La Riflessione Indice
Quale amore? Quale felicità?
di Domenico Pimpinella – luglio 2007
- Capitolo 3 - Cosa si oppone al miglioramento
Paragrafo 4 - Seconda trappola: l’immutabilità
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Ogni uomo credo riesca ad avvertire in modo chiaro nella propria vita la sensazione che i mutamenti che lo interessano dalla nascita alla morte siano più che altro dei cambiamenti di facciata. E’ come se, fin dal momento in cui prendiamo coscienza della nostra individualizzazione, una voce interiore ci suggerisse di essere un’essenza immutabile che in qualche modo si trova chiusa in un corpo mutevole, quasi sua prigioniera.
Una voce che assolutamente non mente! In effetti, sotto l’involucro del corpo c’è una mente che è in parte espressione della filogenesi e in parte dell’ontogenesi. Così mentre il corpo va incontro a macro trasformazioni evidenti, ben visibili, nell’arco di tempo che va dalla nascita alla morte, la mente rimanere per una grandissima parte sostanzialmente la stessa. Si potrebbe paragonare la mente ad un iceberg con una parte affiorante davvero minima rispetto a quella che rimane sotto al livello dell’acqua e non si vede. La mente, in quanto architettura neurale, passa pressoché invariata da una generazione all’altra, diversificandosi quasi esclusivamente per quei cablaggi messi in opera dall’esperienza e chiamate sinapsi. Ognuno di noi, quindi, è effettivamente qualcosa di immutabile, che di tanto in tanto va incontro a qualche trasformazione dell’architettura neurale che riesce in questo modo a trasmettere alle generazioni successive dei cambiamenti significativi.
Si è sempre sostenuto che questi cambiamenti siano dovuti al caso, come se davvero si potesse affermare con assoluta certezza che “dietro” di essi non ci possa essere alcun disegno prestabilito, pre-determinato. Potrebbe essere così, ma potrebbe anche essere che l’attuale ignoranza, l’attuale limitatezza di vedute non ci consenta di scorgere, per ora, alcun disegno. Si dovrebbe usare, quindi, la parola “casualità” con la dovuta parsimonia e criticità, visto che di tanto in tanto dei disegni affiorano là dove un tempo non c’era assolutamente nulla.
Ritornando alla mente, possiamo comunque sostenere che la sensazione di essere un elemento immutabile intorno al quale “accadono” delle trasformazioni, come se ci fosse un “involucro”, corrisponde fondamentalmente a verità.
Allora perché sostenere che l’immutabilità sarebbe una trappola?
Casomai dovrebbe essere la consapevolezza della estrema mutabilità a dover essere considerata una trappola in cui è caduta la razionalità, al pari della finitezza.
I Parmenidei avrebbero così la loro rivincita nei confronti degli Eraclitei.
Invece no! La trappola in cui è caduta la razionalità è proprio l’immutabilità, ma non perché essa non sia una sensazione veritiera, ma perché è stata attribuita dalla razionalità all’ontogenesi, e non, come avrebbe dovuto essere, alla emotività, alla filogenesi.
Se attribuiamo l’immutabilità all’ontogenesi, se crediamo che l’estrema mutabilità a cui è pervenuto l’essere razionale debba attribuirsi a qualcosa di esteriore, sostanzialmente ad una facciata e non alla struttura che le sta sotto, si tenderà anche ontogeneticamente all’invarianza, a stabilizzare, a cristallizzare il più possibile la nostra esistenza privandola di un’autentica storicità.
La tendenza, invece, dovrebbe essere assolutamente opposta! La razionalità dovrebbe funzionare come un laboratorio estremamente sofisticato dove si dovrebbe sperimentare su se stessi un’estrema variabilità di essere. Un modo di essere che è una possibilità sperimentale momentanea che non va quindi a trasferirsi automaticamente sulla filogenesi che, invece, deve tendere, non dico all’invarianza assoluta, ma ad una variabilità estremamente cauta, dove i cambiamenti dovrebbero essere verificati attraverso più generazioni in modo tale che cambiamenti permanenti diano effettivamente luogo a dei miglioramenti.
