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Mondo e Linguaggio - Sul Possibile E Sul Dicibile
I Concetti "Realtà" "‘Esistere" e "Verità"
Il concetto di ‘verità’ ci ha sempre ossessionato. Noi pensiamo che una nostra credenza sia legittima solamente se la si può identificare come vera; ma che cosa significa che una credenza è vera?
E poi è corretto dire che solo le credenze vere possono essere accettate?
I contenuti delle nostre credenze, ed in generale ogni nostra proposizione, possono essere veri se ci riferiscono come stanno i fatti, falsi se ci riferiscono come non stanno i fatti. E’ proprio per questo che i termini ‘vero’, ‘è vero’, ‘falso’ e ‘è falso’ non sono proprietà di oggetti, bensì solamente dei segni che indicano l’aderire o meno alla realtà della proposizione. (Alcuni si esprimono dicendo che la verità è un mero dispositivo logico.)
La proposizione 'p' è vera se e solo se p. Esemplificando: 'Quel grattacielo è più alto di casa tua' è vero se e solo se quel grattacielo è più alto di casa tua.
Ed è quindi naturale osservare che se una proposizione è discorde o meno con la realtà solo l’osservazione può verificare ciò. E’ per questa ragione che la nostra attenzione deve vertere a come stanno i fatti, e non perdersi nei meandri oscuri della verità in sé. Ciò può sembrare stupido e banale, ma se si osservano molti (presunti) problemi filosofici ci si rende conto di quanto non badino a tale palese osservazione.
Dire che una proposizione è vera se vi è una corrispondenza alla realtà, è ovviamente dire poco, dato che ‘corrispondente alla realtà’ non è stato chiarito. Tale corrispondenza non deve essere intesa in modo occulto, come molti la intendono, come completamente differente dalle procedure in cui confermiamo le proposizioni. Quindi ciò che è vero è ciò che sarebbe confermato se le condizioni di controllo fossero sufficientemente buone, dove ‘sufficientemente buone’ non è un concetto che trascende il mondo e le nostre capacità, bensì possiamo capire con l’esperienza quali sono le condizioni buone o cattive per dare un giudizio.
Alcuni ritengono che esistano ‘verità estetiche’ e ‘verità etiche’. Tale opinione ci rimanda all’osservazione iniziale che affermava quanto noi siamo legati alla parola ‘verità’, tant’è che se crediamo a qualcosa, questa cosa deve essere (o almeno poter essere) vera. Ciò è ovviamente falso perché quando io do un parere estetico non sto proferendo verità, ne verità soggettive, bensì sto dando solo un parere, che non ha nulla a che fare con la verità o falsità.
Frasi come ‘Il tuo bicchiere sta sul tavolo’ può concordare o meno con la realtà, ma come la mettiamo con frasi del tipo (1) ‘La Gioconda è meno bella del L’Urlo’, (2) ‘E’ più giusta la democrazia della monarchia’?
Si può dire che la (1) e la (2) concordano o meno con la realtà? Sì e no.
Sì, perché la (1) può esser intesa come ‘L’Urlo è più conforme a determinati criteri rispetto a La Gioconda’, e la (2) perché può esser intesa come ‘la democrazia è più equa della monarchia’.
No, perché i filosofi intendono tali frasi con significati non così contingenti. Essi chiedono di più, perché è evidente che nessuno negherebbe la possibilità dell’esser vere di tali frasi, intese in quel modo.
Ma cosa vorrebbero dire questi filosofi? Che cosa intendono per ‘verità morali’ e ‘verità estetiche’?
Sicuramente tali termini, qualsiasi cosa dovessero rappresentare, sono gravemente inappropriati: chi volesse portare avanti tali convinzioni dovrebbe utilizzare termini più adatti e comunque chiarire precisamente il loro significato.
