coglie la condivisione del determinismo darwinistico-schopenhaueriano, si registra, dall’altro, il silente biasimo della rozza brutalità di chi trova un risibile fattore di debolezza nei “voli poetici, inutili, se non dannosi”, di un intellettuale in cerca del proprio equilibrio nel meccanismo elementare e brutale della lotta per l'esistenza.
Questi procedimenti, invitando all’auscultazione delle coscienze, si avvicinano già all’impalcatura de “LA COSCIENZA DI ZENO” … E’possibile parlare, per le opere di ITALO SVEVO, di trilogia narrativa, in cui, progressivamente, si sviluppa una tematica monocorde? O si deve andare alla ricerca, tra le righe del terzo romanzo, di un’evoluzione tanto radicale da farlo considerare il punto d’approdo dell’itinerario letterario dello scrittore? E a quale crescita si dovrebbe alludere se il commerciante triestino, come Alfonso ed Emilio, è un perdente rassegnato che resta in una fase interlocutoria di transizione e si autoinganna, cercando di camuffare la propria sconfitta di uomo già spento? Anche nel terzo romanzo, l’inetto, un ultimo per forza del destino “il cui nome inizia con l'ultima lettera dell'alfabeto”, è fagocitato dagli Antagonisti … e allora?
I vari quesiti richiamano immediatamente un implicito elemento cronologico-costitutivo ben circostanziato. LA COSCIENZA DI ZENO(14), dato l’assoluto insuccesso di UNA VITA e SENILITÀ”(15), appare venticinque anni dopo il secondo romanzo e, certamente, pur in una fedeltà di fondo ai nuclei essenziali dell'ispirazione, ITALO SVEVO non poteva non risentire, nella struttura, nei temi, nelle ripercussioni e nelle soluzioni narrative, non solo del cataclisma della Prima guerra mondiale, ma anche del nuovo quadro storico generato dalle trasformazioni radicali nell'assetto materiale della società europea, nelle concezioni del mondo, nelle correnti filosofiche e artistico- letterarie. Il silenzio dell’autore, comunque, “non può essere considerato un vuoto nel quale, improvvisamente e grazie a un’illuminazione geniale, fiorisce un esito poetico originale e rivoluzionario, ma, in realtà, un periodo di instancabile riflessione verso la maturità umana, culturale ed espressiva”(16), si registra, anzi, “la permanenza, nel suo cervello, di qualche ruota che, girando vertiginosamente, dimostra come non vi sia salvezza fuori della penna”(17); attraverso di essa, rifugiandosi nel disteso territorio del tempo già trascorso, si trova la miglior via per portare a galla, dall’imo del proprio essere, un rimpianto, un dispiacere, qualche cosa di sincero, anatomizzato”(18), con l’obiettivo di neutralizzarlo e ripararsi dalle intemperie del presente. “Lo specchio, in cui codesto caos si ricompone, si riordina e si conclude allo scoppio della Prima guerra mondiale, è la coscienza del protagonista che, sempre rimorsa e sempre innocente”(19), si esplicita attraverso una narrazione in apparenza diacronica condotta nel viaggio della memoria; spicca, però, una visione unilaterale degli avvenimenti, nessuno può contestarne la veridicità perché, in queste pagine, non c'è più il narratore onnisciente che intervenga a smentire le affermazioni sospette, a ristabilire la verità oggettiva, a cogliere, attraverso un’analisi spregiudicata, i recessi più segreti e inconfessabili della coscienza.