Sostenendo che il nuovo è grazia, A. Masullo sostiene la migliore sperimentalità ontogenetica che è intervenuta nell’essere umano con la conquista del razionale e che noi dovremmo sfruttare consapevolmente. Puntando a variare sé stesso, ad essere, piuttosto che ad avere, come direbbe Fromm, si finisce per realizzare una messe elevata di possibilità dalle quali può uscire fuori quella che potenzialmente ha maggiori attitudini a comporre la società, l’umanità, in maniera più solida e permanente. La maggiore tendenza ad Avere denota invece una “chiusura” del laboratorio per paura che la variabilità, il repentino, possa toglierci le sicurezze acquisite. E’ questo un falso storico senza precedenti! Il “laboratorio razionale” può forgiare una messe estremamente variabile di “tipi psicologici”, di caratteri, che però non trasmutano automaticamente, geneticamente, in nuovi temperamenti. Ci vogliono generazioni e generazioni affinché questo possa avvenire, affinché determinate caratteristiche possano “fissarsi” in temperamenti, perché utili.
Quando Masullo sostiene che La dimora propria dell’uomo è il tempo dice sostanzialmente il vero, in quanto è proprio attraverso una piena consapevolezza del tempo che ci è consentito di realizzare quel grande evento che sarebbe la nascita di una “umanità biologica”. Se invece di fronte a questa consapevolezza affiora il timore, se crediamo, come abbiamo sempre creduto, che la morte ci annienta definitivamente perché non sappiamo “vederci”, “coglierci” nella filogenesi, allora può effettivamente intervenire un “irrigidimento” che ci blocca, come la voragine, seppure colmata da un vetro resistente, blocca il neonato che non è in grado di avvedersi che quella voragine è in realtà un’illusione in cui è caduta la mente.
La nostra idea consapevole dovrebbe allora cogliere una duplice realtà: la realtà della filogenesi che deve tendere ad una certa invarianza, acquisendo quelle trasformazioni, quei cambiamenti che si fossero dimostrati veramente positivi e quella dell’ontogenesi che deve invece tendere ad un’estrema variabilità per permettere una storicità che possa farci tendere verso una trasformazione dell’individualità in senso maggiormente sociale, in modo, cioè, che diventi idonea alla realizzazione delle già citate unità autpoietiche di terzo ordine.
Attribuire immutabilità all’ontogenesi significa cadere in una trappola involutiva che ci sta portando verso il tentativo di stabilizzare in senso statico e non dinamico l’esistenza.
Paradossalmente, dovremmo rovesciare completamente l’assunto espresso con uno slogan dal principe di Medina, nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, il quale disse che bisognava cambiare perché ogni cosa potesse restare sempre uguale. Noi invece dovremmo dire: Occorre cambiare incessantemente perché possa emergere la possibilità di migliorare anche la nostra filogenesi, di cambiarla, portandola dagli attuali individui pluricellulari ad una società pluriindividuale.
Se avessimo dovuto aspettare che fosse la conoscenza emotiva a farsi carico di questa completa trasformazione, avremmo sicuramente impiegato tempi lunghissimi. Invece la razionalità può agire come un potentissimo catalizzatore, accorciando enormemente i tempi. Il problema che si pone, purtroppo, è quello della direzione sbagliata: invece di andare verso la realizzazione consapevole di una maggiore realtà sociale, del tipo Arapesh per intenderci, siamo andati verso la realizzazione di una realtà sociale di tipo Mundugumor. Il motivo non è, come si tende a credere, nella natura intrinseca dell’essere vivente e più specificatamente dell’uomo che non può fare a meno di essere egoista, ma nella cattiva interpretazione che abbiamo dato razionalmente dell’individualità. E’ in seguito al fatto di avere interpretato l’individualità come una realtà che non può essere diversa da quello che è, che deve, quindi, stabilizzarsi in questa forma, che la stessa razionalità ci detta il da farsi. Un cane, insomma che è costretto a mordersi la coda!