Ma ritorniamo al problema iniziale delle proposizioni, nel senso ordinario del termine. Prima abbiamo riportato l’esempio che ‘Quel grattacielo è più alto di casa tua' è vero se e solo se effettivamente quel grattacielo è effettivamente più alto di casa tua. Quindi se mi si dice ‘la tua gatta è sul tuo letto’ io vado in camera mia e controllo il mio letto: se vedo che effettivamente la mia gatta è sopra al mio letto la frase è vera, falsa altrimenti.
La filosofia, però, non si accontenta di ciò. Vuole giungere a proposizioni inoppugnabili, ma è proprio per come è richiesta questa inoppugnabilità che essa diventa irraggiungibile. Anzi, più che irraggiungibile, direi insensata. Il traguardo tanto ardito si chiama ‘realtà assoluta’, detta anche ‘vera realtà’.
Soprattutto questo secondo modo di dire dovrebbe farci scattare un campanellino di allarme: qui è evidente come il linguaggio ci ha costruito un bel trabocchetto!
La realtà assoluta è un concetto al quale non si è dato un significato: non si capisce cos’è veramente, cosa dovremmo attenderci dalla realtà assoluta e come ci accorgeremmo di essa? Il fatto è che tale termine è nato solo da un uso improprio del linguaggio; se ci pare lecito tale uso è solo perché se ne è sentito molto parlare, o meglio, si è sentito parlare molto dello scetticismo totale, che indirettamente sorregge l’idea della sensatezza di una realtà assoluta.
Si potrebbe forse pensare ad un ente che sancisce cosa è vero e cosa è falso nel senso assoluto, ma la soluzione è estremamente ingenua: infatti, anche le parole di tale ente non sarebbero esenti dal dubbio.
Alcuni credono che la realtà assoluta sia composta da proposizioni vere in ogni contesto. Allora è ovvio che ‘La macchina è nel garage’ non è vera assolutamente perché se la macchina fosse nel giardino allora la proposizione sarebbe falsa. Se si accettasse questa impostazione allora bisognerebbe riconoscere che le uniche verità assolute sarebbero le proposizioni vere della logica: le tautologie. Ma è del tutto naturale osservare che a noi interessano quasi esclusivamente le verità non logiche (perché autentiche portatrici di informazione), e che se la macchina è effettivamente nel garage allora la proposizione è vera, anche se non lo è in ogni contesto (o come alcuni dicono metaforicamente: non è vera in ogni mondo possibile).
Il discordo è più facile di quel che sembra e può esser sintetizzato con la banale osservazione: una proposizione perché sia vera non deve esser necessariamente vera in ogni struttura.
Riconoscendo che credere ad una realtà assoluta è un non-senso (per esser precisi c’è da osservare che nell’ultima concezione che ho esposto, quella in cui si identificava la realtà assoluta come l’insieme delle tautologie, il termine ‘realtà assoluta’ non è senza senso, comunque tale convinzione non è affatto problematica), si deve ammettere che credere anche che non vi è una realtà assoluta è un non-senso. O meglio, anche lo scetticismo totale è un non-senso. Lo scettico continua a cercare tale realtà assoluta, non la trova, e sancisce che tutto è illusione. Ma è naturale come anche tale posizione sia insensata.
Lo scettico crede che esistano solamente le immagini del mondo, ossia crede che sia tutto un’illusione. Ma come abbiamo visto ciò è assurdo: io non so che cosa sia una 'realtà assoluta'. Io dico che la realtà è quella in cui vivo: questo basta. Anche perché dal punto di vista linguistico non avrebbe senso parlare di ‘illusioni sistematiche’.
Una domanda interessante e fruttuosa, in questa direzione, potrebbe essere: come fai a dire che ciò che vivi è un’illusione e non la realtà, non è forse solo una convenzione linguistica questa?
Le proposizioni sono descrizioni del mondo (di una parte di esso), ma esistono più descrizioni vere di un fatto, non solamente una.
Se getto a caso dei sassolini sul pavimento di casa mia posso basare la mia descrizioni su differenti fattori: grandezza, attiguità, colore, peso etc…
I nostri interessi determinano la descrizione, ma il mondo non cambia.