Zeno Cosini, interlocutore autodiegetico, si rivela subito un personaggio psicologicamente più multiforme dei precedenti eroi di UNA VITA e SENILITA’; anche se “è fratello spirituale di Emilio e Alfonso”(20), si differenzia dagli altri due sia nella collocazione sociale, in quanto appartiene alla ricca classe media commerciale e non più alla piccola borghesia impiegatizia, sia nella capacità di cogliere il complesso meccanismo di giustificazioni o di alibi a cui è solito ricorrere nella vita di tutti i giorni per non soccombere alla sua malattia morale. Dinanzi a una realtà totalmente aperta e ambigua, in cui non si possono più dare punti di riferimento stabili, amori, contrasti, malintesi, interessi economici, matrimoni, nascite, morti, verità, bugie, chiaroveggenza, cecità entrano in campo e costituiscono l’orditura minuziosa di un libro complesso che ignora la lineare gerarchia cronologica dei fatti, riassumerne la vicenda è impresa disperata. Dalla prima infanzia alla maturità, ne LA COSCIENZA DI ZENO, “il presente dirige il passato come un suonatore d'orchestra i suoi sonatori”(21). Gli eventi sono stemperati in un tempo misto tutto soggettivo che, “incidendo sulla carta dolorosi ricordi”, mescola piani e distanze, “una locomotiva che trascina una sequela di vagoni su per un’erta”, contaminando “ombre lontane” e intrecciandole, con infiniti fili, al presente. Dal monologo interiore, con la trascrizione immediata, senza alcun ordine razionale o sintattico, di tutto ciò che in modo tumultuoso si agita nella psiche, scaturisce una successione di piani sfaccettata dovuta alle progressive modificazioni che ogni reminiscenza, riaffiorando continuamente, assume alla luce delle esperienze successive a cui essa è indissolubilmente annodata. L’esperienza umana della “trascurabile rotellina schiacciata dai grandiosi processi di trasformazione storica”(22), insomma, è spezzata in tanti momenti distinti, diluita in un movimento incessante tra tempo del vissuto e tempo del racconto, ma non quale essa è stata effettivamente, bensì quale essa si rivela nel momento in cui viene rivissuta ed esiste solo nei particolari ricostruiti, facendo risalire alla frantumazione dell’identità dell’antieroe ante litteram.
L’invenzione letteraria del diario, in questo prendere coscienza con le interpretazioni soggettive consce ed inconsce del protagonista, si apre con la “Prefazione”, in cui si racconta, nelle linee generali e con una buona dose di umorismo, la storia di un “perfetto studente scioperato”(23) che, passando da una facoltà universitaria all'altra, non giunge mai a una laurea né si dedica ad alcuna attività seria e che, giunto alla vecchiaia, stende la propria autobiografia per compiacere il "dottor S.". Lo psicoterapeutico, infatti, convinto della funzionalità della scrittura come espediente di autoorganizzazione della personalità, lo invita ad abbandonare il castello inattaccabile della propria innocenza e a mettere a fuoco, attraverso lo scandaglio introspettivo del flashback, persone o atteggiamenti, solo in questo modo potrà aiutarlo a RIcostruirsi e a stigmatizzare le proprie pecche, dal vizio del fumo con la sempre ultima sigaretta, alle interferenze nel lavoro, ai legami di famiglia. Segue il “Preambolo”, una sorta di “vendetta” del medico il quale, infastidito dal paziente, pubblica il manoscritto e rimpiange di non poter fare il suo “commento alla tante bugie” accumulate nelle pagine che seguono; Zeno, infatti, scettico sul potere taumaturgico del trattamento, si era sottratto alle cure prima del previsto, frodando lo specialista del frutto dell’analisi. Il falso momento proemiale introduce il lettore allo snodarsi dei vari capitoli, da quello sul Vizio del Fumo, incentrato sulla debolezza della volontà del protagonista e sui vani tentativi attuati dal “malato” per liberarsi dalla schiavitù della Nuitgrave, a La Morte di Mio Padre, culminato nello schiaffo dato dal genitore morente al figlio, a “La storia del mio matrimonio”, comprovato dalle sue strategie alla ricerca di una moglie in casa Malfenti, a “La moglie e l'amante”, stenografato dallo “squilibrato” con l’intervallarsi fra gli allettanti incontri con Carla e l'amore per la moglie, alla “Storia di un'associazione commerciale”, imperniato sull'impresa economica del cognato Guido che, sull'orlo del fallimento, inscena un suicidio, ma muore perché non salvato in tempo, a “Psico-analisi”, orchestrato sull’assioma secondo cui “la capacità di convivere con la propria patologia è come una persuasione di salute”.
