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Superbia e invidia nella Divina Commedia
di Domenico Caruso - Novembre 2022
Il mito greco di Prometeo (“colui che riflette prima”) rappresenta il rapporto degli uomini con gli Dei. In principio si viveva pacificamente assieme, fin quando durante un banchetto l’eroe semidivino fu incaricato a dividere la carne di un bue.
Il Titano, per favorire gli uomini, nascose i pezzi migliori sotto un ammasso di pelle dell’animale e invitò Zeus (re dell’Olimpo, Giove per i Romani)) a scegliere la sua porzione. Quest’ultimo, accortosi dell’inganno, punì gli umani rendendoli mortali e togliendo loro il fuoco, riservato agli dei. Ma Prometeo, con l’aiuto della dea Atena, entrò di notte nell’Olimpo e dal carro di Elio accese una torcia riportando il fuoco sulla Terra. La vendetta di Zeus non si fece attendere: per punizione ordinò ad Efesto di far nascere la prima donna che venne chiamata Pandora. Mandò, quindi, la meravigliosa creatura da Epimeteo (“colui che riflette in ritardo”), fratello di Prometeo, affinché la sposasse. Ma, avvertito dal congiunto, lo “sciocco” la respinse. Allora Zeus fece incatenare Prometeo sulla vetta di un monte, dove un’aquila ogni giorno potesse squarciargli il ventre e rodergli il fegato che veniva riprodotto in eterno. Per far cambiare idea a Zeus, Epimeteo sposò la giovane che, per curiosità, aprì un vaso che il marito teneva nascosto. Ne uscirono tutti i mali, comprese la vecchiaia e la morte, che si sparsero per il mondo. Rimase, in fondo, solo la speranza per dare conforto agli uomini. Dopo tremila anni Ercole, figlio di Zeus, passando sul monte e vedendo Prometeo incatenato, con una freccia trafisse l’aquila e spezzò le catene rendendo libero il prigioniero. Essendo immortale, il Titano venne alfine accolto poco volentieri nell’Olimpo.
Se per il mondo pagano il male è opera del capriccio degli Dei, per la Bibbia nei riguardi della creazione «Dio vide che ciò era buono». (Gn 1, 18)
(I versetti sono ripresi dalla nuova versione ufficiale della Bibbia del 2010).
E, dopo l’uomo, dichiarò: «Non è bene che sia solo: gli voglio fare un aiuto degno di lui». (Gn 2, 18)
Secondo un’altra traduzione, Dio affermò: «Farò per lui un aiuto contro di lui». (Da: «Levi Meier, “Il mistero della vita quotidiana” - Sperling & Kupfer Ed. - Milano 2000). Ciò potrebbe generare qualche perplessità, ma dopo il peccato Adamo si ritrovò nudo e richiamato dal Signore si giustificò: «La donna che tu hai messo vicino a me, mi ha dato dell’albero, e io ho mangiato». (Gn 3, 12)
Superbia e invidia rappresentano due facce della stessa medaglia. Entrambi i peccati capitali si manifestano in relazione agli altri, sia quando si tende a superarli sia quando non ci si rassegna alla loro superiorità. L’invidioso è un superbo frustrato.
Lucifero l’angelo decaduto per l’orgoglio di divenire come Dio, si danna per l’invidia della felicità altrui.
Nella Divina Commedia la sua immagine è orribile:
«S’el fu sì bel com’elli è ora brutto,
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogni lutto». (If XXXIV, 34-36)
(Se Lucifero fu tanto bello quanto ora è brutto e osò alzare lo sguardo superbo verso il Creatore, è necessario che da lui derivi ogni male).
Anche Dante ammette per sé stesso la tendenza alla superbia e ne teme il tormento; gli sembra già di sentire sulle spalle il peso che le anime portano:
«Troppa è più la paura ond’è sospesa
l’anima mia del tormento di sotto,
che già lo ’ncarco di là giù mi pesa». (Pg XIII, 136-138)
Il poeta rivelò d’aver dovuto scontare ben “trecento anni di Purgatorio”, per aver giudicato le persone nella Divina Commedia in base alle sue simpatie e convinzioni politiche, senza alcuno spirito di carità e amore cristiano (cfr. L. Regolo, Natuzza Evolo - Il miracolo di una vita - Mondadori, 2010).