La descrizione non è una mera copia dell’oggetto che si intende copiare, bensì tale descrizione viene modellata dalle nostre scelte concettuali, influenzate dalla nostra natura, dalla nostra cultura e, in particolare, dai nostri interessi: i linguaggi sono infatti funzionali a dei particolare scopi. Kant si accorse di questo, ma sbagliò volendo andare oltre, credendo che se la descrizione è modellata dalle nostre scelte concettuali allora noi non stiamo descrivendo il mondo, non giungiamo alla cosa come essa è in realtà (notiamo che il noumeno richiama il concetto di realtà assoluta: concetto che io ritengo, nella maggior parte dei casi, vuoto, e nei rimanenti non problematico).
In particolare l’errore che fece è rappresentato dalla domanda “Se le descrizioni del mondo sono solo che le nostre descrizioni del mondo, dipendenti da fattori che ci riguardano, allora qual è la descrizione del mondo come il mondo è in sé?”.
Questo ‘in sé’ (come ‘realtà assoluta’) è un termine senza senso: chiedersi “qual è la descrizione del mondo come il mondo è in sé?” equivarrebbe a chiedersi “qual è la descrizione del mondo nel linguaggio proprio del mondo”, ma noi sappiamo che tale linguaggio non esiste, perché esistono solo linguaggi umani funzionali a scopi umani.(Notare che se non ha senso affermare che “è possibile descrivere il mondo come è in sé” non ha senso neppure la negazione “non è possibile descrivere il mondo come è in sé”.)
Di fondamentale importanza è il principi di fallibilità: si può dubitare di qualcosa, ma non si può estendere il dubbio ad ogni cosa. Che io abbia sbagliato riguardo ad alcune questioni, anche su quelle più importanti e basilari, non mi può far dubitare su ogni mia credenza. (Anche se una volta si credeva erroneamente all’esistenza di draghi, ciò non mi può far dubitare che ora io abbia un mio appartamento.)
Molti pensano che l’inevitabile conseguenza del fatto che una particolare conoscenza potrebbe essere messa in discussione sia lo scetticismo totale: questo non è affatto vero.
“Dubitare solo dove si ha ragioni per farlo” questa è la massima da seguire; ma quali sono queste ragioni? Esiste un algoritmo grazie al quale possiamo giungere all’inoppugnabile?
No, un tale algoritmo non può esistere per il semplice fatto che raggiungere certezze epistemologiche immutabili è solo una fantasia metafisica.
La ricerca non è un algoritmo, o un metodo ben precisabile, ma ciò non significato che non la ricerca non sia attuabile: la ricerca è costituita (anziché da un procedimento universale e immutabile) da un team di ricercatori che tentano di escogitare delle buone idee e le mettono alla prova costantemente: vi è un’iterazione profonda tra l’ambiente e i ricercatori, non vi è semplicemente un’osservazione passiva.
Provare a mettere costantemente sotto pressione le nostre teorie, cercando controesempi e altro che possa falsificarle, è una impostazione chiamata ‘sperimentalismo’ ed essenziale per giungere ad un fallibilismo genuino e costruttivo.
Io dico che quello di poco fa era un sogno perché posso confrontarlo con il mondo, dunque parlare della mia esistenza come fosse un sogno è privo di significato.
Chiarificazione di questo uso linguistico. Vivo una vicenda, poi mi sveglio e inizio il racconto di ciò che ho vissuto; dopo mi insegnano e mi correggono: prima del racconto (così mi dicono) metti ‘Ho sognato che’.
Ancora sul sogno: è possibile che una persona stia sognando, credendo di star vivendo realmente; ma se noi volessimo estendere tale dubbio su noi stessi si verificherebbe un problema non da poco. Affermando, nel sogno, “Noi non stiamo vivendo nel mondo, ma soltanto in un sogno” non si esprimerebbe effettivamente ciò che si vorrebbe per due distinti motivi: 1) il fatto è che tale espressione rientra anch’essa nel sogno e 2) anche il fatto che queste parole abbiano un significato rientra nel sogno.
