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Psicologia - Processi mentali ed esperienze interiori. >>> Sezione attiva sul forum LOGOS: Percorsi ed Esperienze |
13-06-2004, 01.51.47 | #5 | |||||||||
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Data registrazione: 09-06-2004
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Neanche io. Citazione:
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Ciao, lunga vita a te. Ultima modifica di lunaticamente : 13-06-2004 alle ore 01.56.25. |
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13-06-2004, 02.17.30 | #6 | |
unforgivable
Data registrazione: 09-06-2004
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Re: Re: Difficoltà di comunicazione.(esperienze personali)
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Anch'io avrò sempre uno scopo nella vita, purtroppo, avrei preferito evitare questo specifico scopo però, e magari accontentarmi di un paio di "cazzate" E' troppo, troppo faticoso, ci fosse stato l'amore almeno, tutto si sarebbe ridimensionato, tutto sarebbe diventato sopportabile, con l'amore è come dividere a metà i pesi che si portano, vero no? ma non sarebbe comunque stato risolto. e poi straparlo, è notte... buonanotte grazie iris per le belle parole, non ho troppa confidenza con le donne, ( vedi il "duro" nella mia favola) ma anche fossi stata un uomo sarebbe stato difficile non capire che sei donna, hai modi completamenti differenti, anche dai miei. |
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13-06-2004, 06.53.27 | #7 |
Ospite abituale
Data registrazione: 27-01-2004
Messaggi: 343
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dici di sentirti linguisticamente inadeguata ...
...non direi; nel linguaggio comune tutti usiamo, per forza di cose, un vocabolario limitato perchè più semplice, immediato e veloce(semplicità e velocità di comprensione vanno sempre a braccetto)A nessuno verrebbe mai in mente di dire ad una persona'ho gradito il tuo eloquio ', ma piuttosto'mi è piaciuto il tuo discorso'.Tutti conosciamo tante parole , a conti fatti, ma difficilmente le usiamo veramente tutte.A volte , nel caso di parole di uso comune , invece,non ci vengono immediatamente sulle labbra ...eppure sono nella testa....pazienza,si usano perifrasi o sinonimi. Per quanto attiene invece il tuo scrivere e il tuo parlare che dici privo della capacità di focalizzazione su una linea comune, anche questo non lo trovo un difetto;l'impressione che mi hai dato è quella di essere una persona che ha molto da dire, che sa trovare nelle pieghe delle parole, delle singole parole altri orizzonti , altri spunti per altri discorsi, altre finalità discorsive e che segue il flusso della sua coscienza e delle sue emozioni. Sai chi faceva così? Virginia Woolf, non a caso i suoi sono romanzi definiti come 'flusso di coscienza',sembrano dei fiumi di parole che si perdono in rivoli ,alcuni dei quali si riconnettono al flusso principale, altri rimangono sospesi...a volte si segue un continuo cambio di rotta, di discorso....proprio come quando uno pensa. non ci trovo nulla di male in te;sei una persona sensibile, consapevole delle sue emozioni che non reprime, con tanta voglia di comunicarle nella loro immediatezza....che problema c'è? Ultima modifica di mark rutland : 13-06-2004 alle ore 07.00.19. |
13-06-2004, 09.16.16 | #8 |
Ospite abituale
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rileggendo i tuoi interventi mi ha colpito il fatto che nel momento che imposti un discorso ti lasci appunto andare al flusso di coscienza;l'impostazione non segue un filo logico rettilineo quanto piuttosto l'urgenza di comunicazione apparentemente incoerente ma che in realtà una sua logica ce l'ha .