Nell’esasperante percorso a ritroso de LA COSCIENZA DI ZENO, tuttavia, il personaggio si accetta così com'è per una sorta di necessità dell’esistenza, valutando di continuo come si sia mirabilmente realizzato ciò a cui non aveva ambito, dall’assurdo matrimonio con la materna e comprensiva Augusta, all’avventura extraconiugale con Carla in un alternante propensione tra le qualità che adora nella moglie e l’esperienza trasgressiva che ricerca nell’amante, alla fortunata speculazione finanziaria intrapresa a onta di quanto progettato dal suo esuberante socio d’affari che egli, inconsciamente, punisce con l’ ”atto mancato”(24) del corteo funebre di un altro, alla fuga di Ada da Trieste per il Morbo di Basedow che l’affligge. Un momento fondamentale per eccellenza della sua inettitudine, come Alfonso con Annetta ed Emilio con Angiolina, è il confronto con la donna. Zeno, ricco, abulico, nevrastenico, torturato da infinite quanto assurde malattie, sinora ha avuto solo relazioni mercenarie, ciò ferisce il suo orgoglio virile e vuole dimostrare, a sé stesso prima di tutto, di saperne conquistare una. Pare, inizialmente, che ne esca sconfitto, che subisca, senza rendersene conto, il complotto dei Malfenti, che la decisione di chiedere la mano alla “buona, cara, amabile e brutta Augusta” derivi solo da un ripiego sollecitato dal disperato bisogno di integrarsi nella società borghese nel ruolo di buon padre di famiglia e abile uomo d'affari; si può intuire, tuttavia, guardando più a fondo i dati offerti dal narrato, come la meno desiderata delle tre sorelle si riveli proprio la donna cercata dal suo inconscio, “la sposa-madre dolce e comprensiva, disposta ad assisterlo e ad avvolgerlo di amorevoli cure”, la giusta moglie, senza che egli debba far nulla per conquistarla o per lottare contro avversari temibili e patendo tutte le angosce che ne derivano.
I gesti, le affermazioni, le vicissitudini, per tutto il romanzo, rivelano un groviglio complesso di motivazioni ambigue, sempre diverse, spesso addirittura opposte rispetto a quelle dichiarate consapevolmente. Gli atteggiamenti comportamentali più bizzarri e mai del tutto casuali rivelano quei latenti impulsi ostili e aggressivi, alle volte addirittura omicidi, che, malgrado i continui processi di innocentizzazione, lascia trasparire verso i suoi antagonisti. Il racconto termina con un'inquietante profezia di apocalittica distruzione, conseguenza della preparazione di ordigni esplosivi sempre più sofisticati e micidiali, ma, quasi in ossimoro concettuale, “la catastrofe inaudita” è un presagio tragico di salvezza perché “la Terra, ritornata alla forma nebulosa, errerà nei cicli priva di parassiti e di affezioni”. Tali immagini sarebbero metafora dell'impossibilità di risolvere il problema esistenziale dell'uomo? O prolessi delle catastrofi belliche, delle oppressioni nazi-fasciste, dell’efferatezza dei campi di concentramento, dell'incubo di Hiroshima, Nagasaki, Cernobyl, Fukushima … ? O rifrazioni socio-politiche che prevedono lo sfacelo della classe borghese in procinto di cadere su sé stessa? Nell’ultima parte del diario, infatti, il protagonista, dopo aver abbandonato lo strizzacervelli, motiva, frantumandola in quattro pagine dalle date sempre più distanziate, l'interruzione delle sedute e proclama la propria guarigione nel convincimento che “qualunque sforzo di dare la salute è vano”. Questa amara meditazione, con risonanze psicoanalitiche, sociologiche e ontologiche, estende la malattia a tutta l'umanità, perché essa dipende, in sostanza, da una disfunzione congenita alla civiltà del falso progresso. La visione pessimistica pone drammaticamente l’accento sulla “vita attuale inquinata alle radici sin da quando l’uomo ha occupato gli spazi che erano della natura e ha infestato l'aria con i suoi fumi”. Zeno, pertanto, resta un inetto, nulla può contro la propria accidia, per contrastarla dovrebbe prima guarire la società borghese europea stessa incapace di gratificare l’individuo o di fornirgli qualcosa di valido e di significativo in cui credere o a cui aspirare. La sua inefficienza, però, non è più legata, come per Alfonso o Emilio, a un destino individuale, ma a una condizione universale; egli, di conseguenza, si rende conto, pur nella propria incontenibile fiacchezza morale, che i veri malati sono gli altri, adeguati al conformismo imperante, infagottati nella trama complicata di inganni, rimozioni, censure, occultati in abuliche maschere reificate nel gran mare dell’essere. Le ambivalenze, che si traducono nella sua inattendibilità come narratore, assumono, insomma, una funzione straniante e gli consentono di notare quanto sia pericolosa la stabilità in una vita contaminata “da veleni e da altri veleni che servono di contravveleni, solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri; se ci si stabilisce immobilmente in un punto dell'universo, si finisce per inquinarsi”. Zeno Cosini, in definitiva, è un titano tra tanti vinti immersi in questo demistificante mondo in sfacelo e prova compassione verso chi, irrigidito e cristallizzato nel suo angusto giro d'orizzonte, vi aderisce supinamente. Tali assunti dimostrano l’infondatezza del luogo comune, che ancor oggi si sente ripetere, secondo cui il narratore triestino non avrebbe scritto che un unico romanzo.