Da ciò si deduce che non è possibile esprimere un dubbio scettico totale sulla nostra stessa vita.
Cosa abbiamo in mente quando affermiamo che qualcosa esiste?
‘Esistere’ è da definire, non può essere preso come segno primitivo, pena la totale confusione linguistica.
Penso che non vi sia un solo tipo di esistenza, senza allontanarsi troppo dal senso comune.
Vi sono quattro tipi distinti di esistenza: ideale, diretta, funzionale ed elementare.
Esistenza Ideale: un numero, un insieme, superman, etc… esistono idealmente, ossia esistono dal momento e per il momento che li pensiamo. I pensieri sono fatti e dunque gli oggetti del pensiero esistono.
C’è però una cosa fondamentale da notare, infatti, dal momento che questi oggetti non si pensano più cessano di esistere. (Inoltre, istantaneamente possiamo cambiare arbitrariamente le proprietà degli oggetti.) Un oggetto che esiste idealmente è legato indissolubilmente ad un altro oggetto. Dunque gli oggetti e i fatti pensati sono detti ‘fortemente dipendenti’.
(Ovviamente in questo scritto si parlerà di esistenza, escludendo l’esistenza ideale, per evitare confusione: qui si è interessati al mondo e non ai pensieri.)
Esistenza Diretta, o del senso comune: ciò che viene percepito, ossia i dati esterni che apprezziamo tramite i 5 sensi. Inoltre, fa parte di questa categoria tutto ciò che viene rilevato da apparecchiature di osservazione.
Esistenza Funzionale: fanno parte di questo insieme le entità (chiamate entità-modello) che mai potremo rilevare, ma che in campo scientifico sono assunte perché utili per lo scopo della scienza: prevedere gli eventi. Ovviamente i modelli costruiti a partire da queste entità-modello sono stati ideati perché isomorfi al mondo (più precisamente: i modelli si immergono nel mondo). Quindi, operativamente, studio questi modelli e deduco qualcosa del mondo.
Esistenza elementare: è il senso di ‘esistenza’ più lato concepibile, in cui si può discutere anche di entità non percepibili neppure teoricamente. Ossia si discute di oggetti non presupponendo individui in grado di percepirli. E’ di ciò di cui la filosofia si occupa continuamente.
Anche se la filosofia si occupa principalmente dell’esistenza elementare, non bisogna dimenticare l’importanza e la centralità che possiede il concetto di ‘esistenza diretta’ (in realtà è proprio qui che si verificano le proposizioni). Se ci si dimentica di questo si perde il contatto con il mondo e si cade nel nichilismo assoluto o nell’idealismo.
Se ci concentrassimo solamente sul concetto di ‘esistenza elementare’ filosoferemmo su una “struttura minima comune”, ossia su una struttura supergenerica senza particolari, quindi non sul mondo. Questo genere di analisi può essere utile ma non deve portarci all’annullamento del mondo.
Noi non vogliamo perdere il mondo!
A noi interessa il mondo e questo ci legittima in pieno a prenderlo in considerazione seriamente.
Ma perché, poco più sopra, mi sono spinto alla definizione di esistenza, o meglio alle varie definizioni?
Wittgenstein scrive “L’essenza è espressa nella grammatica”; “Che tipo di oggetto una cosa sia: questo dice la grammatica”.
Io all’inizio di questo scritto ho affermato “Innanzitutto và dichiarato che vi è una struttura che è formata da elementi (che chiamerò spesso ‘oggetti’) e relazioni tra questi elementi (che chiamerò ‘fatti’). Tra le infinite strutture logicamente legittime, la struttura su cui noi desideriamo maggiormente concentrare il nostro studio è quella in cui viviamo. La struttura in cui viviamo io la chiamo ‘mondo’. Nella mia definizione, il mondo è esattamente la realtà”. Ovviamente ciò che viene identificato con l’oggetto e ciò che il linguaggio ci permette di identificare come tale, di conseguenza anche le relazioni dipendono da ciò che il linguaggio accetta: quindi non vi è una totalità di proposizioni ben definita perché il linguaggio cambia continuamente.