Quando invece hai replicato a Neman1 hai spezzettato il suo intervento, lo hai analizzato con precisione nelle sue implicazioni e replicato punto per punto, in maniera coerente,ordinata, organica e quasi settoriale. Le capacità di analisi delle logiche che articolano il discorso nelle sue minuzie ci sono tutte in te e anche lasciarsi andare al flusso di coscienza non è del tutto male.Evidentemente però non lo vivi come una modalità espressiva efficace...vorresti essere più ordinata, decisa ecc anche nella parola. Domanda;come consideri le persone ordinate(anche nella vita di relazione, non solo nei discorsi, ecc)?noiose, prive di accenti interiori o una meta irragiungibile? se le vedi come irragiungibili potrebbe darsi che in fin dei conti non ti interessa arrivare a quel punto:forse pensi di DOVER essere una persona di un certo tipo per compiacere te stessa, o l'immagine che hai di te, o che gli altri hanno di te , ma allo stesso tempo non ti interessa molto ESSERE in quel modo sia perchè significherebbe snaturarti, sia perchè implicherebbe un lavoro troppo lungo in termini di tempo o forse perchè vivi bene con te stesa , pur rinnegandoti o forse questo, manifestare le tue difficoltà è il tuo modo per chiedere attenzione, amore, comprensione che forse senti carenti nella tua vita....e cmq non ci sarebbe nulla di male anche in questo..... |
13-06-2004, 10.02.16 | #9 |
unforgivable
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La comunicazione, il linguaggio vero, quella di cui parlo io, credo sia composta da due cose fondamentali. Due canali: uno ricevente e uno emittente.
Per questioni di lavoro, alcuni mesi or sono feci un corso, di quelli gratuiti, che non puoi rifiutarti, per la sicurezza sull’azienda. All’interno di questo stesso corso c’era una psicologa, un’ora di corso delle 12 previste in totale. Aveva un compito ben preciso, spiegare cose ben precise, per un utilizzo invece non meglio identificato, per la serie” ognuno ne faccia ciò che crede” forse non era proprio così o così non sarebbe dovuto essere né in origine né nell’intento, ma in base a ciò che spiegò a quello che ci comunicò, ne venne fuori secondo me proprio questa ipotesi. Disse ( ma proprio in due parole, perché ricordo il concetto ma non come lo formulò) che nella comunicazione c’è sempre un ricevente e un emittente, che non son sempre gli stessi, si scambiano di frequente di ruolo, ma sempre un ricevente e un emittente servono perché ci sia comunicazione, il ricevente, come dice la parola stessa, è colui che riceve, l’emittente viceversa, e altrettanto ovviamente, è colui che comunica. Io comunico, ma prima di comunicare devo pensare a ciò che voglio comunicare, e il pensiero si sa, è difficilmente traducibile ( infatti per me Virginia Wolf è complicatissima da leggere, avevo cominciato con un suo saggio “Una stanza tutta per sé” ma dopo aver letto una decina di volte le stesse dieci pagine ho regalato il libro) ( la persona a cui l’ho regalato mi confidò in seguito di aver comperato altri libri della Wolf, perché le era piaciuta molto e non la conosceva, ne parlava estasiato, e io ho provato invidia, feroce invidia), per cui lo devo, per così dire, in tema di tecnologia, “scompattare”: estrapolare solo quelle parti che ritengo si possano comunicare, con facilità, con la certezza che abbiano un senso per chi mi sta davanti. La facoltà di rendere comprensibile un pensiero; nel linguaggio quotidiano questo naturalmente avviene in modo naturale, senza posarci sopra alcuna attenzione tanto è spontaneo, ma non sempre si discute di quotidiano, capita di voler affrontare tematiche, o solo discorsi più pieni, o anche discorsi tra amici, che possono vertere su mille e mille cose, alcune semplici altre molto meno, ascoltare qualcuno che ti parla di sé ad esempio, lo trovo spesso faticoso se non voglio scadere nel semplificare troppo e uniformare ciò che prova a ciò che provano