Ospite abituale
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E' morto a 74 anni l'autore di "Storie di ordinaria follia".
Girovago, alcolista, rifiutato dalla società americana, conobbe la gloria in Europa. E divenne una leggenda.
di Fernanda Pivano
Charles Bukowski è morto l'altro ieri in un ospedale di San Pedro (California), dov'era ricoverato per leucemia. Aveva 74 anni. Dai suoi libri sono stati tratti due film famosi: "Storie di ordinaria follia" di Marco Ferreri e "Barfly" di Barbet Schroeder.
E' morto Charles-Henry-Hank Bukowski, sposato con la dolcissima Linda Lee Beighale, padre di una figlia ormai adulta avuta dalla prima moglie: è morto di leucemia o di polmonite o delle orribili cose di cui si muore a conferma che la vita non è così bella come cercavamo di fargli credere, circondato dai fiori coltivati da Linda e dai tre gatti raccolti qua e là perché non morissero di fame.
Ora arriveranno le cronache, i soliti pettegolezzi, li dovremo anche raccontare ma c'è una cosa che vorrei dire per prima: che Bukowski era un grandissimo scrittore, uno scrittore nato, un narratore della levature forse di un Hemingway, certo di Norman Mailer (e con l'ambizione di entrambi), uno scrittore nato che si metteva lì, con gli occhi socchiusi da animale braccato e quel sorriso alla Mickey Rourke, a rispondere sottovoce, lentamente a una domanda finchè la risposta non prendeva forma e diventava intensa.
Così, presto, ci accorgevamo di ascoltare un racconto, di quelli che poteva benissimo pubblicare, intensi, disperati come tutto quello che scriveva, senza futuro, sempre intrisi di dolore, senza speranza e senza sorriso: solo in compagnia del vuoto di chi ha conosciuto la sabbia portata dal vento tra le immondizie e gli scarafaggi su pareti senza colore.
Passavo giornate intere con lui, dal tramonto quando tornava dalle corse, felice se guadagnava 25 dollari molto più se gli avevano stampato 500 mila copie di un libro. "Che cosa racconterai ora che hai raccontato tutto anche della tua infanzia?", gli chiedevo. "Non ti preoccupare", mi diceva sornione.
Avrà pubblicato anche la storia della sua morte? Da mesi non riuscivo a parlargli; rispondeva al telefono una voce femminile, forse era una governante, o un'infermiera, mai quella di Linda. Quando fecero a Venice un manifesto per la guerra del Golfo, Silvia Bizio, nostra comune amica, mi disse che Bukowski non andò, ma per la prima volta scrisse tre poesie contro la guerra. Le recapitò a Linda e Linda le lesse forte per lui. "Non stava bene", disse; e a Natale mandò a Silvia un biglietto di auguri, spiegando che Hank non era ancora guarito.
Voleva essere chiamato Hank; Henry non lo voleva perché glielo avevano dato i genitori, Charles era troppo solenne e poi quello preferito dagli editori. Questi erano Barbara e John Martin della Black Sparrow di Los Angeles, una piccolissima casa editrice di Santa Barbara nata nel 1966 quando Martin, allora capo di una ditta di forniture per uffici, vendette la sua collezione di "prime edizioni" e pubblicò il primo libro di un bevitore famoso, di quelli che bevono nei bar dei marinai, si azzuffano con tutti e finiscono a bere da soli distesi sul pavimento: era poesia esplicita e la prosa ricordava lo stile di Henry Miller. Martin gli offrì 100 dollari al mese perché lasciasse il suo lavoro di fattorino alle poste e lavorasse soltanto a un romanzo. Bukowski lo ascoltò e abbandonò l'impiego: alla fine di un gennaio telefonò dicendo che il romanzo era finito.
Con quella telefonata iniziò la sua carrira di scrittore e anche la fortuna dell'editore. John Martin così sintetizzò il loro incontro: "Il signor Rolls incontra il signor Royce". Intanto Bukowski si conquistò un pubblico facendo uscire qua e là frammenti e racconti sulle riviste che allora si chiamavano underground. La collaborazione più regolare fu quella con Open city, dopo quella al Los e al Los Angeles Free Press; su quel giornale tenne una rubrica chiamata Note di un vecchio sporcaccione che segnò il suo ingresso (1969) nella galleria di letterati della casa editrice di Lawrence Ferlinghetti, la City Lights Books. Il libro fu accolto con disprezzo dalla critica dell'establishment ma Bukowski aveva ormai un suo pubblico che lo andava ad ascoltare ai readings di poesia e non cercava soltanto in lui il "poeta" ma il "poeta maledetto".
Nel 1971 uscì Post Office, il suo primo romanzo, scritto in diciannove giorni, che racconta le sue avventure di postino con donne per lo più mitomani incontrate nelle ore di lavoro e rivela uno stile già molto scaltro nell'uso sia del linguaggio vernacolare sia di un'autoironia non ancora intrisa di cinismo ma già abbastanza densa da sfiorare una personalissima denuncia sociale mescolata ad un forte individualismo anarchico.
Nel 1980, quando facemmo un'intervista di 150 pagine, la sua adolescenza, la sua infanzia, la sua giovinezza, risultarono con una chiarezza ormai priva di dubbi; e intanto Bukowski continuava a regalarci storie su storie e due film dei quali chiacchieravamo nella sua stanza di soggiorno, dove un anno gli riempirono il camino di 51 bottiglie di birra (una di scorta) per festeggiare il cinquantesimo compleanno. Mi faceva cucinare da Linda un minuscolo pesce arrosto e beveva a tavola acqua di Perrier al sapore di cilegia. Poi ritornava a bere nel suo studio del primo piano dove da grande ubriaco si metteva a correggere con minuzia da stilista le pagine scritte la notte precedente.
Quando uscivo mi baciava la mano come uno studente inglese dell'800 e mi porgeva una rosa della sua siepe, lì sulla porta d'ingresso. Un giornalista italiano non ci credette; gli chiese se era vero. Bukowski insaccò il collo da King Kong come faceva quando gli giravano le scatole e disse: "Certo che è vero. Viene qui questa gentile signora che ha passato la vita ad aiutare i nostri libri in Italia: cosa volete che faccia, che la stupri?".
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