Una persona potrebbe vedere un bicchiere di vetro contenente dell’acqua e domandare “chi ci assicura che quel bicchiere sia effettivamente di vetro?” e “chi ci assicura che quel liquido nel bicchiere sia effettivamente acqua?”, poi vedere un gatto che si avvicina al bicchiere annusandolo e domandare “chi ci assicura che quel gatto sia effettivamente un gatto?” (domande tipiche di uno scettico radicale).
Tali domande in alcuni contesti sono più che legittime, ma per rispondere in modo definitivo non serve l’onniscienza divina, come molti credono, bensì, nella maggior parte dei casi, servono procedure abbastanza semplici: noi abbiamo definito cosa significa ‘vetro’, ‘acqua’ e ‘gatto’. Quindi basterà esaminare la struttura chimica del presunto vetro e della presunta acqua e il gioco è fatto! Per il presunto gatto basterà individuare le caratteristiche che deve possedere un gatto (forma del corpo, …).
Noi abbiamo definito alcuni termini e basterà vedere se gli oggetti soddisfino le richieste di tali definizioni e si identificherà il segno con l’oggetto. (Ovviamente esistono definizioni vaghe, oppure un oggetto può soddisfare in una certa percentuale una data definizione.)
Qui ritorniamo al motivo delle definizioni dei vari tipi di esistenza. Infatti è palese che se non si chiarisce il significato del termine ‘esistenza’, cioè non si propone una definizione, allora la domanda “Ma esiste veramente quel camion?” non ha proprio senso. Citando Austin (Le altre menti): “Il trucco del metafisico consiste nel chiedere: ‘E’ realmente un tavolo?’ senza specificare, senza delimitare che cosa c’è che non va, così che non si sa da che parte cominciare per ‘provare’ che è realmente un tavolo”.
Tutto questo dovrebbe convincere ulteriormente quanto il problema dello scetticismo radicale sia un problema meramente linguistico, e quindi risolvibile linguisitcamente.
Il fisicalismo afferma che ogni questione è riducibile alla fisica e, in generale, agli oggetti fisici. Nel Circolo di Vienna, dove il linguaggio aveva un ruolo primario, si tradusse tale precetto fattuale ad uno sintattico: tutti gli enunciati di ogni linguaggio sono equipollenti ad enunciati del linguaggio della fisica e del mondo fisico.
Si consideri l’esempio carnapiano (Filosofia e sintassi logica): l’enunciato psicologico “alle dici il signor A era adirato” è equipollente all’enunciato del linguaggio fisico “alle dieci il signor A era in una certa condizione corporea che è caratteristica dall’accelerazione della respirazione e delle pulsazioni, dalla tensione di certi muscoli, dalla tendenza ad un certo comportamento violento, e così via”.
Carnap poco dopo si chiede se effettivamente ad ogni qualità psicologica ne corrisponda una fisica, cito “La mia risposta è che non vi può essere nel linguaggio psicologico una tale intraducibile segno di qualità o predicato. Poiché se in questo linguaggio vi è un predicato ‘Q1’ dotato di significato, allora l’enunciato ‘Q1(A,t1)’ deve essere empiricamente controllabile; lo psicologo deve essere in grado di riconoscere nelle opportune circostanze se la persona A è nella condizione Q1 o no”.
Qui Carnap commette uno sbaglio banale: non per forza tutti gli stati psicologici devono essere controllati dallo psicologo. L’errore è una conseguenza dell’avere abbracciato il verificazionismo, precetto filosofico che impone la verificabilità empirica per assegnare significanza ad una proposizione. Basterà quindi scardinare il verificazionismo per vedere, di conseguenza, l’abbattimento del fisicalismo.