tutti gli altri o che magari ho provato io. Poi c’è il ricevente, che riceve ciò che viene emesso, già scompattato secondo le modalità altrui, che possono non combaciare con le tue modalità di apprendimento, o meglio, “ le esperienze di uno difficilmente o mai sono le esperienze dell’altro” possono essere simili, avvicinarsi un po’, o essere totalmente diverse, la lingua di origine, la cultura, la provenienza generano queste diversità, ma anche il grado di preparazione avuta e, acquisita. “La mappatura” in psicologia si chiama, la mappa mentale e individuale che ci portiamo dentro dalla nascita e che è perennemente in moto, in continuo aggiornamento assimilando ciò che ci succede intorno e fissandolo dentro di noi, sia che lo riteniamo valido oppure no, la mente spesso fa distingui, ma più spesso assimiliamo molto più di ciò che davvero ci interessa, ed è giusto che sia così. ( questa è solo una mia opinione, niente di scientifico certamente) Comunque, così come l’emittente ha un compito ingrato: estrapolare parti del suo pensiero e renderlo comprensibile, anche il ricevente non è da meno: assimilare ciò che è stato tradotto, passando prima attraverso il pensiero, venendo così ritradotto a sua volta in base alla mappa di origine di questi per passare infine alla coscienza e fissarlo. Tutto questo detto così è molto logico, perfino molto bello, ma quando intercorrono certi meccanismi, quando il cervello ha subito dei traumi, quando molte cellule non ci sono più, e non si sa di preciso quali siano state spazzate via, converrete con me che il tutto si fa molto più complicato, molto più difficile. Ho esagerato un po’ nella risposta a Nicola, stanotte inoltrata, in effetti questo è il mio cruccio, la cosa che sento più forte perché coinvolge tutto il mio essere da mattina a sera e non vorrei esagerare ancora ma sento che in parte modifichi anche la qualità dei miei stessi sogni, forse pretendo molto da me stessa come qualcuno ebbe modo di ipotizzare un tempo, ma effettivamente non è il mio obbiettivo primario quello di migliorare, forse lo è stato un tempo, ora sono pressoché più rassegnata all’idea che per quanto io faccia gli strumenti che avrebbero dovuto essere in mio possesso e che avrebbero potuto, invece non ci sono, per mie mancanze ovvio, non ho nemmeno mai studiato, mi manca il principio fondamentale per indirizzare nella giusta via tutti i vari collegamenti, cose che si imparano a scuola, per sentito dire. Di fatto io continuo a considerarle “difficoltà di comunicazione” Difficoltà, non impossibilità, ma è tutto estremamente difficile difficile. |
13-06-2004, 11.37.15 | #10 |
Nuovo ospite
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Qui si sta tirando in ballo il principio d’indeterminazione di Heisenberg applicato alla scrittura, intesa come un processo di trasposizione d’un piano metafisico com’è quello del pensiero in un piano oggettuale: quanto più preciso un concetto, enumero i dettagli con maniacale precisione, tanto più noto lo scollamento tra l’oggetto reale e quello materializzato e battezzato dal mio pensiero. Viceversa, quanto più illumino indirettamente il mio oggetto d’indagine, ne sfumo i contorni e ne pongo in evidenza le intime contraddizioni su cui si regge e giustifica, le stesse che però potrebbero minarne la coerenza interna, facendolo svanire davanti ai miei occhi, tanto più sento di averlo compreso, anche se non sarò in grado di presentarlo in altro modo, né avvalendomi di un altro stile: dovrò confidare solamente sulla sensibilità del lettore. Gli argomenti trattati da saggi, articoli scientifici e giornalistici non sono soggetti al principio d’indeterminazione perché non si trovano a dover maneggiare gli oggetti del pensiero che non sono creati dalla ragione, pertanto il loro operare con processi deterministici in una scala macroscopica li sottrae totalmente all’ingrato, ma meraviglioso compito della letteratura.