La Commedia è un lungo saldo di conti personali. L’odio per Bonifacio VIII, la cui elezione fu viziata da simonia, per il poeta è l’emblema della corruzione morale della Chiesa. Il Vaticano fu trasformato:
«fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; …». (Pd XXVII, 25-26)
Nell’opera post-mortem “Dalla Terra al Cielo” Dante esorta gli uomini al perdono perché soltanto mettendo da parte l’orgoglio e l’odio l’umanità potrà elevarsi spiritualmente, diversamente: «…il mondo intero potrà perir con schianto!». (Canto XI, 54) L’invidia è un sentimento di malanimo, inconfessabile, aggressivo e velenoso caratterizzato dall’ostilità nascosta verso l’altro.
Deriva dal verbo latino “in-videre” (guardare contro, bieco), che nella cultura popolare si associa al malocchio. In una sorta di contrappeso l’invidioso soffre del dolore che vorrebbe assegnare agli altri. Un detto afferma: «Falsità, calunnia e inganno sono gli strumenti dell’invidia».
La guida, Virgilio, dichiara che la lupa (la cupidigia) uscì dall’Inferno per diffondersi sulla Terra a causa dell’invidia.
Ma «Questi (il veltro) la caccerà per ogni villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla». (If I, 109-111)
Il veltro (cane da caccia) si divide in due sensi, politico e religioso.
Nel primo ci sarebbe l’imperatore, nell’altro il nuovo Papa o il ritorno di Cristo, se non Dante stesso.
L’invidia è come la fiamma divorante che rende insopportabile la visione della gioia altrui, come manifesta un’anima addolorata:
«Però sappi ch’io fui Guido del Duca.
Fu il sangue mio d’invidia sì riarso,
Che, se veduto avessi uom farsi lieto,
Visto m’avresti di livore sparso». (Purg. XIV, 81-84)
Il poeta mette gli invidiosi addossati alla parete del Purgatorio in posa di ciechi che chiedono l’elemosina. Dalle cuciture a fil di ferro delle palpebre trapelano le lacrime. È il contrappasso analogico per avere gli invidiosi gioito in vita del male altrui.
Realistica è la rappresentazione di Ciacco (in fiorentino vuol dire “porco”)
«… ch’a seder si levò, ratto» (If VI, 38)
al passaggio dei due pellegrini (il poeta e Virgilio). Il crapulone, vissuto a Firenze, afferma che poche sono le persone oneste e non ascoltate nella città toscana travagliata da: «superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c’hanno i cuori accesi». (If VI, 74-75)
Ciacco profetizza la vittoria dei Guelfi Neri nel 1301-1302 che causò l’esilio di Dante. L’invidia nell’ambito religioso è contro la Carità, come dimostra il primo omicidio compiuto da Caino contro il fratello Abele, i cui doni venivano molto graditi da Dio. L’invidia è la negazione pratica della fiducia divina e della fraternità umana, un atto idolatrico nel quale l’io si sostituisce a Dio.
L’ultima prova cui fu sottoposto il poeta è la carità che scaturisce dalla fede e dalla speranza. Giovanni, l’Apostolo prediletto di Gesù, chiede quale sia l’oggetto della carità e Dante risponde:
«Lo ben che fa contenta questa corte,
Alfa e O è di quanta scrittura
mi legge Amore o lievemente o forte». (Par. XXVI, 16-18)
(Dio, il Bene che appaga di sé il Paradiso, è principio e fine di tutto ciò che la carità m’insegna ad amare più o meno intensamente).
Concludo con il mio modesto elogio al Sommo Poeta che ha inteso, con la sua opera immortale, riportare l’umanità sulla via del bene e della verità.
A Dante Alighieri
Sei veramente eccelso, padre Dante,
hai posto mano in cielo come a terra:
in Paradiso tutti anche un istante
assaporiam la pace e non la guerra!
Tu, pellegrin pensoso, dolorante
provato hai il peso che ogni cuore serra
se vuole che nel mondo dominante
vi sia giustizia per chi ancora erra.
Da Pietro gran Maestro che la Chiesa
le chiavi ha dato con mano sicura
nutrita hai fede, è la favilla.
Con la speranza, che già ben intesa,
unita alla virtù della Scrittura
scocca di caritade la scintilla!
Domenico Caruso
S. Martino di Taurianova (R.C.)
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