Il fisicalismo apprezza solo una parte del mondo. Se io mi chiedessi se esiste l’Aldilà, per il fisicalismo sarebbe una domanda insensata, infatti se dovesse esistere, sarebbe un luogo non misurabile con oggetti non misurabili; in più, non si potrebbe verificare in vita.
Ma come può una domanda del tipo “Dopo la morte del corpo, l’Io sopravvive?” essere insensata?
Infatti ad ogni segno corrisponde un significato (i significati di ‘morte’ e ‘Io’ verranno esplicitati più avanti): allora il fisicalismo è solo parziale ed incompleto.
Ho definito l’esistenza elementare, ma un verificazionista non accetterebbe mai una definizione del genere ed è per questo che mi accingo a mostrare come il Verificazionismo non sia una posizione sostenibile. Ma, prima ancora di mostrare la fallacia del verificazionismo, cercherò prima di tutto di presentarlo, distinguendo tra due distinte ramificazioni.
Sia il verificazionismo forte sia quello debole affermano che il senso di una proposizione è il metodo di verifica di questa, e quindi che se una proposizione non è verificabile questa non ha senso, cioè è una pseudo-proposizione; le due concezioni si differenziano sull’enfasi che si da al termine ‘verificare’.
Il verificazionismo (entrambe le concezioni) assume che vi siano due tipi di verifica delle proposizioni: diretta ed indiretta. Se una questione riguarda una percezione attuale come “ora vedo un grattacielo”, allora tale proposizione può essere verificata direttamente dalla mia percezione attuale: in pratica la percezione e la verifica coincidono, o, se vogliamo, non v’è bisogno di verifica oltre la percezione.
Mentre una proposizione P non percepita attualmente deve poter esser verificata indirettamente, cioè verificando direttamente proposizioni dedotte da P assieme a proposizioni già verificate. Esemplificando, traendo l’esempio di Carnap (Filosofia e sintassi logica), “questa chiave è fatta di ferro” può esser verificata in vari modi, come mettere un magnete vicino alla chiave e notare la reazione. La deduzione è la seguente:
Premesse:
P1: “Questa chiave è fatta di ferro”: la proposizione che deve essere esaminata.
P2: “Se una cosa di ferro è posta vicino ad un magnete essa viene attirata”: proposizione già verificata.
P3: “Questo oggetto – una barra – è un magnete”: proposizione già verificata.
P4: “La chiave è posta vicino alla barra”: proposizione verificata direttamente.
Da queste premesse possiamo dedurre:
P5: “La chiave sarà ora attirata dalla barra”.
Se P5 risulta vera allora abbiamo trovato un esempio positivo (e non un esempio di verifica: il controllo non è finito; si faranno altre indagini e così facendo il grado di certezza di P1 aumenterà, senza mai raggiungere la certezza assoluta), in caso negativo si sarà falsificata P1.
La differenza tra la concezione forte e quella debole sta nel fatto che nella prima si deve mostrare un sequenza di controllo concretamente attualizzabile, mentre nella seconda basta una sequenza di controllo in linea di principio attualizzabile.
Quindi “In questo preciso momento c’è una zanzara posata sul tavolo” ha senso secondo il verificazionista forse se e solo se può verificare ciò direttamente o in qualche modo analogo (aveva messe una telecamera che riprendeva il tavolo, etc…), e quindi in generale per lui non avrà alcun senso; mentre per il verificazionista forte ha senso in ogni circostanza perché può immaginare di esser stato lì ad osservare il tavolo, anche se era in giardino, o di aver piazzato una telecamera.
Come si nota facilmente il verificazionismo forte non è accettabile perché neppure una proposizione banale quale “In questo preciso momento c’è una zanzara posata sul tavolo” viene ritenuta sensata.
Avremo già raggiunto il nostro intento primario, mostrare cioè che il fisicalismo è falso; ma il fisicalismo potrebbe benissimo basarsi sul verificazionismo debole, concezione della quale non abbiamo dimostrato ancora la fallacia. Allora qui di seguito dimostrerò come il verificazionismo, a prescindere dal tipo specifico al quale ci si riferisce, è insoddisfacente per comprendere il mondo, e quindi falso.