Riuscendo a pervenire e a introdurre una diversa interpretazione è presumibile che possiamo iniziare una storia inversa, con la razionalità che si dovrà dare da fare per inviarci direttive diverse sul da farsi.
Vista così, la nostra storicità, che per un verso deve essere estremamente mutevole in modo che nel laboratorio della razionalità si possa “sperimentare” a tutto gas sempre nuovi modi di essere, e che per un altro verso deve accogliere con molta cautela solo quelle “sperimentazioni” che effettivamente ci possono dare la possibilità di andare avanti senza compromettere la filogenesi, si rivela qualcosa di combinato tra due necessità. Una volta compresa questa cosa, allora la polemica del tipo di quella che vede oggi protagonisti due dei maggiori filosofi italiani, Vattimo e Severino, cadrebbe immediatamente, come d’altronde mi sono permesso di suggerire a Severino, peraltro senza risultato.
La loro polemica come ben si sa verte sull’interpretazione che si dovrebbe dare del termine nichilista. Vattimo, seguendo Nietzsche che afferma che il nichilismo è quella situazione in cui l’uomo rotola via dal centro verso la X: verso l’assenza di fondamenti, la mancanza di certezze, valori e verità stabili e date una volta per tutte,
cerca di andare oltre sostenendo che oggi l’uomo è addirittura troppo poco nichilista.
Secondo Vattimo infatti l’Essere dell’uomo è troppo ancorato a caratteri di stabilità, immutabilità, definitività, che ha ricercato per secoli con lo studio della Metafisica, non gli consentono di adempiere in pieno alla propria natura per così dire “sperimentale”. Vattimo coglie in pieno il ruolo della razionalità, di questo laboratorio culturale che si serve di una chimica diversa; che invece del gene utilizza il meme, ma poi sembra trascurare il ruolo dell’istintività, dell’emotività che sono le custodi storiche degli eventi vitali, impegnate invece a far si che il fermento della ragione possa creare una grande variabilità fine a se stessa, un tremendo caos, seguendo quell’aumento di entropia “naturale” che dovrebbe invece contrastare.
Vattimo invoca Heidegger, sostenendo l’esattezza della sua riflessione a proposito della morte, che solo nel momento in cui viene “interpretata” correttamente come possibilità ultima ineludibile riesce a farci comprendere la funzione sperimentale dell’ontogenesi che non potrà mai costruire per se stessa alcunché di stabile e duraturo e che quindi non è quello il nostro compito razionale.
Per Severino, invece, essere nichilisti significa pensare che le cose del mondo e le cose concrete, e questa stanza e le stelle e le piante e gli uomini sono niente.
Ovviamente per Severino non c’è una vera e propria consapevolezza dell’essere nichilisti poiché non è la ragione a considerare “niente” le cose, ma lo diventano per l’inconscio nel momento stesso in cui le si colloca tra due niente, come vengono comunemente percepiti il “primo” della nascita e il “dopo” della morte. Così per scongiurare quella che per Severino rappresenta la deriva, non tanto verso la X, ma verso il nulla, ha bisogno di sostenere che tutto è eterno, per affermare che non può esservi un passaggio dal nulla all’essere come non c’è neppure quello dall’essere al nulla. Se si prende come punto di riferimento la filogenesi, ecco che allora le ragioni di Severino diventano le stesse della conoscenza stabile, permanente, che si cela nella conoscenza pre-razionale. Che per questo tipo di conoscenza tutto sia eterno, anche l’errore, come Severino sostiene, è attestato dal fatto che ogni cosa, ogni entità, materiale e non, alla fine corrisponde ad un qualche circuito neurale riproducibile, ad un qualche cablaggio da cui deriva quel pensiero che non sarà mai più “cancellato” come pura possibilità.
Nella sostanza l’idea di Severino può essere paragonata a quella di Hegel che ci ha detto che il reale è razionale e il razionale è reale, laddove per razionale deve essere intesa la possibilità che certe creazioni dell’intelletto si presentino come insiemi di perturbazioni “esterne” capaci di ricreare quello stesso fenomeno interno. “Un asino che vola”, per esempio, sarebbe razionale e apparterrebbe all’eternità se ci si presentassero effettivamente alle porte dei sensi un insieme di perturbazioni tali da ricreare effettivamente quell’evento; ovviamente senza utilizzare trucchi, senza ricorrere all’inganno. Comporre delle proposizioni razionali vorrebbe dire proprio questo: avere capacità di prefigurarsi le effettive possibilità del reale, in modo da poter agire per realizzarle.
