Riflessioni sulla Mente
di Luciano Peccarisi - indice articoli
Guardare con le mani
luglio 2011
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Dal tatto alla vista
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Guarire dalla cecità?
Che significa vedere? Sappiamo che cos'è il nero o immaginare qualcosa che non è presente, ma se nulla è stato mai visto dalla nascita, come si fa a sapere cos'è il buio, il nero o il nulla? Perché solo i bambini si meravigliano di questo e, infatti, giocano al “po-po sette”? Si coprono con le mani gli occhi e si meravigliano quando li aprono, di quello che a noi non meraviglia più: la visione.
Non possiamo sapere cosa significa non avere alcuna visione. Al massimo comprendiamo il veder tutto nero o immaginiamo l'invisibile che c'è dietro alla nostra nuca. Il non visto è quello che escludiamo dall'esperienza del vedere. Ma occorre prima fare una tale esperienza. Il bambino gode e gioca chiudendo e riaprendo gli occhi; in un determinato istante le cose esistono e poi, nell'istante successivo, non esistono più. Se però non si è visto nulla dalla nascita, la sua esperienza non equivale a veder oscuro o all'esperienza del nero. Anche queste infatti sono sensazioni che egli non ha mai avuto. L'esperienza visiva e gli organi che la consentono non sono comparsi negli esseri umani improvvisamente. E' possibile dimostrare il passaggio graduale dell'occhio dalla sua forma più complessa a uno stato estremamente semplice (ingegneria inversa, la chiamerebbe Dennett) e che quindi sarebbe il risultato finale di una selezione graduale di minuscole deviazioni, utili tuttavia in ogni caso a ogni stadio. Bisogna tener presente, ci insegna Darwin, che una parte che ha svolto originariamente una funzione può essere indirizzata verso un altro uso. Extradattamento o esattamento, come la definisce S. Jay Gould. Darwin, nel suo Saggio del 1844, così scriveva: “Il progressivo mutarsi delle forme, in base al quale i naturalisti prestano fede all'ipotetica metamorfosi di parti dell'orecchio nella vescica natatoria dei pesci e, negli insetti, alla trasformazione delle zampe in mandibole, dimostra in quale modo tutto ciò sia possibile”.
Dal tatto alla vista
Si è scoperto che l'esplorazione tattile comincia anche prima della nascita. I neonati hanno un'ampia capacità di esplorazione tattile, e sembrano trarre beneficio da semplici giocattoli espressamente progettati per aumentare la gamma delle loro esperienze. Prima, quando non c'erano recettori per la vista, tutti erano recettori tattili. Il tatto fornisce una percezione immediata e quindi le risposte devono essere veloci e dirette. Quando alcuni recettori tattili divennero sensibili alla luce e si costituirono in cavità, divennero uno strumento capace di fornire immagini. Fu un'enorme novità per il cervello che fu costretto a ri-progettarsi; il rapporto con gli stimoli visivi risultò capovolto rispetto a quelli tattili. Troviamo oggi che l'emisfero destro serve il lato sinistro del corpo; e l'intero corpo è rappresentato come un omuncolo a testa in giù. Questo abbrevia e semplifica le connessioni trasversali tra visione e tatto. La visione rispetto al tatto fornisce informazioni riguardo al futuro; lo sganciamento dall'immediato è la chiave della percezione indiretta e la culla dell'immaginazione, che poté prendere le distanze dal circostante, concreto e immediato mondo, inventando nuove possibilità e persino impossibilità. L'occhio umano funziona muovendosi continuamente a piccoli scatti, rapidi, chiamati 'saccadi', da un punto fisso all'altro. Sono così rapidi che impediscono la comprensione dell'informazione durante il movimento. Quando l'occhio umano segue un obiettivo in movimento, tuttavia, i movimenti oculari non sono saccadici, bensì lenti, e permettono in questo modo una captazione continua d’informazioni. Evidentemente le percezioni sono il prodotto della successione di questi punti fissi, poiché le rotazioni degli occhi costituiscono i movimenti più veloci del corpo umano. Tuttavia non possiamo competere con le libellule nella visione del movimento veloce. I pipistrelli hanno un altro tipo di visione; vedono col sonar i segnali sonori riflessi dalle prede, come ad esempio dalle farfalline e persino dalle ragnatele dei ragni.
Guarire dalla cecità?
Il termine 'agnosia' fu coniato da Sigmund Freud, quando era un giovane neurologo. Riferito alla perdita della capacità visiva anche se gli occhi funzionano perfettamente. L'incapacità di riconoscere i volti è relativamente comune (anche a me è capitato un caso) ed è chiamata prosopoagnosia. Ma un caso interessante descritto in letteratura è quello di S.B. cieco fin dalla nascita, che a 52 anni fu sottoposto a trapianto di cornea (1). Subito dopo cominciò a vedere ma riconosceva solo le cose che aveva in passato toccato. Quelle che non aveva mai toccato erano viste come cose prive di senso. Noi vediamo molto di più di quanto crediamo di vedere; oltre alle caratteristiche ottiche le caratteristiche segnalate dalla vista possono essere cose come la durezza, pesantezza, spigolosità, piacevolezza, disgusto, derivate spesso dall'interazione con essi. Questa conoscenza deriva dall'avere maneggiato, gustato, udito e trasferito nelle immagini. Un coltello rappresentato in un dipinto sembra abbastanza duro e una gelatina soffice. Al signor S.B. alcune immagini non dicevano niente, per il semplice fatto di non aver mai interagito con esse. Vedeva le cose comuni, sedie, tavoli, autobus, animali, piatti, in base alla esperienza tattile precedente. Raramente trovava le cose strane o interessanti ma sempre incantato dai colori e dal movimento, per esempio dai piccioni di Trafalgar Square. Era terrorizzato dal traffico, mentre prima attraversava la strada senza paura, sollevando il proprio bastone bianco. Il senso del tatto è la fonte primaria sulle informazioni sulle forme e sul modo in cui possono essere impiegati gli oggetti. Senza la conoscenza che proviene inizialmente dalla manipolazione degli oggetti e dall'interazione con questi ultimi è praticamente impossibile che il cervello attribuisca un significato alla visione: ossia veda.
Luciano Peccarisi
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NOTE
1) Gregory R. Vedere attraverso le illusioni, trad. it. Cortina editore, 2010, Milano, pp. 90-93
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