La conseguenza del Verificazionismo è che solo le proposizioni empiriche hanno senso, scartando ogni proposizione metafisica.
Ma la frase “Solo le proposizioni empiriche hanno senso” non è empirica, è metafisica e sarebbe quindi insensata; anche la frase “Il senso di una proposizione è il metodo di verifica di questa” si autoannulla: infatti, metodi per verificare tale proposizione non vi sono.
Ma i limiti del Verificazionismo non sono solo quelli autoreferenziali appena esposti, molti sono i limiti concreti che tale posizione porta con sé. Ecco una lista di possibili proposizioni evidentemente sensate, ma dal Verificazionismo bollate come non-sensi:
-
Lui sta segretamente pensando di comprarsi una macchina nuova.
-
Tutti i corvi sono neri.
-
Dopo la morte fisica noi continueremo a sopravvivere.
-
Esiste almeno un essere intelligente, che non sia un essere umano.
-
Quel ragazzino sta soffrendo moltissimo da quando sua madre è morta, ma tiene ben nascosto tale sentimento.
-
Il dolore che provano le donne durante il parto è veramente intenso.
(L’unica frase un po’ problematica, che richiede, cioè, opportune chiarificazioni, è la 3; tuttavia, una volta superate tali difficoltà linguistiche, anche la 3 è sensata.)
In generale: ogni processo mentale e ogni stato mentale (che non siano i propri) e molte proposizione con quantificatori sono ritenute, non false, bensì insensate. Ovviamente altre proposizioni sensate sono messe da parte per (presunta) mancanza di senso dai verificazionisti, oltre quelle presentate nella lista.
Tuttavia queste proposizioni sono tutte riconosciute da noi come dotate di senso; noi probabilmente non sappiamo se esse siano vere oppure false con sicurezza, ma sappiamo che hanno un senso, e che sono o vere o false, anche se noi non possiamo verificarle a dovere.
Da ciò si deduce la fallacia del verificazionismo e, di conseguenza, quella del fisicalismo.
Ogni oggetto non contraddittorio è legittimo che esista.
Ogni fatto non contraddittorio è legittimo che esista.
Non c’è una interfaccia (qualia, sense data, …) tra l’Io e il mondo. Non v’è, per così dire, la mente che osserva i dati sensoriali.
L’esperienza sensoriali deve esser intesa prevalentemente come esperienze di aspetti del mondo da parte di un essere vivente, non come modificazioni passive di un oggetto chiamato ‘Io’.
Bisogna quindi distinguere attentamente tra l’attività di rappresentare (come qualcosa in cui ci si impegna) e l’idea di rappresentazione diametralmente opposta e che ho appena rifiutato (come un’interfaccia tra noi e ciò che pensiamo/percepiamo).
Illusioni ottiche e allucinazioni varie dimostrano la non infallibilità della percezione, ma ciò non implica che la percezione è sempre falsa.
I limiti del linguaggio sono i limiti del nostro mondo, non del mondo.
Il logico Gödel ha scoperto che esistono proposizioni vere non dimostrabili in un dato linguaggio formale, decostruendo definitivamente la nozione metafisica di ‘verità matematica’ (o ‘verità formale’). Ciò è quello che Wittgenstein chiamava ‘il Mistico’. Sull’altro campo, Heisenberg ha decostruito la nozione metafisica di ‘realtà fisica’, secondo il quale non si possono misurare contemporaneamente quantità complementari (posizione-velocita di una particella, oppure durata-energia di un evento, etc…). Nel Novecento vennero così sostituite le nozioni metafisiche di ‘verità matematica’ e ‘realtà fisica’ con quelle operative di ‘dimostrabilità matematica’ e ‘misurabilità’.
Propongo così di aggiornare il termine wittgensteiniano ‘Mistico’ ed estenderlo: il Mistico non rappresenterebbe solo il nostro limite logico-linguistico, bensì anche il nostro limite conoscitivo-empirico.
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