L’impossibilità di comunicare le esperienze interiori tramite il realismo psicologico è la grande scoperta del Novecento in letteratura. Joyce credeva fosse possibile giungere alla realtà solo in alcuni rarissimi momenti “epifanici”, attimi in cui la verità delle cose ci soggioga come una rivelazione, e nella vita quotidiana si produce una manifestazione dello spirito che è ad un tempo momento realistico e momento d’intensa emozione, spesso collegata ad un piacere estetico. Il flusso di coscienza (vedi anche Faulkner), che altro non è che il pensiero grezzo come fluisce fuori dalla mente nello stadio preorale, lo stravolgimento delle regole formali della composizione, addirittura la creazione d’un nuovo linguaggio in cui confluivano suoni onomatopeici, termini mutuati dai più disparati campi del sapere, erano gli unici strumenti che a suo parere avrebbero potuto consentirgli di trasportare i momenti epifanici sulla carta. Proust aveva i suoi “momenti d’infinito”, nei quali l’intelligenza dei sensi, profondamente distinta da quella della ragione, congiunge l’attimo presente con uno lontanissimo nel tempo, in virtù dell’affinità tattile e visiva tra questi, e gli restituiva le stesse identiche emozioni provate in quel momento passato, ripristinando una continuità temporale che è poi la vera realtà dello spirito, che non può e non deve conoscere il trascorrere delle stagioni. L’azione è spesso completamente assente dal suo grande capolavoro, le descrizioni straripano in una moltitudine di dettagli che fanno bruciare gli occhi e le analisi psicologiche sono al tal punto approfondite che i personaggi acquistano un grado di plasticità e volume che rasenta l’invadenza: il tempo si dilata dentro le pagine, e la voce narrante è fin da subito troppo intima, ti viene a raccontare di segreti che non sei sicuro di voler sentire. Ma lui non sbatte contro il principio di indeterminazione di H. perchè l’immaginazione e la memoria del suo alter ego, Marcel, trasfigurano continuamente i ricordi e gli eventi, incuranti di qualsiasi coerenza intellettuale che non sia quella dei “momenti d’infinto”, e perseguono sempre e comunque il soggettivismo relativistico, in virtù del quale al termine della lettura del “Alla ricerca del tempo perduto” non sapresti stilare un profilio biografico e psicologico di Marcel (il quale presuppone un’organizzazione coerente delle informazioni ed una sintesi asettica dell’inesprimibile varietà d’un essere umano), ma quest'ultimo ti sembra più reale e vero dell’amico che conosci dal tempo dell’infanzia. Addirittura un scrittore tedesco, Bernhard, insiste profondamente sull’incomunicabilità dell’esperienza, e crea alcuni personaggi folli, al quale palesemente il lettore di primo acchito non riconosce alcuna credibilità, quali il principe di Sarau, che si producono in lunghissimi e solipsistici monologhi intrisi di tutto il pessimismo teutonico, professando l’inutilità della comunità umana e della comprensione reciproca che l’anima dei cittadini pretende di distillare, quando invece si tratta di una rozza trasudazione, di fronte ai dilemmi dello spirito e della morte. Al termine della lettura il risultato è ancora una volta un personaggio in cui ti riconosci profondamente, anche se tu fossi un’assistente sociale profondamente convinto dell’importanza del tuo compito. In conclusione volevo dire alla nostra amica che lei vuole rimanere troppo fedele al suo io, dal momento che credo non gli riconosca la capacità di mutare continuamente, che crede troppo al potere battesimale della parola, come se solamente una di questa potesse toglierla dall’ impiccio, che il suo obiettivo è in realtà di fare letteratura, non semplicemente d’esprimersi, e per questa le mancano notevoli mezzi espressivi, nonché tecnici, ma soprattutto che non si è accorta che il motore della migliore letteratura è l’inesprimibile, il conflitto, la contraddizione, il paradosso, la sofferenza: dovrebbe quindi ringraziare le difficoltà della vita e quanti più tasselli del puzzle della sua esistenza non sono ritornati a posto, qualora si decidesse a scrivere o a parlare di se stessa. Cito Proust: "L'immaginazione, la riflessione, possono sì essere di per sé macchine meravigliose ma possono anche restare inerti. E' la sofferenza a metterle in moto. Si può quasi dire che le opere, come nei pozzi artesiani salgono tanto più in alto quanto più profondamente la sofferenza ha scavato nel nostro cuore.” Deve inoltre capire che l’angoscia, il senso di non essere mai giunti al nocciolo di ciò che si vorrebbe dire, è esattamente ciò che gratifica di più dello scrivere: è quello che ti fa stare alla scrivania tremando, contorcendoti nel tentativo di sciogliere nodi gordiani di cui non ricordavi l’esistenza dentro la tua anima, straripando di gioia appena compi un minimo progresso, cosciente del grandioso tentativo a cui aspiri (sebbene tu non sia un’Artista), se non altro perché il tuo vicino di casa non sa fare altro che le parole crociate. Io ho letto moltissimo (la grande letteratura), d’altronde non è il mio mestiere purtroppo, e ho trovato la mia realtà nella finzione degli altri. Ti auguro la stessa cosa. Ho come l’impressione di avertelo già detto, ma forse è un deja vous. Non capisco ancora da quale romanzo salti fuori. Ultima modifica di Isao's_Seppuku : 13-06-2004 alle ore 11.53.21. |