Se ragionassero in questi termini Severino e Vattimo alla fine troverebbero il modo di mettersi d’accordo, contribuendo ad evitare che il pensiero consapevole possa continuare a perseguire gli obiettivi di immutabilità che sono prerogativa, invece, di quell’essere autopoietico già in linea di massima strutturato che è l’individuo pluricellulare. Il quale per potersi evolvere ulteriormente verso una nuova struttura autopoietica di ordine superiore deve ritrovare, invece, una certa plasmabilità, una nuova storicità, per riuscire a trovare quegli equilibri interni che possano permetterglielo.
Proprio perché non siamo ancora pervenuti a questi nuovi equilibri che manca una forte desiderabilità dello sviluppo sociale autentico. Una desiderabilità di certe “costruzioni” sociali che può essere chiamata amore, al pari dell’innamoramento che è una costruzione sociale tra differenti esseri sessuati. Ma affinché questa desiderabilità, questa spinta passionale possa emergere, occorre che sia chiaro l’obiettivo sociale verso cui dovremmo tendere, perché solo così si può riuscire effettivamente a realizzare un nuovo punto di equilibrio interno capace di renderci gioiosi, capace di mettere sul piatto dell’emotività nuovi piaceri.
Se vogliamo, anche la mutabilità dell’ontogenesi, disgiunta dall’immutabilità della filogenesi, costituisce una trappola, della quale Severino compie una veemente denuncia. Una trappola che finisce per farci fare della singole vite spesso un gran falò, un consumo esplosivo ed immediato. E’ in questo modo che si può “bruciare” un’intera esistenza in una folle corsa in automobile, o nel consumo di droghe e di alcool. Questa però è una moda degli ultimi tempi ed è ancora una eventualità tutto sommato marginale.
La grande trappola è, invece, sicuramente rappresentata in maniera massiccia dall’immutabilità, dall’idea di rappresentare, nonostante le apparenze, qualcosa di immutabile con la nostra ontogenesi, con la razionalità, che acquisisce così impropriamente il “diritto” a trasformare, cambiare, manipolare qualunque cosa possa ledere un tale diritto. La trappola è vedere un’essenza al di sotto dei fenomeni che avrebbe addirittura la possibilità di continuare un’esistenza anche privata delle proprie spoglie mortali. Un’essenza che invece andrebbe vista nella filogenesi, nella continuità tra genitori e figli, che dovremmo considerare come un’esistenza che non ha soluzioni di continuità, ma di sperimentabilità. Se non si arriva in maniera convinti a questa riflessione, allora scatta una trappola che ci condiziona pesantemente e da cui dovremmo liberarci al più presto.
Smantellarla non è facile, come non lo è smantellare quella della finitudine per poter guardare all’Io come ad un Noi in formazione, in fieri. Azzerare gli spazi tra genitori e figli come pure tra individuo e individuo, dovrebbe essere l’obiettivo, la grande prospettiva d’amore, che la razionalità dovrebbe cercare di conseguire nel suo immenso laboratorio.
Per smantellarle dobbiamo innanzi tutto decostruirle ripensando criticamente ai percorsi storici che le hanno consolidate nel comune modo di pensare. Percorsi seguiti con un lavoro certosino dal pensiero che ad un certo punto si è ritrovato scisso in due grandi strade: la scienza e la religione, che rappresentano oggi i pilastri che reggono la fede nella finitezza e nell’immutabilità.
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Questo saggio è un testo in fieri, l’autore offre ai lettori l’occasione di partecipare alla sua composizione e quindi al suo sviluppo. Per proporre correzioni, miglioramenti o altro, scrivere a suggerimenti@riflessioni.it verranno presi in considerazione solo scritti sostenuti da valide spiegazioni.
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