Ospite abituale
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Sas Panas
Tutti noi portiamo scolpiti nel cuore dei miti, delle leggende, che ci parlano con il loro linguaggio arcano di storie remote, di vite passate. Miti che abitano i nostri sogni, che popolano le nostre paure o nutrono le nostre speranze. I miti antichi e le leggende popolari sono l’anima vera di un popolo, nascono per partenogenesi dal cuore del popolo antico e si trasmettono a noi in tutto il loro candore. I miti non nascono mai per caso, seppur nel loro dipanarsi fantasmagorico, i miti sono ben radicati nella realtà del popolo che li fa germinare… come la leggenda sarda delle Panas. La prima parte è sempre una scheda estratta da Internet.
SAS PANAS
Quando una donna muore durante il parto, va soggetta a diventare pana o lavandaia notturna, che si reca alle vasche di campagna alla mezzanotte con uno stinco di morto per battere i panni (sa daedda). Vi è in Sardegna qualche donna del popolo che racconta di averle vedute, e aversi fatto da esse imprestare sa daedda, e la pana essersene partita senza riprendersela. Solo alla mattina seguente queste donne si avvidero d’avere portato seco uno stinco di morto, ed allora, per consiglio del confessore, lo riportarono, un’altra notte, alla medesima ora, per restituirlo alla proprietaria, dicendo: Tè sa daedda chi no est sa mia. La pana avrebbe risposto: Pius has ischidu tue ca no deo . --- Affinché dunque una donna morta durante il parto non diventi lavandaia notturna, si usa metterle nella bara un ago col filo senza nodo, un pezzo di tela, un par di forbici, un pettine ed un ciuffo di capelli del marito. E ciò perché essa abbia una scusa legittima da rispondere alle altre panas, che la inviteranno a recarsi alla vasca per lavar le fascie del lattante. Le panas le diranno: Comà, a benides? Ed essa risponderà: Nono, chi so cosende, nono chi so ispizzende (pettinando) a maridu meu .
Per chi muore di parto
“Se attento, in silenzio ascolti il silenzio notturno, se quieti la mente, se la Luna ti assiste e la notte è clemente, se il sonno ritarda e hai l’animo scosso, le senti e le vedi: son sole, disperate e piangenti, sfuggite dal mondo, son figure spettrali, son morte di parto, per questo sono dannate a vagare nel mondo, son incubi in cerca di bimbi a cui suggere il sangue: è la loro vendetta. Sono dette le ‘panas’: nebbiose figure fra gatto e serpente. Se presti attenzione, vagando per valli, le incontri nei pressi di qualche ruscello, fra l’una e le tre della notte. Vi lavano i panni dei propri bambini, battendoli con tibie di morti, è questo il sordo rumore che cogli nel buio argentato della luna, fra querce, fra lecci, in mezzo al lentischio, fra grilli e fra ombre ferali. Le senti intonare tristi ninne o nenie funeree. Puoi solo osservarle, non devi turbarle, ché ti brucian con l’acqua. Il loro supplizio nella terra dei vivi si spegne se il piccolo bimbo diventa fanciullo, e allora più nulla può nuocergli, e loro ripiegano fra i tanti defunti, e chiudono gli occhi per sempre, e gli danno riposo. A capo del piccolo letto c’è il padre che veglia con una piccola falce. La ‘pana’, ammaliata, ne conta i dentini, e il rosso dell’alba la costringe a fuggire. E’ una dura battaglia fra i muri di pietra di povere case e gli effluvi di muffa. Povere donne da tutti temute, son tristi ed irose per i figli mai visti, mai tenuti sul seno, mai potuti allattare. Sfuggite dal mondo e sempre ingiuriate, ma se ascolti col cuore, se le vuoi compatire, capisci che il Fato è stato crudele, ché a loro ha levato il bene più grande, ché il cuore ha spezzato nel momento più bello, e allora ti senti intonare con loro una tristissima nenia, un mesto scongiuro che è una lieve preghiera, ché tanto dolore ti brucia nel petto e aspetti che il Sole risplenda al mattino per riprendere a vivere sfuggendo la sorte di chi ha perso un bambino.”
I vecchi millenari raccontano ancora di averle vedute e sentite cantare.
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