Anche questo mosaico culturale, come UNA VITA e SENILITA’, però, è accolto dalla critica italiana con indifferenza e ostilità, la reazione del pubblico è glaciale, in un anno e mezzo si vendono appena più di 150 copie, lo si ritiene “un po’ scucito, frammentario, prolisso, anche se di grande interesse psicologico”(25). ITALO SVEVO non coinvolge, perché studiarlo? La domanda, in moto circolare, riporta spontaneamente all’incipit … FALLIMENTO TOTALE? I liceali di 16-17 anni riusciranno a cogliere la profonda trasformazione realizzata dall’autore sul piano della visione del mondo e su quello della tecnica narrativa? Potranno interessarsi a questo microcosmo senza eroi positivi che, in apparenza, non propone un’alternativa? Sapranno trovarvi le armi per reagire contro qualsiasi forma astrattamente convenzionale? Da soli, forse, no, ma, anticipando i gangli fondamentali delle poliedriche tessiture, il Docente dimostrerà come lo sguardo penetrante dello scrittore ”rifletta, senza istinti predicatori e didascalici, gli impulsi dell’anima contemporanea”(26) e dimostri la necessità di danzare insieme nella pioggia per abbattere i muri di acciaio. I ragazzi, così coinvolti, si accosteranno con entusiasmo a questo luminare fortemente problematico, negativo per un verso, come perfetto campione di falsa coscienza borghese, ma anche positivo, come strumento di conoscenza disponibile a ogni forma di sviluppo; riconosceranno in lui uno smascheratore implacabile capace di marcare quanti, accecati, avviluppati nella tetragona immobilità delle loro incrollabili certezze mai sottoposte al vaglio del dubbio critico, a prima vista dominatori incontrastati ma, sostanzialmente, smarrite “muse inquietanti”(27) sclerotizzate che galleggiano alla deriva, non sanno strappare le spesse pareti della gabbia di “morte prematura, non vita” in cui giacciono inermi; afferreranno il senso della grande malattia da lui codificata come paralisi dell'anima con la ferma determinazione di farla salire a galla e interpretarla scientificamente nella speranza di far scaturire, dalle continue frustrazioni, un pessimismo attivo che aiuti a divenire migliori; apprezzeranno come questo “piccolo giudice”(28), congetturando, in ipotiposi, strade diverse da esplorare, diventi, per loro, modello acutissimo di crescita umana e sociale.
Matilde Perriera
NOTE
1) Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, 1988
2) Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi, La perdita d’aureola, 1869
3) Italo Svevo, Un individualista, articolo giovanile, 1878 c.a.
4) La biculturalità frantumata. Intervista a Mourad Kahloula - Prospettive sociali e sanitarie, 2004
5) Italo Svevo, Profilo autobiografico, in Giacomo De Benedetti, Saggi critici, 1986
6) Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste e la Venezia Giulia, in Letteratura italiana. Storia e geografia Vol. III, L’età contemporanea, 1989
7) Benjamin Crémieux, Lettera di Benjamin Cremieux a Italo Svevo, 17 febbraio 1926.
8) Domenico Volpi, Didattica dei Fumetti; 1977
9) Italo Svevo, Una vita, 1892
10) Nicoletta Donati, I. Svevo: crisi del soggetto ed estetica della crisi, 2000
11) Giorgio Luti, Svevo, 1967
12) Italo Svevo, Senilità, 1898
13)Italo Svevo, Pagine di diario, 1924
14) Italo Svevo, La coscienza di Zeno, 1923
15) Italo Svevo, Epistolario, A Enrico Rocca, 24 agosto 1927
16) Mario Lunetta, Invito alla lettura di Svevo, 1983
17) Italo Svevo, Epistolario, A Livia, 6 giugno 1900
18) Italo Svevo, Racconti, saggi, pagine sparse, 1923
19) Eugenio Montale, Omaggio a Italo Svevo, 1925
20) Italo Svevo, Profilo autobiografico, Ibidem
21) Chiara Marasco, www.classicitaliani.it
22) Italo Svevo, Pagine di diario, Ibidem
23) Eugenio Montale, Omaggio a Italo Svevo, 1925
24) Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana , 1901
25) Gabriella Contini, La coscienza di Zeno, 1995
26) Eugenio Montale, Omaggio a Italo Svevo, 1925
27) Giorgio De Chirico, Le muse inquietanti, 1918
28) Leonardo Sciascia, Porte aperte, 1987
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RIFLESSIONI SUL SENSO DELLA VITA 365 MOTIVI PER VIVERE |
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